Tempi di pace

È da un po’ che non ci sono grosse notizie dal Cie di Torino. Niente rivolte collettive, né fatti particolarmente clamorosi di resistenza individuale, né episodi repressivi che vadano al di là del semplice e meccanico ruotare degli ingranaggi delle espulsioni. A parte gli strascichi processuali delle vicende estive sembra esserci una discreta calma, almeno per quanto ne possiamo sapere da qui. Tempi di pace, insomma? Mettiamola pure così, se volete: tempi di pace – come del resto è sempre successo da due anni a questa parte tra una ondata e l’altra della lotta.
Ma cosa è la pace, dentro ad un Cie? È starsene al freddo aggrappati ad una coperta perché non c’è il riscaldamento; è esser chiamati “ospiti”quando si è invece prigionieri; è aspettare ogni venerdì la deportazione verso un Paese del quale non si conosce nemmeno più la lingua e nel quale non si ha più nessuno; è abbandonare città nelle quali si è vissuti anche vent’anni – proprio come profughi, scampati.
Ascolta questa diretta dal Cie, trasmessa da Radio Blackout durante il presidio di domenica scorsa:
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E tempi di pace fuori le mura del Centro. La strada transennata da due giorni, ventitre camionette pronte ad intervenire, celerini che aspettano con gli scudi in mano, un presidio di compagni un poco più numeroso del solito – centoventi persone, più o meno – ma molto più determinato a farsi sentire e poi la gente alle finestre che non vuol vedere e non vuol sentire, che vorrebbe solo silenzio e che mai si sarebbe sognata di trovarsi un giorno a vivere a ridosso di una frontiera proprio in mezzo ad una città dove tempi di pace e tempi di guerra si mischiano e si confondono ad ogni ora, scombinando le carte e le parole.