«Un culo così»
Mi sveglio con dentro alle orecchie il rumore di cingoli che schiacciano i rami ed il terreno. Mi affaccio ed è vero: c’è una ruspa dall’altra parte della strada che sta buttando giù la casa del mio vicino. Avanti e indietro, avanti e indietro. Prima c’era una casa, ora c’è un cumulo di macerie.
A vederla da fuori, questa scena è anche noiosa. Non succede nulla. Sarebbe tutto più appassionante se qualcuno si mettesse in mezzo, se ci fosse un «no!», oppure un urlo. O almeno un pianto. Invece niente: avanti e indietro, avanti e indietro.
A vederla da fuori, questa scena che vedono i miei occhi è solo una ruspa che mette ordine in una discarica, con della gente attorno che guarda – avanti e indietro. Ma quella gente che guarda sono io, io che mi sono appena alzato, e gli occhi che guardano sono i miei, ancora assonnati.
E i miei occhi – e pure gli occhi di mio padre che è arrivato adesso e quelli di mio fratello piccolo che anche stamattina non è andato a scuola – vedono ancora una casa, piccola e con un cortiletto, e vedono ancora la vicina che spazza la polvere fuori dalla porta.
Del resto quegli stranieri lì, quelli con in testa quel cazzo di berretto per tutti uguale, era da un bel po’ di tempo che passavano a dirci che sarebbero tornati con le ruspe. Io non ci credevo, e non ci credevano neanche i miei vicini – che ora non si vedono perché se ne sono scappati a casa di parenti solo un po’ più in giù, verso il fiume.
La ruspa continua ancora un po’ (avanti e indietro, avanti e indietro). Gli stranieri col cappello mi dicono arroganti una roba che non capisco bene indicando casa mia, poi se ne vanno, insieme alla ruspa.
***
Sono due giorni che piove ed io sto seduto sul letto, con i piedi nell’acqua. Nella tenda che ci hanno dato non c’è pavimento, non c’è niente, la pioggia è da tutte le parti. Nel letto con me c’è mio padre che ancora dorme, e c’è anche mio fratello piccolo che a scuola tanto non ci va più.
I miei occhi la vedono ancora la ruspa che fa avanti e indietro – avanti e indietro. Avanti e indietro sulla casa dei vicini e un giorno anche sopra a casa mia. Prima della tenda – e prima della pioggia – c’è stata ancora un’altra casa, e poi un parcheggio e poi una baracca bruciata perché i bambini quando giocano non stanno mai attenti. E ogni volta arrivavano quelli coi cappelli tutti uguali, a dirci di andar via. E noi via, a scappare avanti e indietro, avanti e indietro.
Quello che ha il letto di fronte al mio è grande e grosso, e parla bene la lingua degli stranieri. Però è pessimista. Ieri, a uno che ci diceva che dovevamo smetterla di scappare, che dovevamo resistere e combattere, lui ha risposto: «Ora che al governo ci sono i fascisti, a noi zingari ci fanno un culo così solo se mettiamo il muso fuori». Ed ha pure fatto il segno con le mani, il segno che fanno gli italiani: «un culo così».
Io lo guardo, e penso che «un culo così» ce lo stavano facendo già quelli che c’erano prima, e quelli prima di loro, e anche quelli di prima ancora.
E penso pure che quello di ieri, che quell’italiano che ci diceva di resistere e di combattere aveva ragione. Quelle stesse cose ce le siamo detti tante volte con mio padre, e lo sappiamo anche noi che un giorno saremo costretti a farlo. Ma pure quell’italiano, pure lui che diceva delle parole giuste, le cose che vedono i miei occhi lui le vede da fuori, come in un filmino noioso girato con un telefono cellulare. Le vedesse coi miei occhi anche lui imparerebbe ad appiattirsi contro ai muri fino a scomparire come faccio io, anche a lui sembrerebbe normale nascondersi e scappare avanti e indietro, avanti e indietro dentro ai bordi di questa città che non ci vuole. Anche lui imparerebbe a far così, ne sono sicuro.
Torino, maggio 2007-maggio 2008