Labbra cucite, a Bologna
Tre punti con ago e filo da labbro inferiore a superiore, per protestare contro il rigetto della sua richiesta d’asilo in Italia. Amina (il nome è di fantasia, ndr), 34 anni di cui otto passati nel nostro Paese, viene dalla Tunisia e in Libia ha un bimbo piccolo cui, ogni mese, manda con fatica un po’ di soldi. Suo figlio è nato al di fuori di una “regolare” unione. Ed ora che la giovane donna, ospite forzata del Centro per identificazione ed espulsione degli immigrati senza documenti di Bologna, rischia da un momento all’altro di essere rispedita in Nordafrica, Amina teme che la famiglia le faccia pagare con la vita quel figlio dello scandalo. Per questo giovedì pomeriggio, appena saputo del rigetto, la ragazza ha preso ago e filo e si è cucita la bocca, nel bagno di uno degli stanzoni comuni del settore femminile, all’ex caserma di via Mattei. È stata un’immigrata dal suo stesso destino a dare l’allarme agli operatori della Misericordia, che gestiscono il centro. Ma la donna, accompagnata al Policlinico Sant’Orsola per una visita fisica e psichiatrica, non ha voluto in nessun modo farsi toccare. Da giovedì quindi Amina, trattenuta al Cie dal 30 marzo scorso, non mangia e non beve. Né ha alcuna speranza, dice, di poter ricorrere contro la decisione di rigetto della richiesta d’asilo: il poco denaro messo da parte in Italia le serve per mantenere in Libia il suo bambino. Per questo la donna chiede di parlare direttamente con chi ha valutato la sua posizione. E intanto, ad occuparsi di lei sono i medici del Cie e gli psicologi del Progetto sociale.
«Tutti sono liberi di protestare – dice la direttrice del Cie di Bologna e Modena, Anna Maria Lombardo – ma stiamo cercando di convincere la donna ad intraprendere altre strade per risolvere la sua situazione». Il caso di Amina non è però la sola situazione limite ospitata fra le mura di via Mattei, dove dall’estate scorsa il tempo limite di trattenimento si è allungato fino a sei mesi. Ieri, un altro immigrato già sottoposto a visita psichiatrica, si è gettato dal piano ammezzato dell’ospedale dov’era stato portato per ulteriori accertamenti. Ora l’uomo è ricoverato per una sospetta frattura alle gambe. E ancora in via Mattei è anche Jargalsaikhan, il trentasettenne di origini mongole approdato il 5 maggio al Cie dopo l’arresto a Caserta perchè sprovvisto di documenti. Come raccontato la scorsa settimana da L’Unità, Jargalsaikhan è in realtà titolare di un permesso di soggiorno temporaneo per motivi di salute rilasciato dalle autorità francesi. L’uomo soffre di epatite C ed ha bisogno di costanti cure. Anche per questo, dopo un viaggio della speranza era riuscito a raggiungere l’Europa. «Il documento gli dà il diritto di soggiornare Oltralpe ma non negli altri Paesi europei – fanno però sapere da piazza Galilei -: stiamo comunque cercando di creare le condizioni per rispedirlo in Francia, e non in Mongolia, di modo che possa continuare a curarsi».
Aggiornamento 27 maggio. Sei giorni dopo la scelta di cucirsi le labbra per protestare contro il rigetto della richiesta di asilo politico, Najoua è stata rilasciata dal Cie di via Mattei. La donna è stata rilasciata perché i medici del Cie hanno dichiarato il suo stato di salute incompatibile con la permanenza nella struttura.
Ad accoglierla, ieri sera all’uscita dal centro, ha trovato l’avvocato Roberta Zerbinati che l’ha subito portata in ospedale per accertamenti. «La Questura ha deciso di rilasciarla — ha spiegato il legale — Resta senza permesso di soggiorno, ma ora potrà fare i suoi ricorsi da donna libera». Najoua, tunisina di 34 anni, temeva il rientro in patria tanto da spingersi al gesto autolesionista. Dietro l’incubo del rimpatrio ci sono le minacce di morte di un fratello che, saputo della gravidanza della donna non sposata (otto anni fa, l’età del figlio lasciato in Libia) l’aveva attesa con un coltello e le aveva promesso di ucciderla. E un cognato condannato per omicidio, un reato maturato in un ambito connotato da forte integralismo religioso, che cercava anche di imporle il velo.
La famiglia l’aveva ripudiata con l’ eccezione di una sorella. Najoua era così fuggita in Libia dove aveva partorito ed era rimasta alcuni anni, poi nel 2006, con un gommone è arrivata a Lampedusa, per lavorare in Italia, come badante. Ma in Veneto, nel 2009 è stata arrestata perché l’uomo che la ospitava era finito in manette per droga. È stata in carcere otto mesi ma al processo è stata assolta: da marzo al Cie di Bologna perché clandestina, in attesa di espulsione, giovedì scorso si era vista respingere la richiesta di asilo politico. E si è cucita la bocca. (da “Il Corriere di Bologna”)