Il non scritto
11 maggio. Paolo Bonaiuti, Mario Borghezio, Mercedes Bresso, Carmelo Briguglio, Rocco Buttiglione, Vannino Chiti, Roberto Cota, Cesare Damiano, Antonio Di Pietro, Stefano Esposito, Piero Fassino, Claudio Fava, Anna Finocchiaro, Maurizio Gasparri, Enzo Ghigo, Ignazio La Russa, Giorgio Merlo, Gianfranco Morgando, Andrea Ronchi, Gianfranco Rotondi, Antonio Saitta, Jole Santelli, Michele Vietti… Questi gli uomini politici di ogni colore che dalle prime ore del mattino hanno urlato parole di sdegno e condanna per delle scritte comparse nottetempo sui muri de “La Stampa” e di qualche sede torinese del Partito Democratico. Semplici scritte, e che riportano due altrettanto semplici verità – ma che sono riuscite a scatenare una piccola tempesta politica e mediatica. «Calabresi assassino», «Pinelli assassinato». Che Pinelli sia stato assassinato, e che sia stato assassinato anche dal commissario Calabresi, è una di quelle verità che, pur non essendo sancite né dai libri di storia né da dalle aule dei tribunali, rimarranno ancora a lungo nel cuore di molti. Ma di questo aspetto della faccenda i potenti che abbiamo citato qui sopra in rigoroso ordine alfabetico non pensiamo se ne preoccupino più di tanto. Quello che li preoccupa tremendamente, e che rende la loro schiera tanto numerosa e varia, è la terza parte di questo graffito, quella che non è stata scritta né sui muri de “La Stampa” né su quelli del Pd: «Calabresi assassinato».
Il problema non è che si parli ancora della morte dell’anarchico Pinelli, né che ad ucciderlo sia stato il commissario Calabresi: di gente ammazzata dalla polizia ne è piena la storia recente. Il problema è che si ricordi che la morte di Pinelli fu una ferita nella carne di un intero movimento sociale – se non di una intera classe – e che quell’intero movimento – se non quella intera classe – smise per una volta di leccarsele, le ferite, per esultare della fine precoce del commissario Calabresi e farne un fatto collettivo. Già, perché chiunque sia stato ad ammazzare il commissario Calabresi ha avuto il buon gusto di non rivendicare la paternità di quel gesto a sé o al proprio partito. Un omicidio anonimo – una vendetta di tutti. Mille miglia di distanza dalle abitudini che hanno preso piede di lì a poco e che sembrano non voler proprio scomparire, con ogni iniziativa concreta di lotta (dall’attentato fino alla semplice scritta sul muro) trasformata in marketing di fazione o in megafono di una qualche nuova elaborazione ideologica o strategica.
Del resto, il lunghissimo processo a Sofri e compagnia, l’altrettanto lunga e penosa campagna in suo favore, e da ultimo il disgustoso abbraccio tra vedove proprio a questo dovevano servire: a cancellare quel ricordo pericoloso sovrapponendovi trame di gruppi politici, ordini pronunciati in segreto dalle vedette d’epoca, nomi e sigle e rancori gruppettari, retoriche d’accatto sull’amore paterno e mille altre pesantezze.
Pinelli è stato ammazzato, dunque, e Calabresi pure. Ma che non se ne parli troppo, che non ci si interroghi sulle connessioni tra questi due fatti, che non si indaghi sui ricordi pericolosi di una generazione intera. Che non si arrivi mai a ipotizzare che la classe di chi è stato sempre vittima – della repressione, del lavoro, di una “sorte” sempre crudele ma mai casuale – possa tornare a raddrizzare la schiena, possa tornare a difendersi e anche a vendicarsi. Senza tante chiacchiere.