Round table
Sala gremita, visi attenti, sedie semplici e scomode, tutte uguali. Nessuna cravatta, nessun impomatato, l’aria è apparentemente conviviale, anzi verrebbe da dire familiare. E come ogni buona famiglia, tra i festoni colorati ancora appesi al soffitto, ci si appresta ad abbandonare i lasciti delle feste natalizie per testare la saldezza di presunti legami in un sano litigio.
L’assemblea pubblica dello scorso sabato in via Moretta ha visto dialogare tra loro consiglieri e vicesindaco 5 Stelle Guido Montanari con soggetti appartenenti ai più svariati gruppi e collettivi: dall’associazionismo più cittadinista che si è spinto la propaganda elettorale pro Appendino, giù giù fino ai comitati di lotta dei quartieri popolari di Torino (acqua pubblica, No-Zoo Michelotti, sindacati di base, Notav Torino-Cintura, vari comitati di lotta per la casa tra Lucento-Vallette, Falchera e Borgo San Paolo, ecc… per citarne alcuni). Un’assemblea da tempo programmata, le cui parole d’ordine dell’appello parlavano già chiaro: “Per un bilancio senza vincoli“. Un bilancio, prima di tutto, nel senso di un tavolo di discussione in cui i delusi dell’Appendino, come sono stati più volte chiamati dalle testate locali, hanno potuto a turno lamentarsi delle promesse disattese in questo primo semestre di governo a cinque stelle.
Senza addentrarci nel merito delle noiose digressioni di via Moretta, vale la pena far notare come quest’incontro “dal basso” non sia certo in controtendenza con i nuovi programmi di governance insidiosa che si stanno diffondendo in lungo e in largo, ne chiede anzi una più veloce attuazione. Senza annoverare ciò che ha realizzato il PD negli ultimi anni, basta guardare il progetto AxTo della giunta Appendino che si è da poco aggiudicato 18 milioni di euro del piano periferie del Governo per vedere come la partecipazione attiva dei cittadini sia un pilastro portante, attraverso la diffusione sul territorio di una serie di strutture (come le Case di Quartiere o l’Hub Cecchi Point, per fare solo degli esempi) che facciano da intermediari per discutere politiche da adottare, problemi e soluzioni. AxTo e la sua “partecipazione dal basso”, a ben spulciare, si pongono in netta continuità con i processi di riqualificazione di certe zone, con lo scopo di rendere più gradevoli e vivibili le aree periferiche limitrofe e il contesto urbano. Processi che, come da tempo stiamo vedendo, colpiscono anche numerosi sfruttati, cacciati ed espulsi da determinati pezzi di città e dal soddisfacimento di determinati bisogni. Processi che hanno il loro corrispettivo in trasformazioni economiche ben più ampie, nel riassetto di un capitalismo che vede nella riqualificazione uno dei nuovi mercati per ampliare i propri profitti.
Quale funzione potrebbe assumere questo co-governo del territorio? Tanto per iniziare la possibilità, per Appendino e compagnia, di avere in mano uno strumento con cui prevenire e pacificare qualsiasi forma di conflitto che potrebbe scatenarsi a partire da un malcontento diffuso o specifico di chi subisce queste macro e micro trasformazioni. Individuare, tra gli altri, dei referenti in un certo senso ‘interni’ anche ai quartieri popolari, perché riconosciuti da una parte di quegli abitanti indesiderati, che facciano da cuscinetto alla rabbia sociale.
Cosa vogliono allora tutti questi comitati e associazioni alla corte dei cinque stelle? Un bilancio senza vincoli, ossia la possibilità di intervenire direttamente nelle decisioni di bilancio del Comune, nello specifico in merito alla ricontrattazione del debito con le grandi fondazioni bancarie. Mettere le mani sulla cassa da cui attinge qualsiasi manovra di governo del territorio. Pesare sulle scelte politiche come attore politico in campo. Il fatto che la signora Appendino a pochi giorni dalla suddetta assemblea si sia complimentata col presidente della Compagnia di San Paolo per il suo impegno nelle politiche sociali dovrebbe rendere l’idea di quale sia la dialettica tutta interna al potere, di un pendolo che oscilla da un polo all’altro.
Detto ciò non ci si attende nulla di diverso da quelle associazioni cittadiniste, già da tempo base elettorale cinque stelle e su cui non vale la pena dilungarsi. Merita invece maggiore attenzione la partecipazione in via Moretta di quei gruppi che di fatto, almeno nel recente passato e nei propri discorsi, hanno portato avanti pratiche di conflitto e resistenza, a volte anche pagandone le conseguenze in termini di repressione.
“Sindaca, qual è la Torino che si immagina?” si può leggere in una lettera aperta in cui il Comitato Popolare Vallette-Lucento chiede un tavolo di dialogo permanente con le istituzioni. Alzando il culo dalle scomode sedie di via Moretta, la risposta si trova ogni giorno nelle strade e nelle case in cui viviamo e probabilmente anche i membri del comitato, come tanti altri partecipanti all’incontro, se ne saranno resi conto. Da quando la Giunta si è insediata non si è certo fermata la violenza con cui le persone vengono sbattute fuori di casa, con cui vengono staccate luce, gas e acqua a chi non può permettersi di pagarle, con cui durante questi ed altri controlli vengono braccate per strada le persone senza documenti per poi espellerle o mandarle in un Cie.
Qual è il senso allora di partecipare a un siffatto tavolo di discussione? Di primo acchito potrebbe sembrare che questi comitati di lotta vogliano attirare le simpatie e il riconoscimento degli esclusi intervenendo in siffatte assemblee in qualità di loro rappresentanti e portavoce. E questa è una distinzione che va sottolineata bene, tra strutture politiche organizzate e sfera più ampia di sfruttati che subiscono il governo di questa città. Che qualche padre e madre di famiglia angosciati da una vita traballante vogliano una soluzione, ricordando all’assessore di turno le sue promesse e i suoi “farò”, è quantomeno comprensibile. Qualsiasi persona che non riesce a soddisfare i propri bisogni, costretta ai margini, vuole un dialogo con chi ci governa, con la speranza di vedere risolto il proprio problema. Ma quando dei gruppi strutturati si pongono come intermediari, sperano di uscire da cavalieri da questa tavola rotonda, legittimati per aver preso parola alla corte dei re e delle regine. Questo passa inevitabilmente anche attraverso il raggiungimento di alcuni risultati e concessioni della controparte, che però non fanno altro che incrementare il peso e l’importanza, anche agli occhi degli stessi sfruttati, della struttura specifica, di quel particolare comitato, centro sociale o qualsivoglia sigla. Ogni vittoria, parziale o totale, deve essere riconosciuta in ultima istanza come vittoria dell’organizzazione con la “O” maiuscola, che guarda caso incentiva nelle forme organizzative con gli sfruttati i meccanismi di delega nei propri confronti. In tempi “normali” e meno asfissianti questa forma di dialogo si accompagna anche a una forza reale messa in campo, o quantomeno mimata, una spirale che però tende sempre al medesimo obiettivo.
Il fatto che oggi la repressione sul campo e giudiziaria restringono sempre più i margini di azione, rende solo più evidente una tendenza costante che queste strutture hanno di imbastire tavoli istituzionali di confronto e contrattazione. Tuttavia a volte si ha quasi la sensazione che abbiano temporaneamente rinunciato a mettere sul piatto una forza dovuta alla lotta, ai picchetti, alle occupazioni di uffici, all’attacco nei confronti dei responsabili. Non più i calli del ferro sfregato per barricare le porte in vista di uno sfratto a sorpresa, ma quelli di chi al massimo si impunta battendo i pugni sul tavolo.
Tutto ciò non potrà fare altro che spuntare maggiormente le armi di chi è disposto a lottare, a resistere, a organizzarsi per non piegarsi alla cacciata da certi pezzi di città, perché lì non è più possibile esistere. È un principio logico, se non fisico: la possibilità di strappare qualcosa al nemico non esiste all’interno delle sue regole del gioco. La possibilità di difendere, consolidare e diffondere a macchia d’olio queste “vittorie” parziali sta nell’autonomia e autorganizzazione che gli sfruttati e gli esclusi sono in grado di creare. Affinché le lotte progrediscano, si generalizzino e strappino sempre di più alla controparte a nostro avviso occorre continuare a stare in strada, ad accumulare forza e spingere legami di solidarietà tra chi è costretto alle medesime condizioni di miseria, diffondere le pratiche di resistenza, difendere ciò che si è preso.
Ci sono dei padroni contro cui combattere e la Giunta a cinque stelle può al massimo ritagliarsi un pizzico di potere in più nella contrattazione e gestione dello spazio della città, che sia con la Compagnia di San Paolo o con la Fondazione CRT e affini. Per ora questi comitati e strutture (dato che tutto questo discorso vale, ad esempio, anche per i sindacati di base) non sembrano avere intenzione di attaccare questi padroni, se non a parole o nei termini di bilancio. Ma qualora accadesse siamo sicuri che ogni dichiarazione di guerra roboante sfocerebbe nel tentativo di intavolare nuovi momenti di dialogo e riconoscimento.
Sorvoliamo poi sulle parole balorde di chi vorrebbe “rimettere i cittadini al centro delle decisioni”, che nulla ha a che vedere con un conflitto di classe tra padroni e sfruttati, le cui fila non sono in alcun modo circoscrivibili tra i confini della cittadinanza.
Un consiglio allora a quella madre e quel padre di famiglia che hanno poggiato per un po’ la loro scomodità di vivere su una sedia in via Moretta: farsi trovare pronti quando la bufera arriverà, quando al due di picche della Giunta seguiranno sgomberi, sfratti a sorpresa o nella migliore delle ipotesi una stanza d’albergo prima di tornare al gelo dell’asfalto. Superare con indifferenza chi si arrovella sui dividendi della Smat ed essere pronti quando i tecnici arriveranno a staccare l’acqua per le morosità accumulate nell’impossibilità di pagare. Essere pronti e guardarsi attorno, perché il compagno di lotta non uscirà da quella sala, ma dal loro stesso portone di casa o da quello accanto.