Di virus, contenimento e deportazioni. Un punto sui Cpr
Per le mille difficoltà di questo periodo, che si aggiungono a quelle già esistenti da tempo nel capire cosa accade all’interno del Cpr di corso Brunelleschi, da un po’ di tempo non parlavamo della detenzione amministrativa e della macchina delle espulsioni. Ringraziamo quindi un compagno per il contributo che ci ha inviato, e che vi proponiamo, che tenta di fare il punto sui Cpr ai tempi del Covid-19.
Ogni zona d’Europa è ormai interessata dall’epidemia in corso.
Un’emergenza di portata massiva, come è successo spesso nella storia, offre delle enormi possibilità per ciò che riguarda l’inasprimento di misure repressive e lo sviluppo di tecnologie di controllo al cui utilizzo viene di fatto spianata la strada. Ogni emergenza è però differente dall’altra e le epidemie in particolare si portano con sé alcune specificità. In Italia, accanto a un repentino sviluppo giuridico e militare a sostegno delle nuove necessità, la misura più significativa per la risoluzione del problema è stata individuata nell’isolamento fisico, la sospensione delle relazioni vis à vis.
Esso è il paradigma centrale, il fulcro concettuale intorno al quale ruota l’intera faccenda.
Tutti a casa, tutti distanti gli uni dalle altre. La tragicità di un momento come quello attuale si scontra però con l’ottusità del governo italiano, che, pensando di non dover applicare tale misura ad ogni ambito sociale, si dimentica volutamente di due tra i pilastri essenziali dell’ordinamento nostrano: la produzione e la detenzione.
Le fabbriche e così le carceri, i Cpr e gli Opg registrano di fatto ‘un’eccezione allo stato d’eccezione’, devono continuare a svolgere le proprie funzioni, con qualche aggiustamento e allentamento magari, ma devono comunque andare avanti. La pandemia, in questi luoghi che rappresentano la promiscuità per antonomasia, è come se non esistesse.
La situazione attuale in Italia della detenzione amministrativa degli immigrati ne è un esempio lampante. Attualmente i Centri Per i Rimpatri, nel pieno sviluppo del contagio, si presentano praticamente identici a quelli di ieri, nessuna modifica è stata fatta e nessun intervento è all’orizzonte. Un fatto in controtendenza rispetto persino al contesto europeo.
Per affrontare il pericolo legato al contagio, paesi come la Spagna, i Paesi Bassi, il Regno Unito, il Belgio e la Francia hanno iniziato di fatto ad effettuare delle liberazioni di massa dalle strutture nazionali, alcuni Centri sono stati chiusi e le diatribe giuridiche inerenti espulsioni e trattenimenti di fatto bypassate. Misure adottate non certo per un’improvvisa magnanimità statale, ma in seguito a numerose rivolte che hanno acceso i riflettori su strutture altrimenti invisibili e soprattutto sul rischio di non spegnere la carica di queste bombe a orologeria. Il Portogallo ha inoltre congelato alcune pratiche riguardanti la questione migratoria, regolarizzando temporaneamente i richiedenti asilo. Quindi molti Centri per le espulsioni d’oltralpe sono stati chiusi e sono state attuate misure di alleggerimento burocratico di vario tipo.
In Italia la tendenza è inesorabilmente un’altra.
L’unico intervento operato dal Ministero dell’Interno è stata la proroga dei permessi di soggiorno pendenti o da rinnovare. Una decisione indirizzata più a stornare gli agenti predisposti verso altre mansioni, come quelle di ordine pubblico, che a alleviare la situazione legale di tanti immigrati. Dai primi di marzo gli uffici immigrazione delle questure d’Italia sono di fatto chiusi e il congelamento dei permessi di soggiorno concederà fortunatamente più tempo, a richiedenti protezione o titolari di permessi in scadenza, prima della possibile caduta in clandestinità.
Per ciò che invece riguarda la questione detentiva, come dicevamo, l’Italia non vuole assolutamente mollare la presa.
I Cpr, malgrado in alcuni di essi siano stati interrotti i lavori di ristrutturazione, continuano ad essere attivi e a rinchiudere i senza documenti. Nel Cpr di Torino se ne ha la certezza, per gli altri Cpr, guardando alle notizie delle questure locali, anche. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo si è espresso chiaramente a riguardo: le espulsioni dei migranti sono considerate, al pari di altre tipologie di udienze in ambito penale, una priorità. La circolare del 26 marzo del Ministero dell’Interni ne è una conferma: dopo aver elencato tutta una serie di accortezze riguardo alla possibilità del contagio e la necessità di quarantene, isolamento e dispositivi individuali di protezione, dopo aver esteso a tutti i Cpr il divieto di avere con sé i propri cellulari (cosa questa che dà forma legale a una pratica già attuata nel Cpr di Torino, un cambiamento da cui difficilmente si tornerà indietro), parla esplicitamente di nuovi arrivi.
Nonostante alcuni giudici, a Potenza e Trieste ad esempio, non stiano convalidando le proroghe, in moltissimi casi i Cpr, e particolarmente quello di Torino, continuano a ricevere nuovi reclusi e i giudici locali prorogano o convalidano il trattenimento come se nulla fosse. Questo è un primo dato di fatto, i Cpr sono aperti e funzionanti su tutto il territorio nazionale.
Un fatto che si potrebbe considerare banale, ma la questione prende una piega inaspettata se si va a osservare la macchina delle deportazioni.
Gli spostamenti aerei e marittimi di persone dall’Italia sono di fatto bloccati, ciò chiaramente non è avvenuto in modo immediato e molti paesi come il Marocco, la Tunisia, il Ghana e l’Egitto hanno tardato nell’attivare il blocco totale, ricevendo gli espulsi ad esempio, ma mettendoli in quarantena preventiva. Al momento vi è, sembra, il blocco totale anche per quei famosi voli charter che ramazzano persone in giro per vari paesi per poi deportarli. Non vi è di fatto nessuna comunicazione ufficiale sul blocco delle deportazioni, ma le notizie che emergono sulla questione lasciano pensare a quest’ipotesi. Ultima notizia di una deportazione compiuta è rintracciabile sul sito della questura di Ferrara, datata 25 marzo verso Islamabad (il Pakistan avrebbe attuato il blocco aereo quello stesso giorno). Deportazioni ferme dunque, seconda importante considerazione.
A cosa stanno servendo dunque i Centri per i rimpatri se i rimpatri sono sospesi o comunque impossibili da effettuare?
Crediamo che a questo punto, se la situazione dovesse rimanere tale nonostante la richiesta di svuotamento anche da parte di figure istituzionali, i Cpr, persi i fronzoli che ne giustificavano sulla carta l’imprescindibilità istituzionale, stiano svelando finalmente il loro vero ruolo. I Centri non sono mai serviti realmente a espellere i migranti (le cifre negli anni sono sempre state irrisorie rispetto alla popolazione clandestina), ma a contenerne una piccola parte come monito per tutti gli altri. Insomma la vecchia storia dei Cpr come deterrente collettivo è finalmente evidente e nuda di fronte a tutti.
Sta insomma venendo meno l’unico motivo per cui i governi europei giustificano i Centri: la deportazione.
I centri per i rimpatri non rimpatriano, proseguono comunque le loro attività. Quali attività?
Come stanno dunque funzionando attualmente i Cpr e perché?
La loro funzione contenitiva, esercitata nei confronti di chi esce dal carcere o da chi viene preso durante le retate, continua ad andare avanti, e al posto della deportazione rimarrà unicamente l’espulsione con il famoso foglio di via; provvedimento che verrà inesorabilmente eluso, non potendo l’espulso adempiere al proprio allontanamento. I senza documenti rimarranno quindi sul suolo nazionale e potranno essere nuovamente riacciuffati e reclusi. Insomma il famoso “gioco dell’oca” è quanto mai valido.
Perché l’Italia non vuole chiudere i Cpr?
Crediamo che molti dei ragionamenti che riguardano la reclusione dei migranti non possano essere scissi dalla situazione detentiva in generale; sarebbe un errore parlare, in tale situazione emergenziale, esclusivamente dei Cpr senza fare un ragionamento sul carcere. Sulla questione carceraria il Ministero della Giustizia sta agendo in modo ottuso e assassino, portando di fatto i detenuti verso una possibile contagio generalizzato. Ciò sta accadendo anche per i Centri Per i Rimpatri, dove la liberazione, unica e vera sicurezza, sarebbe ancor più semplice e banale dal punto di vista burocratico. Sembra che lo Stato italiano sia molto più preoccupato di perdere credibilità repressiva che prevenire un’ulteriore tragedia e mettersi al sicuro dalle possibili rivolte che, spinte dalla paura, potrebbero spazzare via le carceri. Ciò non fa che evidenziare maggiormente quanto la detenzione amministrativa, al pari del carcere, sia un pilastro imprescindibile dell’ordinamento italiano. Un presupposto fondamentale che lo Stato non vuole minimamente mettere in dubbio. Insomma non è solo la questione economica – il business dei Centri – a impedirne la chiusura temporanea, ma qualcosa che scava nelle radici del potere statale.
Ed è proprio alle basi dell’ordinamento che vanno a colpire le rivolte dei reclusi, scardinando con forza le fondamenta della detenzione. La paura del contagio, la certezza che ciò possa portare a delle vere e proprie stragi ha spinto molti a ribellarsi: nel mese di marzo nei Cpr di Gradisca, di Palazzo San Gervasio e di Ponte Galeria a Roma i reclusi hanno portato avanti numerose proteste e rivolte. L’ultima, tra il 29 e il 30 marzo nel Centro friulano ha incendiato e distrutto parte della struttura.
Tutto lascia pensare che altre rivolte esploderanno da qui a breve.