Una vita normale
Ve lo ricordate? Nel dicembre del 2005 un infermiere marocchino, Abderrahim B., rimane paralizzato per una grave lesione alla spina dorsale. Lesione che si era procurato nella sede di Corso Giulio Cesare della cooperativa “Vita Serena”, per la quale lavorava.
Inizialmente si disse che il marocchino era ubriaco e che si era fatto male da solo – del resto, a dar retta alle gazzette torinesi, i marocchini sono sempre ubriachi e autolesionisti.
Ma poi, piano piano emerse la verità. Anzi: “la tremenda verità”, come dissero i giornali per mascherare dietro agli aggettivi il fatto che storie come questa nella nostra città accadono fin troppo spesso.
La cooperativa “Vita Serena” affittava Abderrahim e i suoi colleghi a vari ospedali torinesi, in questo caso al reparto di Medicina d’urgenza delle Molinette. L’Asl, così, si procurava manodopera specializzata flessibile ed economica; la cooperativa “Vita Serena” ingurgitava una bella quantità di denaro pubblico senza molti sforzi – e soprattutto senza tante spese visto che Abderrahim e i suoi colleghi erano pagati poco e saltuariamente; Abderrahim e i suoi colleghi, dal canto loro, lavoravano sodo e guadagnavano poco, però per uno straniero il contratto di lavoro vuol dire permesso di soggiorno.
E permesso di soggiorno vuol dire: niente polizia che ti insegue, niente Cpt, niente alloggi in subaffitto sporchi e sovraffollati, niente paura di uscire la sera, niente paura di uscire il pomeriggio, niente paura di uscire la mattina.
Insomma, per Abderrahim quel lavoro da schiavo voleva dire una vita quasi normale.
Sta di fatto che ad un certo punto passano diversi mesi senza che si veda neanche uno stipendio, e in una vita normale almeno un mezzo stipendio, prima o poi, deve arrivare.
Così Abderrahim va alla sede della cooperativa, chiede del responsabile, Michele Arcuri, fa le sue rimostranze. Arcuri-lo-schiavista è un tipo pratico: va su tutte le furie, prende Abderrahim, lo solleva e lo scaraventa contro un mobile.
Abderrahim è infermiere, e si rende subito conto che il dolore lancinante che sente tra le vertebre vuole dire che non potrà più avere una vita normale. Così implora Arcuri – le testimonianze dicono per un quarto d’ora intero – di finirlo: meglio la morte della carrozzella.
Michele Arcuri non ascolta i suoi lamenti. Impassibile, telefona al 113, e poi al 118, e dice: “Nel mio ufficio c’è un marocchino ubriaco”. I soccorsi arrivano dopo molto tempo, ma di tempo dovrà passarne ancora di più perché la bubbola abituale del “marocchino ubriaco” lasci posto ad Abderrahim ed alla “tremenda verità” della sua storia.
Ora che ve ne state tutti a bocca aperta di fronte alla “tremenda verità” della storia di Abderrahim ci sembra abbastanza indelicato tediarvi sul rapporto che c’è tra esternalizzazione dei servizi pubblici e propaganda razzista – anche perché dovreste arrivarci da soli.
Ci preme dirvi, però, che a difendere al processo Michele Arcuri-lo-schiavista c’erano i fratelli Galasso, del Foro di Torino. Gli stessi avvocati che avevano tenuto la parte civile a nome dei poliziotti in un processo per degli scontri avvenuti fuori dal Cpt, e che stanno difendendo gli agenti del commissariato Dora-Vanchiglia arrestati un anno fa perché nel tempo libero rapinavano gli immigrati. Fratelli Galasso che, per finire, hanno tenuto la parte di quei giovanotti che, nel giugno del 2005, assaltarono coltelli alla mano una casa occupata di Grugliasco – “il Barocchio” – riuscendo quasi a mandare al creatore un paio di compagni.
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