Un ultimo appello
Mercoledì 23 dicembre la Corte d’Appello di Torino deciderà se confermarci o meno la “sorveglianza speciale”.
Siamo accusati di batterci contro il razzismo di Stato e per la chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione per immigrati senza documenti, con l’aggravante di ostinarci a raccontare – su questo blog, su radio Blackout 105.250, in strada – la storia di questa lotta, i suoi metodi e i suoi risultati, e di lottare anteponendo il nostro senso di giustizia ai limiti imposti dalla Legge. Proprio in un momento in cui per Legge anche l’illusione della libertà e dell’uguaglianza di tutti viene abrogata giorno dopo giorno, emergenza dopo emergenza, pacchetto dopo pacchetto.
Ben sapendo che questa città cammina sempre sul filo dell’esplosione, la Questura si è messa in testa che gente socialmente pericolosa come noi non se ne debba andare troppo in giro, per evitare di far diventare socialmente pericolosi anche altri, per evitare che il pericolo dilaghi. I questurini han chiesto al Tribunale di limitare la nostra libertà, quasi che fossimo un focolaio di influenza da isolare o un principio di incendio da circoscrivere. Tesi tanto lusinghiera nei nostri confronti quanto risibile: ma sta il fatto che il Tribunale ha dato loro retta, e sono quasi due mesi che non possiamo partecipare a manifestazioni, non possiamo uscire di casa di notte, non possiamo frequentarci né frequentare chiunque abbia subìto una condanna, e altro ancora.
“Prevenire è meglio che curare” – avran pensato i giudici quando hanno deciso di serrare, almeno un po’, il chiavistello alle nostre porte. Ma hanno preso una cantonata, una cantonata colossale, e basta scorgere le cronache di questi due mesi per averne la prova. A debordare, ora che siamo “sorvegliati speciali”, sono proprio alcune delle pratiche delle quali – a torto o a ragione – i nostri faldoni sono colmi: dagli attacchi ai propagandisti razzisti alla complicità con le lotte dentro ai Cie, dalle presunte “istigazioni” alla resistenza nei quartieri proletari all’occupazione di stabili abbandonati.
Se, prima della profilassi, le contestazioni ai partiti razzisti coinvolgevano pochi compagni, subito dopo a rovesciare un gazebo della Lega Nord e a cacciare i fascisti ci hanno pensato fino a duecento persone tutte insieme, come è successo in piazza Castello a fine ottobre.
Se, prima della profilassi, le proteste dei reclusi nel Cie di Torino arrivavano a scioperi della fame e atti di autolesionismo, subito dopo quegli stessi hanno cominciato a demolire muri, vetri, arredi e a scontrarsi con le guardie.
Se, prima della profilassi, a portare insieme a noi solidarietà agli immigrati in lotta non c’era poi tanta gente, subito dopo, alla prima occasione, a radunarsi sotto alle mura del Cie per protestare contro l’arresto di tre reclusi ci sono andati in cinquanta, ed hanno pure pensato bene di tirare giù una telecamera di sorveglianza.
Se, prima della profilassi, le proteste in strada contro arresti e sgomberi coinvolgevano poche decine di compagni, ora si stanno allargando, non solo per numero ma anche per determinazione e coinvolgimento sociale. Solo due settimane fa, centocinquanta solidali sono rimasti in strada per difendere dallo sgombero L’Ostile Occupato, e soprattutto, ai balli che ne sono seguiti hanno partecipato anche ragazzi del quartiere e gente sconosciuta: chi preparando uno striscione, chi incendiando cassonetti, chi perlustrando in bicicletta la zona per informare i ribelli degli spostamenti della celere, chi dando consigli tattici. O anche applaudendo ed incoraggiando, o anche solo vivendo la strada in maniera diversa, improvvisando partite di pallone tra una carica e l’altra della polizia.
Piccole cose ancora, ma che prefigurano in miniatura le sommosse di dopodomani, il picco del contagio che tanto maldestramente Questura e Tribunale vorrebbero arginare. Contagio che non parte certo da noi, ma cui abbiamo partecipato e cui partecipiamo ancora, nonostante gli obblighi che ci sono stati imposti e che tra qualche giorno vorrebbero confermarci. Contagio che sta nelle cose e che di giorno in giorno dilaga in mille angoli della città: ora come ora, a Torino, basta avere diciassette anni per dimostrare che si può tenere la testa alta di fronte alla polizia che carica, e venti per suggerire che i responsabili delle nostre miserie possiamo andarceli a cercare a casa loro, senza mediazioni.
Se questi sono i risultati delle attenzioni di questurini e giudici di guardia nei nostri confronti, immaginiamo il loro imbarazzo quando li dovranno illustrare al loro Grande capo. Noi, da parte nostra, al Grande capo ci rivolgiamo direttamente e gli diciamo quel che gli dicevamo in occasione dell’udienza di primo grado: «Il mondo vi sta scoppiando tra le mani, ed è lampante che non sapete che pesci prendere». E continuiamo a dirglielo ridendo, come al solito: sorvegliateci i maroni.
i due sorvegliati