Abbandonare la speranza?
Vi appiccichiamo qua sotto uno dei testi che ci sono capitati nelle mani durante la mobilitazione contro il Cie del 10 di luglio a Torino. Distribuito a mano ed appiccicato sui muri, il tentativo di alcuni antirazzisti fuori dal tempo di spiegare un po’ a tutti – ma in particolar modo alla gente del quartiere e ai “vicini di casa” del Centro – il perché di una ostilità tenace e rumorosa che non vuole proprio chinare la testa.
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager. Esso è il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza: finchè la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo.
– P. Levi –
Pensavamo che gli orrori del secolo passato fossero ormai un capitolo chiuso, una brutta pagina di storia dalla quale una società che oggi dice di riconoscersi nei valori di libertà ed uguaglianza avrebbe dovuto trarre un prezioso insegnamento. Che alla crisi economica ed al conflitto sociale l’Europa abbia saputo trovare come miglior rimedio la guerra tra le nazioni e il pugno di ferro con le popolazioni, la follia dei totalitarismi e la persecuzione delle minoranze come utile capro espiatorio, sono tutti fatti che ancora oggi suscitano una profonda vergogna e impongono alle coscienze un imperativo categorico: il passato non deve tornare.
Eppure è successo. Si è incominciato con la propaganda razzista e le leggi discriminatorie, e poi è successo che gli stati si sono organizzati in gigantesche macchine di morte, servendosi delle tecniche più moderne per rastrellare la società, deportare gli indesiderati nei campi di concentramento, annientarli lentamente col consenso delle masse, per sfruttarli come bestie in un primo momento, per sterminarli metodicamente quando infine i tempi erano maturi. La retorica democratica si è esercitata a lungo per capacitarsi dell’accaduto: come è stato possibile? La gente sapeva? Perchè non reagiva ad una simile barbarie? Erano tutti vinti dalla paura o ottenebrati dall’ideologia? O forse ciascuno pensava semplicemente a sé in tempi particolarmente duri?
Nessuno oggi può negare che il silenzio e l’indifferenza allora furono i migliori complici dei crimini perpetrati: in Danimarca, dove gli ebrei venivano nascosti e aiutati a fuggire, il piano di sterminio sostanzialmente fallì, mentre in Polonia, dove c’era una maggiore collaborazione da parte della società, l’Olocausto distrusse milioni di vite innocenti. Un episodio può aiutare a comprendere meglio questo clima di passiva accettazione e volontaria ignoranza: siamo nell’estate del ’44 e per arginare le voci diffuse su una improbabile soluzione finale segretamente in atto, a una delegazione del Comitato internazionale della Croce Rossa viene offerta la possibilità di visitare Auschwitz. E’ così che il dottor Maurice Rossel entra nel campo e vede solo quello che i nazisti volevano fargli vedere, invano chiede informazioni sulla condizione dei prigionieri, e dal comandante del Lager riesce a cavar fuori solo un lungo discorso sulla missione storica della Germania. Poche ore di visita in cui tutto gli appare tremendamente normale, operai che lavorano, giardini fioriti e concerti musicali, bambini che corrono felici, un teatrino programmato per l’occasione. Quel giorno, il 29 agosto 1944, vennero gassati 2.499 ebrei.
A qualcuno potrà sembrare eccessivo riportare alla memoria fatti oramai lontani. Nessuna democrazia ha mai messo in atto un piano di sterminio, le camere a gas e i forni crematori sono incubi del passato. Eppure la paura dello straniero e la noncuranza con cui la maggioranza silenziosa oggi ignora il funzionamento della macchina delle espulsioni dovrebbe metterci tutti in allarme e richiamarci a riflettere sulle parole di chi è sopravvissuto a quella terribile esperienza. Corso Brunelleschi non è Auschwitz, ma nel C.I.E. vengono rinchiuse persone che hanno la sola colpa di non avere i documenti in regola. Sono immigrati che sono stati presi dalla polizia nelle strade, e vengono controllati dai militari attraverso alte grate di metallo per un periodo che può arrivare fino a sei mesi. Alla fine molti di loro saranno scortati su un aereo e riportati con la forza nel loro presunto paese di provenienza, dove non vogliono o non possono più stare. Chi vuol mettersi il cuore in pace può star tranquillo che tanto a vigilare sul rispetto dei diritti umani c’è il personale della Croce Rossa.
Dentro ai C.I.E. c’è da impazzire. Non hai nessun diritto perché sei clandestino e per la legge non esisti. Se non sai l’italiano non ti spiegano niente, se protesti ti prendono a bastonate e passare da lì alla galera è questione di un attimo. Ai reclusi vengono fornite massicce dosi di tranquillanti per provocare sonnolenza e sedare gli animi. Succede che a volte qualcuno cerca di impiccarsi o di ferirsi per richiamare l’attenzione. Nei C.I.E. si muore, come è successo qui a Torino ad Hassan, senza che a nessuno gliene freghi qualcosa. Per quanto le istituzioni cerchino di minimizzare i disordini e le irregolarità, da dentro continuano a uscire disperate richieste d’aiuto.
E cosa fanno gli italiani? Per esempio quelli che abitano nei dintorni della struttura? Portano i figli a giocare nel parchetto di fronte, ci passeggiano davanti indifferenti e si curano solo dei disagi che ricadono su di loro. Quando scoppiano le rivolte si lamentano per il rumore perché non riescono a dormire, quando qualche sparuto gruppo di solidali si avvicina alle mura per urlare grida di libertà lanciano secchiate d’acqua dalle finestre e chiamano subito la polizia. Si considerano gente perbene, magari alla domenica vanno pure in chiesa a fingere un barlume di sensibilità umana, ma non sono diversi da quella gente che in un passato non molto lontano ha reso possibile ciò che nessuno poteva immaginare. Quando i residenti si lamentano del degrado dovrebbero come prima cosa iniziare a guardarsi allo specchio.
Noi, che ancora crediamo nella libertà e nella solidarietà, continueremo a promuovere mobilitazioni contro questo simbolo concreto del razzismo odierno. Esploderemo fuochi artificiali nel pieno della notte per far sapere a tutti che qualcuno ce l’ha fatta a scappare. Faremo rumore per rompere questo complice silenzio. Moltiplicheremo i disordini in giro per la città per sostenere le lotte coraggiose che nascono da dentro. Continueremo a raccontare le storie che nessuno vuole ascoltare, e non ci importa se dovremo fare i conti con l’ostilità della gente e con le denunce che ci piovono addosso. Il bisogno umano di resistenza può essere ridotto, contenuto e sorvegliato, ma non può essere mai eliminato del tutto. Se è vero che perfino nei Lager nazisti qualcuno ha trovato la forza di ribellarsi fino a far saltare in aria i forni crematori, perché dovremmo abbandonare noi oggi la speranza di vedere distrutti questi odierni Lager, come è successo a Vincennes e a Lampedusa?
Antirazzisti fuori dal tempo