La frattura
La lotta, al di là dell’obiettivo specifico che si persegue e dei nemici che di volta in volta si combattono, è anche un modo di vivere la città, un modo per attraversarla, un modo per conoscerla. Anzi, potremmo dire che la lotta è il solo modo per conoscere veramente una città.
Chi non lotta rischia di rimanere abbagliato dalla propaganda o dall’ideologia, di rimanersene solo con il fantasma ufficiale di un mondo in mano alla microcriminalità o con il fantasma alternativo di un mondo di pecore mansuete incapaci di ribellarsi.
Per fortuna nostra e di chi ci sta a fianco, la realtà sarà sempre più appassionante e sfaccettata di quanto ci potranno mai dire la lingua di ferro della paura e quella legnosa delle idee fisse.
La città è grigia, nessuna salvezza sembra essere alle porte, niente sembra esser degno dei nostri sogni. Eppure, scintille di impossibile sono sparse nel tessuto urbano: solo scuotendone energicamente la trama è possibile ritrovarle, a condizione di lasciare fuori dalla porta quei moralismi da primi della classe che esclusivamente certi anarchici riescono ad argomentare.
Si lotta per vincere, certo, ma anche e soprattutto per costruire rapporti sociali diversi, orientati al conflitto, all’autogestione del conflitto. Ed è questa in fondo l’unica cosa che valga veramente la pena di auto-prodursi, la cosa di cui sentiamo più intensamente la mancanza e l’esigenza. Sappiamo bene che mai i sottomessi si sono risvegliati d’un colpo dal torpore per scagliarsi tutti contemporaneamente contro religione, Stato, famiglia e capitale. È un percorso di rotture, invece, quello che serve, anche lungo e contraddittorio, sganciato da ogni logica quantitativa, anzi, forse, da ogni logica. Rotture che producono rapporti, e rapporti che producono e diffondono altre rotture, dentro al ventre di una città che umilia e che uccide. Non conosciamo altro metodo, tanto vale appassionarsene. Anche qui, niente puzza sotto il naso: le nostre idee devono essere talmente nostre da diventare armi affilate, e non vestiti da indossare per sembrare più belli e più puri di tutti gli altri.
Lotta e conoscenza. Lotta e cambiamento dei rapporti sociali. Ci impegneremo, d’ora in poi, a narrarvi la città anche attraverso queste lenti. Occasionalmente, e con tutti i limiti imposti dal tempo e dal dovere di non far passare troppi guai a chi ci sta vicino.
Cominciamo allora a raccontarvi quel che ne è venuto fuori da una delle iniziative più piccole e inadeguate (rispetto ai tempi ed alla gravità del tema) che abbiamo conosciuto in città in queste ultime settimane: la “caccia all’alpino”. L’ambito è quello della lotta contro la militarizzazione del territorio: non intendiamo qui solo la militarizzazione in senso stretto, cioè i militari nelle strade, perché questo in fondo non è che un passaggio (per quanto emblematico e fondamentale) di un’escalation di poteri e provvedimenti speciali che va avanti da molti anni, un processo nefasto che da molti anni miete periodicamente le sue vittime, e che da molti anni suscita la reazione, tra cortei di protesta e pietrate contro la polizia, di chi si sente minacciato, di chi è sopravvissuto per un pelo.
La penetrazione degli alpini a Porta Palazzo, dopo il training iniziale al parco Stura, non ha praticamente incontrato nessuna forma di resistenza visibile, a parte uno sparuto gruppo di oppositori sfacciati e forse un po’ matti, minoranza nella minoranza, di cui avrete sicuramente letto qualcosa nella colonna qui a fianco. Una iniziativa piccola che pur ha avuto qualche efficacia immediata giacché, circondati dai contestatori, gli alpini non hanno potuto neanche chiedere un documento a un tossico, diventando per mattinate intere bambocci inutili ai fini repressivi, senza contare il dispendio di uomini e mezzi della Digos, che per due settimane li hanno scortati e “protetti”. Detto questo, è evidente che alla lunga questa “caccia all’alpino” da sola non basterà a tenerli lontani o a rendere le loro ronde inoffensive. E sarebbe illusorio sperare che la gente comune, folgorata dal coraggio di pochi e dalle loro parole, si unisca al gioco, trasformandolo così in un problema ben più serio.
Ma oltre all’efficacia immediata dell’iniziativa, oltre ai discorsi che la accompagnano, la “caccia all’alpino” vale per quello che è: una provocazione, un sasso gettato nell’acqua stagnante della città per tentare di vedere cosa c’è sotto. Lotta e provocazione, lotta e conoscenza: la provocazione, come strumento di lotta, non è solo un modo per far conoscere le proprie idee, ma anche un metodo per conoscere la città, per trarne qualche piccolo frammento di teoria e qualche indicazione pratica che potrebbe tornare utile in futuro.
E allora, che cosa hanno sentito i cacciatori di alpini? E cosa hanno capito? Vediamo.
Hanno sentito, intanto, i proprietari delle bancarelle del mercato che strillavano, con l’abilità di chi strilla per mestiere, «ma se i militari li abbiamo voluti noi!», «andate a lavorare!», «sono meglio loro di voi!». Pressati dalla provocazione, i commercianti hanno ritrovato la propria classe, stritolati come sono da due necessità solo apparentemente contrapposte: vedersi garantito da parte dello Stato, da un lato, quel terrore diffuso che solo può costringere decine e decine di stranieri senza documenti a lavorare per loro con ritmi e paga da schiavi; dall’altro, assicurarsi una “zona franca” tra le bancarelle, affinché nelle retate non rimangano imbrigliati i “loro” clandestini, o che per lo meno vengano catturati lontano lontano – tanto da evitar ai commercianti multe e guai con la magistratura. Un rapporto ambiguo, questo, tra gli schiavisti e gli apparati repressivi: siamo in grado di parlarvene proprio perché, a margine di altre lotte e di altre provocazioni, schiavi inquieti ci hanno tirato per la giacca, fornendoci numerose indicazioni e racconti.
Hanno sentito, poi, che le urla dei proprietari delle bancarelle erano urlate solo in italiano. Gli altri, i commercianti stranieri, o tacevano o sorridevano ai contestatori. Schiavisti tanto quanto gli italiani, faticano però a ritrovare sé stessi divisi come sono tra la propria appartenenza di classe e quell’identità da ex-colonizzato che porta ancora nel sangue il ricordo degli scempi perpetrati dalle truppe occidentali. Altri passi ancora servono prima che costoro, in massa e senza tante chiacchiere, si schierino dalla parte che è loro propria – quella dei commercianti italiani e dell’esercito.
E poi, cos’altro hanno vissuto i nostri cacciatori di alpini? Hanno saputo di un rumeno che forniva intenzionalmente indicazioni sbagliate ai poliziotti che cercavano in mezzo alla folla i sovversivi. Sono stati avvertiti da un lavoratore di passaggio del fermo di uno di loro. Hanno visto il cenno d’assenso col capo del tipo un po’ losco fermo all’angolo, hanno sentito la solidarietà mormorata della ragazza che prende il volantino frettolosa, e hanno risposto al «come va, tutto bene?» del sottoproletario straniero conosciuto in altre piccole avventure precedenti. E poi, ancora, il ragazzo della strada che volta la bicicletta per venirti a sussurrare: «attenzione, arrivano!». E l’altro che ti dice: «la prossima volta telefonami!». O quello che ti racconta la sua storia – sempre di repressione, violenza e speranze tradite. E poi, dopo, ci sono sempre dei vicini di casa che ti salutano un po’ più calorosamente del giorno prima. E dopo, ancora dopo, arriva un commesso che ti porta in anteprima la lettera indirizzata al Ministro dai commercianti imbufaliti contro di te, e ti sa dire pure chi e come l’ha scritta. Lotta e provocazione, lotta e cambiamento del tessuto dei rapporti in città. Fili che si intrecciano. Rapporti che fanno intravedere la possibilità di pensare la resistenza – e di pensarla concretamente. È l’altro lato della barricata sociale che piano piano riscopre se stesso e si riconosce.
Per quanto banale possa essere, i cacciatori di alpini hanno scoperto che la città non è un monolite, che anzi è divisa, tagliata in due da una profonda frattura, una frattura che passa attraverso la divisione illusoria tra italiani e stranieri ma che ancora non riesce a scardinarla del tutto. Hanno imparato che anche una iniziativa tanto piccola e modesta come la loro può funzionare da grimaldello che si conficca tra una parte e l’altra di questa frattura e ne illumina sempre di più i confini. E hanno imparato che in mezzo a questa frattura ci sta ancora un sacco di gente, ci stanno tutti quelli che quelle mattine stavano in silenzio, tutti quei proletari, magari di una certa età, che giustamente vanno a comprare i pomodori a Porta Palazzo perché costano meno, 10 centesimi in meno di quelli sotto casa. Tutti loro sono ancora lì che guardano. Indecisi se saltare il fosso e schierarsi dalla parte dei propri nemici storici – gli schiavisti del mercato, i padroni, la polizia – oppure se riconoscersi e rispecchiarsi finalmente nei nuovi proletari, spesso giovanissimi e stranieri, che popolano il mercato.
Il loro silenzio è per ora di difficile interpretazione per i cacciatori di alpini. Ma si sa, la rivoluzione non è una scienza esatta.