Una notte da dimenticare?
«La coscienza, così ci fa tutti vili, e così il colore naturale della risolutezza al pallido riflesso del dubbio si corrompe e le imprese più alte e che più contano si disviano, perdono anche il nome dell’azione». Shakespeare, Amleto.
La giornata
La giornata di martedì 26 maggio è convulsa. In mattinata arriva la notizia che i due compagni arrestati il sabato precedente saranno scarcerati nel pomeriggio. Neanche il tempo per un brindisi, e in serata si sparge la voce che altri sette sono trattenuti nel posto di polizia di corso Tirreno “per accertamenti”. Poche ore prima due sedi della Lega Nord avevano ricevuto visite: la vetrina della sede di San Paolo era andata giù, e nella sede di San Salvario venivano gettati dei volantini e i resti di una microspia. Per ore non si riesce a sapere molto di più, e i compagni continuano a rimanere in stato di fermo: pare che un anziano leghista stia tentando di riconoscere qualcuno dei protagonisti del blitz a San Salvario. Qualcuno si chiede se sia normale essere sequestrati per diverse ore solo per qualche volantino gettato a terra. Ma è chiaro che non c’è solo quello: dopo tre giorni e tre notti di banchetti ribaltati, volantinaggi e comizi, cortei spontanei che partono da Piazza della Repubblica per dirigersi verso il centro, un lancio di immondizia alla sede della Lega Nord di Barriera di Milano, e alcuni cassonetti incendiati a Porta Palazzo per tenere lontani i razzisti, evidentemente la Questura ha perso la testa. Anche perché, immaginiamo, pressata da quel ministro Maroni che vuole assolutamente che si dia un taglio a quello che succede a Torino. L’apprensione per la sorte dei fermati comincia a salire.
La corsa
È ormai quasi mezzanotte quando diverse decine di compagni si radunano in corso Giulio Cesare all’angolo con corso Brescia, con l’idea di fare un blocco stradale per esercitare pressione sulla Questura, per esigere la liberazione dei sette fermati. Qualcuno porta uno striscione improvvisato, qualcun altro decide di portare come contributo pratico alcuni carrelli pieni di masserizie, che rovescia per terra. Qualcun altro, sprovvisto di immondizia ma fornito di buone intenzioni, decide di procurarsela rovesciando i cassonetti e trascinandoli in mezzo alla strada. Niente di organizzato, solo tanta rabbia, tanta solidarietà e forse il ricordo che qualcosa del genere era stato messo in pratica già a fine gennaio per dare manforte ai profughi che si stavano scontrando con la polizia sotto la Prefettura e ancora un anno prima quando una compagna era stata arrestata per le strade di Vanchiglia. Piccoli contributi che non fanno di certo la Storia, ma da cui è possibile trarre almeno un poco di teoria, per cominciare a rispondere alla domanda: come è possibile aiutare da lontano dei compagni che si stanno “inguaiando con la legge”? Bloccato così il primo incrocio, il gruppo di solidali con gli arrestati comincia a muoversi scendendo lungo corso Brescia verso via Bologna, rovesciando tutti i cassonetti che incontra, scandendo slogan contro i razzisti e chiedendo la liberazione dei sette “cattivi con i leghisti”. Attenzione, però. A rovesciare cassonetti non sono esclusivamente stagionati militanti. Certo, il grosso sono compagni abituali, ma c’è anche gente che si può definire vagamente “del giro” ed anche un gruppetto di giovanissimi teppisti di zona. Qualcuno tra loro non è neanche italiano. Paradossale: più di una persona là in mezzo non conosce neanche gli arrestati e, probabilmente, di quelle tre giornate di mobilitazioni e casini non ne sa proprio nulla. Ma ad urlare contro i razzisti ci stanno tutti, forse per l’aria da piccola e magari goffa intifada che ha assunto quella corsa. O forse perché ad essere incazzati neri, di questi tempi, non si sbaglia mai. Insomma, quello che rovescia monnezza nelle strade quasi deserte è un gruppone eterogeneo e dà vita ad una corsa che non riesce ad essere una sommossa ma non è neanche una placida dimostrazione di dissenso, e neppure una semplice esplosione di teppismo casuale. E non è neanche più il blocco stradale che qualcuno aveva pensato mezz’ora prima. Nel giro di pochi minuti si susseguono scene apparentemente contraddittorie: c’è un tizio in un angolo che spiega quello che sta succedendo a dei passanti, così, a volto scoperto e tranquillamente in mezzo al frastuono dei cassonetti che cadono, per poi riprendere a correre e a spargere monnezza insieme agli altri. Ma accanto a lui c’è anche chi è troppo arrabbiato per parlare e lancia un po’ a caso tutto quello che trova, e in mezzo c’è pure chi, arrivato proprio per protestare contro gli arresti, rimane spiazzato da questa rabbia che non riesce a sentire sua e segue la corsa in auto, rischiando di finire incastrato tra i cassonetti rovesciati. Un paio di angoli e il gruppo si sfilaccia. Molti, a torto, si dirigono verso una casa occupata che sta proprio lì in mezzo, attirando l’attenzione di qualcuno del quartiere che intanto si è svegliato inferocito per il baccano.
Il quartiere
E già, perché poco dopo la fine della scorribanda comincia a radunarsi in strada anche altra gente. Varie decine di persone, tutti italiani. Gente che normalmente non vedi mai in strada – a parte un gruppo di tarri comunque ansiosi di menar le mani. Non è neanche chiaro se siano proprio tutti di quei palazzi o se in qualche maniera siano stati chiamati: in mezzo a loro c’è una consigliera di circoscrizione del Pdl e diversi esponenti del “comitato spontaneo” del quartiere che sta organizzando già da qualche settimana un corteo contro stranieri, teppisti e bivaccatori di strada. Sta di fatto che quando arrivano i primi giornalisti tutti mostrano i volantini dei Comitati. Quante di queste che schiumano di rabbia all’angolo e urlano contro gli “squatter della casa occupata” sono davvero persone normali? E quanti sono invece professionisti del razzismo organizzato? Le proporzioni esatte non le sappiamo. Ma abbiamo imparato che i cosiddetti Comitati spontanei e i militanti “di quartiere” dei partiti di destra sono il reticolo organizzativo della Jugoslavia che viene. Non sono tanti, e non raccolgono ancora masse oceaniche: al corteo di due giorni dopo riusciranno a far sfilare poco più di cento persone, in un corteo contestato e ben protetto dalle forze dell’ordine. Non saranno i soli a combattere da quel lato della barricata, anzi, ma saranno loro a dirigere le operazioni. Per questa piccola serata di cassonetti rovesciati chiedono a gran voce l’intervento, il più duro possibile, della polizia. Ma intanto si preparano a far con le proprie mani, e infatti tentano di aggredire il primo arrabbiato – o presunto tale – che si trovano a tiro. Ma, ancora una volta, non c’è solo questo. Proprio mentre quel gruppo di italiani inveisce contro i teppisti, alcune ombre tornano a casa e quando nei giorni successivi incroceranno gli arrabbiati esprimeranno loro il proprio apprezzamento. Il quartiere dei cassonetti è ai bordi di Porta Palazzo, e a Porta Palazzo si incrociano tutti. “Avete fatto casino, ieri?”, “Bravi!”, “Ti porto le borse?”, “Quando lo facciamo un corteo?”, “Hanno liberato i vostri amici?”… Certo, sono voci straniere, che non si esprimono in pubblico e tantomeno con i giornalisti. Ma il linguaggio della rabbia lo intendono bene, e lo apprezzano. Praticarlo no: oggi è ancora il tempo dell’impotenza, domani chissà. Tutto però ci dice che le sommosse di dopodomani – le sommosse vere, quelle che nasceranno al tramonto di questo tempo immobile – assumeranno forme anche molto simili alla forma che ha preso questa nostra serata di cassonetti rovesciati. Tutto compreso, però: saranno anche loro impopolari, e causeranno reazioni forse ancora più determinate e più rabbiose di questa. A guardarla in prospettiva questa serata è stata una piccola, del tutto involontaria, profezia. Palazzi e strade tagliati a metà, un fossato in mezzo, armi che si affilano, ponti bruciati. Truppe d’interposizione. Non è il futuro che vorremmo, ma forse è già in corso e bisognerà attrezzarsi. Con buona pace di chi aspetta uno scontro ordinato, significati espliciti e ben formulati, demarcazioni nette e coscienze sventolate come bandiere.
Un bilancio
A fine serata, circola l’ultima notizia: tre dei sette fermati sono stati rilasciati, ma per gli altri quattro, invece, sono scattate le manette con l’accusa di “violenza privata”, buona un po’ per ogni occasione, e sono stati portati al carcere delle Vallette. È ormai giunto il tempo dell’amarezza per gli arrestati, e dei bilanci per quanto è successo. Cosa sarebbe accaduto se non ci fosse stata nessuna risposta? Difficile dirlo. È stato fatto tutto il possibile? Certo che no. Ci si poteva attestare al primo incrocio ed attendere le guardie per ingaggiare uno scontro diretto, invece di tornare a casa? Ci si poteva dirigere verso il centro? Si poteva aggiungere qualche contributo a un momento che se ha intaccato il normale corso di una serata torinese non ha saputo porre l’accento sul contenuto di classe di quella corsa – magari facendola terminare sulla vetrina giusta? Certo che si poteva. Basta sapere di volerlo e sapersi organizzare di conseguenza, saperlo fare con calma per tempo, saperlo fare con velocità e determinazione nell’immediato. O basta avere dei compagni che ti sibilano l’idea giusta nell’orecchio invece di farti la morale. Per non lasciare che la coscienza ci renda tutti dei vigliacchi.
(A seguito della serata dei cassonetti rovesciati in corso Brescia e della mattinata delle pietrate in Corso Marconi, e dopo un bel tam-tam sui giornali e il consueto “tavolo per la sicurezza”, il Sindaco ha ribadito ad alta voce ciò che da qualche mese stava affermando più sommessamente: le richieste di sgombero di tutti i posti occupati della città sono state depositate e se la polizia non le esegue è solo per paura di aggiungere casini a casini. Una questione di forza, e senza tante manfrine. Bisognerà farsi forza, allora. E noi non mancheremo.)