Francesco e Lucio: «quella notte c’eravamo anche noi»
Quelle che seguono sono le parole scelte da Lucio e Francesco per raccontare, lo scorso 23 aprile in tribunale, quella notte del maggio 2013 e chiarire che c’erano anche loro a sabotare il cantiere del Tav di Chiomonte.
«Da alcune frasi, rubate alla mia voce, si è voluto dedurre di tutto e di più, si sono esaltati o sminuiti vari passaggi, a seconda del bisogno dell’accusa.
Se prendo la parola oggi è perché voglio ribadire quella che è la realtà.
Io c’ero.
Quella bellissima notte di maggio mi sono incamminato sui sentieri della Valsusa determinato a sabotare il cantiere TAV di Chiomonte.
Ho scelto di colpirne i macchinari senza mettere a rischio l’incolumità di chi, pure, quei macchinari manovra o difende.
Quella notte i fatti hanno espresso le intenzioni, e il valore del gesto ha permesso di superare ogni paura.
La paura diffusa, il terrore che ci viene imposto massivamente, per me sono barriere da abbattere.
Sono armi che lo Stato, il potere, usa per mantenere il controllo e paralizzare chi si pone in conflitto con esso.
Per questo, non possono essere i miei strumenti rivoluzionari.
Di ciò che ho fatto e di ciò che ho detto sono pronto a rispondere, consapevole che ciò che spinge il mio cuore e la mia mano è troppo grande per stare tra le mura di quest’aula o tra i commi del codice penale.
Lucio»
«In questa sede mi vengono rivolte essenzialmente 3 domande alle quali scelgo di rispondere:
1- Eri lì quella notte?
2- Cos’è accaduto?
3- E perché l’avresti fatto?
Alla prima domanda si può rispondere con un semplice sì, c’ero anch’io. Ma anche se non ci fossi stato poco cambierebbe dato che ho manifestato il mio appoggio a quel sabotaggio, come molti altri.
La seconda invece si risponde da sola, e posso solo ribadire che si era scelto di danneggiare il cantiere, cosa che è accaduta, senza altresì colpire alcuno, cosa che infatti non è accaduta. Questa è, al di là di ogni mistificazione, la semplice realtà dei fatti.
Ma il terzo quesito ben più interessante, si propone di capire quale fosse l’intendimento delle persone che parteciparono a quel sabotaggio.
La procura dà la sua ipotesi che, scorrendo le carte, si può riassumere più o meno così:
«Gli imputati, dal carattere violento e che conoscono unicamente il dialogo della violenza, appartenenti ad un movimento di contestazione di poche centinaia di persone e comunque estranei alla Valle, con tecniche militari misero in atto un gesto criminale e scriteriato guidati dal rancore e dall’astio che essi nutrono nei confronti di operai, poliziotti e carabinieri. Un vero e proprio atto di guerra, punitivo verso il nostro Stato e la sua politica economica».
Qui si valicano prepotentemente i confini del giuridico per entrare a gamba tesa nel campo della valutazione politica.
Ed è pertanto in questi termini che risponderò; ripetendo qui quello che già sostenni con forza durante i molti dibattiti svoltisi nei momenti di solidarietà con i compagni che ci hanno preceduto in carcere.
Il terrore, la paura e il panico indiscriminato sono strumenti che non appartengono alla mia cassetta degli attrezzi.
Questi sentimenti, alimentati, provocati o creati ad arte lungo la storia hanno da sempre favorito quelle fazioni che volevano conquistare o consolidare il proprio potere in senso autoritario e totalitario. Una persona o un popolo terrorizzati sono demotivati, spaventati, soverchiati da paure emotive che li spingono a cercare protezione alle loro angosce più primordiali.
Facili prede quindi di chi aspira al dominio giocando sulle paure più istintive delle persone, le leve di simili emozioni sono l’ultima risorsa dei potenti che sempre l’hanno utilizzata allo scopo di rafforzarsi e tacitare il dissenso nei loro confronti con tutti i mezzi a loro disposizione, anni fa sicuramente più cruenti, oggigiorno sembrano per contro bastare massicce campagne mediatiche dove le parole vengono distorte fino a perdere il loro significato pur d’adattarsi all’utile spauracchio sociale del momento.
La mia accusa descrive la Storia degli Stati e dei potenti, la ritorno pertanto a chi l’ha formulata.
Quello che mi spinse fu la volontà d’agire contro il disperante, cinico sentimento di rassegnazione e apatia di chi crede che nulla possa cambiare, che tutto sia già deciso e pianificato. Sentimento assai radicato in questo Paese, ma non in quel movimento che ha deciso di porre un secco No! ad una devastante idea di futuro, ed è per questo che scelsi d’appoggiarlo, sin dal primo incontro, con quelle donne e quegli uomini che lo compongono.
Fu quindi spavalda allegria volta a superare un soffocante presente, esso sì distruttivo e costrittivo, verso l’ambiente, le persone e i loro affetti.
Di questo io rispondo, in piena coscienza.
Francesco»