Quattro giorni, contro fasci e caschi blu
Più che un avvicendarsi cronachistico degli eventi, già ampiamente fruibile su blog e pagine facebook, vorremmo offrire qualche pennellata impressionistica tratteggiata da alcuni compagni che si sono affacciati ai recenti accadimenti all’interno dell’università di Torino. Più o meno studenti, mossi dalla curiosità, dall’amicizia con chi è stato arrestato, dalla solidarietà e dalla voglia di lottare. Che l’università sia ora più che mai un terreno scivoloso su cui provare a camminare è questione nota, con tutta quell’organizzazione e morale sul sapere poi, manco a dirlo. Un sapere che nella maggior parte dei casi è volto a riprodurre le storture ele ingiustizie del mondo in cui viviamo. Per di più negli ultimi dieci anni le riforme l’hanno resa di un’istituzione escludente per eccellenza e la riformulazione del mondo accademico ha messo quelle aule e chi le attraversa al servizio della guerra e della gestione della miseria. Ma occorre tenere alta l’asticella dell’attenzione di ciò che lì accade perché la presenza continua della polizia è un segno chiaro dei tempi che viviamo e di ciò che la classe dirigente sta cercando di eliminare senza girarci troppo intorno: qualsiasi forma di conflittualità.
Eppure ci sono situazione che sfuggono loro di mano, come gli accadimenti di giovedì 13 febbraio all’interno del campus.
Le immagini di studenti e studentesse che non solo cercano di cacciare dei fascistelli del FUAN dall’università, ma che non prendono paura davanti alle decine di celerini e poliziotti in borghese, che si frappongono con calci e cassonetti tirati in mezzo, che si scagliano contro una volante per cercare di portar via un compagno fermato. Beh, non sono affatto scene da tutti i giorni. Scene che farebbero pensare a un’antica legge nella fisica dei movimenti e del conflitto sociale, cioè che a forza di spremere e comprimere la gente, di schiacciare gli spazi di lotta e libertà, poi la rabbia tracima. Certo, magari a piccole ondate e in modo sconclusionato, spontaneo e non necessariamente per folle oceaniche, ma inizia a tracimare. Che le politiche degli ultimi tempi riguardo ai barlumi di conflittualità siano votate a intimorire e disincentivare pesantemente ogni slancio vitale è stato confermato anche questa volta. Avere il capo della digos Carlo Ambra in prima fila a gestire una “banale” questione di fascistelli, mentre dall’altra parte della città Salvini tiene il suo comizio sicuramente più mediatico e securizzato, la dice lunga. Per non parlare poi della proposta di Sciretti, presidente Edisu, di “predisporre gli estremi normativi per togliere le borse di studio eventualmente assegnate agli universitari arrestati e denunciati ieri presso il Campus Einaudi durante gli scontri con le forze dell’ordine. Una misura che, in piccolo, ricorda le politiche di esclusione in ambito migratorio, che sanciscono l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno qualora si venisse denunciati o condannati per tutta una serie di reati tra cui, ovviamente, anche i più classici del conflitto come resistenza a pubblico ufficale o violenza privata. Le politiche di esclusione da certi beni e servizi, lungi dall’essere circorscitte a una mera questione razziale, mostrano il loro volto e uno dei principali obiettivi che perseguono: fare la guerra ai nemici della pace sociale.
Che questa vicenda gli sia parzialmente tornata contro lo testimonia la reazione a catena che si è dispiegata nei giorni successivi all’accaduto, il cui punto più intelligente e tattico è stata l’occupazione della Palazzina Einaudi. Non solo per una questione logistica, a cui si sarebbe potuto sopperire con aule già occupate come la C1, ma per l’immaginario che ha evocato e la prospettiva di rilancio. Da un lato infatti era evidente come ci fosse un certo entusiasmo, una certa frizzantezza nell’aria, condita da quell’auletta del FUAN completamente devastata e tramutata da luogo di reazione e servilismo a spazio per assemblee e gruppi di lavoro. Uno spazio, insomma, dove tentare di opporsi almeno a una pezzetto di questa ingiustizia profonda che ovviamente giunge fin dentro le più disparate istituzioni. Dall’altro lato interrompere il funzionamento di una parte di università, creare un problema al Rettore e fargli capire che per ogni fascio e arresto il problema per lui si moltiplica, è strategicamente una mossa azzeccata. Sopratutto se si calcola che, per come funziona la Procura di Torino, non è detto che la partita sia finita qui, non è detto che fra sei mesi non mettano in piedi un’inchiesta con altri arresti per i tafferugli di giovedì. Dispiegare la maggior forza e reattività possibile già nell’immediato, in questi giorni, sarebbe sicuramente un buon deterrente per far desistere la controparte da stuzzicare di nuovo studentesse e compagni e compagne.
A tale proposito, sulla scorta della maggior espressione di forza possibile, ci sentiamo di fare una critica rimbalzata anche nelle chiacchiere tra le aule occupate della Palazzina. Era evidente come le energie diffuse per rendere viva quell’occupazione sarebbero durate almeno qualche giorno in più. Forse avrebbe richiesto un po’ di sforzi mentali e fisici, ma le persone che si sono mobilitate attivamente, ognuno facendo il proprio pezzetto, per raccogliere cibo, chiudere porte con le catene, scrivere volantini e quant’altro, non erano certo poche. Probabilmente ha peccato un po’ di coraggio e sopratutto di azzardo, oltre al fatto che le esperienze di occupazione pregresse non sono certo così ampie e diffuse da permettere di arrivare chissà quanto preparati in una situazione di emergenza e spontaneità come questa. Probabilmente, a dire di chi ha assistito alle due assemblee molto partecipate, c’è stato anche lo zampino di qualche affossatore, che si è agitato nel non riuscire a controllare gli slanci vitali di studenti e studentesse. Affossatori che però non possono essere presi a capro espiatorio, sono piuttosto da ricercare nelle proprie forze ed energie mentali i limiti riscontrati, per provare a far meglio la prossima volta.
Anche sul fronte delle iniziative forse si sarebbe riuscito a fare di più, essere un po’ meno simbolici e più efficaci in termini di fastidio e danno effettivo arrecato a istituzioni universitarie e polizia. Ad esempio si sarebbe potuto evitare di andare in rettorato pur sapendo da principio che il Rettore non era presente, oppure andarci, lì come in altri luoghi o uffici sensibili, in modo diverso e con una impostazione più battagliera. Insomma un altro aspetto da riportare sul piano della critica e dell’autocritica per fare meglio in futuro.
Infine il corteo di sabato ha riportato per le vie della città quanto successo in questi giorni, non senza difficoltà motorie…per così dire. Lo spiegamento di forze di polizia è stato imponente e con il chiaro obiettivo di sbarrare la via verso il centro, o anche solo Vanchiglia. Senza farsi demoralizzare e cadenzando i passi a colpi di slogan la manifestazione ha costeggiato la Dora per poi arrivare a bloccare piazza Baldissera, uno dei nodi del tarffico torinese, al grido: “Per ogni fascio all’università, noi blocchiamo tutta la città!”. Un ripiego, certo, ma pur sempre dignitoso e sopratutto riuscendo a scollarsi di dosso, con un paio di svolte, la fastidiosa presenza della polizia in borghese attaccata alla testa del corteo.
Dulcis in fundo, avviso ai naviganti: è stato avvistato al concentramento del corteo di sabato, in lontananza, un losco figuro parlottare con alcuni poliziotti in borghese, stringergli la mano e poi defilarsi via. Questo ragazzo con i capelli castano scuro, una felpa grigia col cappuccio e un piccolo dilatatore nero all’orecchio era stato visto aggirarsi per svariato tempo nella Palazzina Einaudi occupata con un cellulare in mano e seguirsi le varie assemblee. Zero pare, ma occhi sempre aperti.
Ci auguriamo che Samu, Carola e Maya abbiano sentito il presidio di domenica ed escano al più presto. Ci teniamo anche a sottolineare che qualora gli venissero affibbiate delle misure non detentive ma che li costringeranno a stare lontani dai loro amici, amiche e compagne, non sarebbe sicuramente meno grave. Estirpare dai propri contesti di vita le persone che hanno scelto di lottare è una dichiarata strategia della Procura davanti alla quale non possiamo restare a guardare.