Aerei

Ve la ricordate la Air Italy? Di questa compagnia aerea vi avevamo parlato brevemente nel febbraio scorso perché in quei giorni si era messa a disposizione del ministro degli Interni, ansioso di disperdere il più velocemente possibile i ribelli di Lampedusa in giro per i Centri di mezza Italia. Non era stato un grande affare, quello, per il Ministero: proprio quel pugno di tunisini che aveva appena distrutto un bel pezzo del Cie lampedusano avrebbe portato il seme della rivolta in giro per lo stivale dando il via ad una ondata di lotte, evasioni e rivolte che si sarebbe placata soltanto due mesi dopo.

Il capitano Giuseppe Gentile, proprietario della Air Italy (0331.211019 - 0331.211011)Ora ne sentiamo riparlare, della Air Italy. E già, perché il comandante Giuseppe Gentile, proprietario della compagnia, ama talmente fare soldi sulle deportazioni da cercare clienti anche in altre capitali della Fortezza Europa. E così è stato un suo aereo, il 14 ottobre scorso, a far ripiombare 39 iracheni  proprio in mezzo alla guerra dalla quale erano scappati: in Inghilterra, dove erano arrivati dopo mille peripezie, non c’era posto per loro e i funzionari inglesi si erano fatti quattro risate di fronte alle loro richieste di asilo. Questo dei voli delle deportazioni è uno degli ingranaggi della macchina delle espulsioni che, in altri paesi e in altri tempi, i nemici delle frontiere hanno cercato di inceppare – con presenze negli aeroporti, attacchi contro le sedi delle compagnie, inviti alla non-collaborazione rivolti al personale di bordo e agli altri passeggeri, invasioni delle piste, ecc.-, a volte anche con successo.

Insomma, è un elemento questo sul quale bisognerà focalizzare l’attenzione per capire quel che si può fare. Per intanto tenetevi a mente che Miguel è stato riportato in Perù con un volo dell’Alitalia, i reduci della battaglia di Corelli sono stati traferiti a Bari e a Brindisi con un aereo targato ItAliairlines, gli scomodi testimoni della morte di Hassan con un volo della Air Maroc.

Per farsi una idea di cosa sia, con più esattezza, un volo di deportazione, pubblichiamo qui sotto una intervista ad un poliziotto francese che di lavoro fa proprio “l’accompagnatore” durante i rimpatri coatti. È tratta dal sito Mediapart ed è stata diffusa in Italia già da Fortresseurope qualche giorno fa. Leggetela bene. Non solo con gli occhi dell’indignazione e della rabbia (questa testimonianza è, a tratti, inverosimilmente cruda e spietata). Ma anche con la curiosità indagatrice di chi si chiede: «e io, cosa posso fare, praticamente, per ostacolare questa gente?»

Una guardia di frontiera racconta la violenza ordinaria dei rimpatri coatti

I rimpatri fanno parte del suo quotidiano. È agente della polizia di frontiera (PAF), grado: “guardiano della pace”, in servizio all’unità nazionale di scorta, di sostegno e di intervento (Unesi), con base a Rungins, e ha il compito di “riaccompagnare” gli stranieri espulsi nel loro paese d’origine. Ben voluto dai suoi superiori, non è né sindacalizzato né vicino all’età della pensione. Inizialmente non aveva intenzione di parlare con un giornalista. Un collaboratore di “Mediapart” ci ha messo sulle sue tracce. E allora questo poliziotto si è convinto dell’interesse di dettagliare il funzionamento, dall’interno, della macchina delle espulsioni messa in moto da Nicolas Sarkozy.

Ha accettato di parlare “in nome della trasparenza”, ma ha preferito restare anonimo per non essere identificato. Il suo racconto è pubblicato in due parti. Dalle manette alle cinghie, passando per i placcaggi al suolo e gli strangolamenti, la prima parte è dedicata ai metodi adoperati per costringere gli illegali a salire e restare sugli aerei che li riportano al paese che hanno voluto lasciare. Più appare banalizzato e camuffato più il ricorso alla violenza è risulta insidioso.

«Abbiamo un’ora per convincere il tipo a partire»
«Faccio una quindicina di rimpatri al mese. Ci chiamano un giorno prima della partenza, o al Venerdì per il fine settimana. Ci danno un dossier per la scorta, coi documenti della persona espulsa e la rotta aerea, gli ordini di missione che rimpiazzano le carte di polizia e le spese della missione. All’aeroporto si arriva due ore prima del volo. Si ha un’ora per conoscere il ragazzo, per vedere chi è, se ha un problema per esempio medico, se c’è qualche problema coi documenti. E questa è quella che si chiama la “presa in carico della missione”. Ma si hanno poche informazioni. Abbiamo un’ora per convincere il tipo a partire e per caricarlo sull’aereo coi passeggeri normali. Questo succede all’ULE, l’Unità Locale di Allontanamento, di Roissy o di Orly, dove le persone sono messe in cella. L’ULE è la zona tampone tra il CRA [i Cie francesi, ndT] e l’aereo. Per l’Africa ci sono tre poliziotti di scorta, due per il resto del mondo.»

«Risse sull’aereo»
«Quando ci si azzuffa nell’ULE o sull’aereo è perché la maggior parte della gente non vuole partire. Si consideri che siamo pagati per rimpatriarli, non per infastidirli. Quindi gli spieghiamo e loro capiscono. E se non capiscono tanto peggio per loro. La regola ufficiale, l’ordine di servizio, è che non dobbiamo scortarli a tutti i costi. Per esempio se un tipo è malato non lo metto sull’aereo. Il peggio è quando vomitano o si cagano addosso. Non c’è da ridere. Sputano e mordono, anche.
Quando succedono questo genere di cose li si fa subito scendere, non si insiste. Solo per le ITF [interdizioni dal territorio] facciamo il possibile per farli partire perché hanno commesso delitti o reati gravi. Ad ogni modo chi non parte viene portato direttamente in prigione per due o tre mesi per violenza a pubblico ufficiale. Salvo che non venga riconosciuta la legittimità delle sue azioni dal giudice di Bobigny, perché a Bobigny ci sono giudici che sono completamente contro la polizia. È un distretto speciale.
Per quanto riguarda le APRF [arresti prefetturali di rimpatrio alla frontiera] ai tipi spieghiamo che se non partono è da considerarsi un rifiuto, e che saranno messi su un altro volo alla fine della detenzione. Gli viene detto: “tu riparti comunque”. I tipi che vengono espulsi sono dei poveri ragazzi, ne siamo perfettamente consapevoli. Sono dei tipi che vengono a cercare lavoro. Noi gli spieghiamo: “non è un tiro mancino, so che non è divertente, ma sei obbligato a partire”, abbiamo un ora per spiegarglielo. Il problema è che la Cimade [il principale gestore dei Centri francesi, ndT], e tutte le associazioni, gli montano la testa, gli procurano anche i lassativi eventualmente…»

«Manette, cinture addominali e cinghie…»
«Noi gli spieghiamo, se capiscono tanto meglio. Ma se vediamo che si agitano li mettiamo a terra con le manette, prima dell’imbarco, dietro l’aereo. Abbiamo una formazione iniziale che dura un mese, e riguarda ciò che abbiamo diritto di fare, ogni tre mesi c’è un aggiornamento, che vuol dire che si fa una sessione di formazione intensiva di un giorno.
Con le persone di cui non ci fidiamo usiamo cinture di velcro che si mettono attorno la vita. Il ragazzo può avere le mani legate davanti, sullo stomaco. Al commissariato avevamo cinture di cuoio. Sono dispositivi abbastanza inadatti e funzionano male perché si regolano con degli strappi e i tipi tirano forte, e quando c’è un nero di 110 chili le strappa. Possiamo anche utilizzare delle cinghie da mettere sopra le ginocchia, sulle caviglie o sul petto. E se il tipo si dimena troppo ne tendiamo una tra le caviglie e il petto per evitare che dia colpi di testa. A volte attacchiamo un cuscino al sedile di fronte, per la stessa ragione.
Per un po’ di tempo non abbiamo potuto usare le manette, solo perché c’è stato detto che costavano troppo. Quindi ci hanno dato manette di tessuto usa e getta, che sono completamente inefficaci, se non coi tipi tranquilli. Una volta stavo facendo un asiatico, il tipo è salito tranquillamente, era persino contento di tornare. In realtà era un attaccabrighe, abbiamo dovuto combattere durante il volo per due ore.
Lo abbiamo domato, ma il problema è che con le manette di tessuto non lo si poteva legare, stava strangolando un mio collega, io gli sono saltato addosso, lui era atletico. È stata una missione di merda. Per fortuna i passeggeri non si sono mossi. Ora fortunatamente abbiamo delle vere manette di metallo.
Se il ragazzo è tranquillo si evita la violenza, la coercizione, l’uso delle cinghie, le utilizziamo il minimo possibile. E di solito va molto meglio. Il manuale GTPI [tecniche professionali d’intervento] è lo stesso dal 2003. Per esempio la tecnica del “pliage” [che ha causato la morte di due deportati, nel 2003 e nel 2004] è severamente vietata in tutti i casi e noi non la usiamo mai. Nel nostro reparto non usiamo più i bavagli. Ma io metto le mascherine per impedirgli di sputare, sapete, quelle che si usano quando si usa la vernice.»

«Lo strangolamento è perfettamente autorizzato, è nel manuale»
«Il massimo che siamo autorizzati a fare è un tipo di strangolamento che chiamiamo “regolazione fonica”. Si tratta di fare delle pressioni sulla gola perché il tipo non gridi. È perfettamente autorizzato, sta nel manuale. Sennò quello che facciamo più spesso è di immobilizzarli a terra. Si mette il tipo a terra, lo si placca al suolo. Nelle nostre missioni abbiamo un rapporto di peso diciamo. Cioè che il totale del peso dei poliziotti della scorta deve essere il doppio del peso del tipo. Il fatto di essere in numero maggiore e di avere la possibilità di metterlo al suolo e immobilizzarlo ci evita di doverlo picchiare.

Prima rifiutavo l’uso della forza, ma adesso, quando qualcuno è ottuso, gli facciamo capire subito che noi siamo più forti di lui, e una volta che l’ha capito iniziamo a ragionare. Gli africani a volte, fanno i duri e quando gli parli in modo gentile ti prendono per un debole. Ma una volta che si ritrovano con la faccia per terra e le cinghie strette, che gli dici “com’è che ora fai meno il furbo, salame?”, là cominciano a rispettarti un po’. Io l’ho fatto un paio di volte, forse tre. So che ci sono colleghi con lo schiaffo facile, ma grossi bruti da noi ce ne sono molto pochi. Se li picchiamo gli diamo pugni nello stomaco, perché non si devono vedere i segni.

Se poi il tipo si prende un sacco di botte, vuol dire che se l’è cercata, è già successo, attenzione, non ci giro intorno, ma c’è chi se lo merita. Per esempio quello che ha morso il dito a un poliziotto, quello là si è preso un sacco di botte, è sicuro, è comprensibile. Insomma, questo succede quando ci sono delle violenze su di noi o sull’equipaggio dell’aereo.»

«Quando ci sono problemi i celerini usano i lacrimogeni nell’aereo»
«Quando saliamo nell’aero, ci siamo noi, la persona rimpatriata, la polizia dei Centri di detenzione amministrativa, gli agenti dell’ULE, quindi siamo in parecchi poliziotti. Ma in caso di necessità, se servono rinforzi, chiamiamo i CIP, cioè la compagnia di intervento degli aeroporti di Orly o Roissy, che sono dei celerini. Loro sono meno formati di noi, sono loro che lanciano i lacrimogeni nell’aereo quando c’è un problema. Li chiamiamo solo quando ci sono operazioni da fare a bordo, quando siamo obbligati a far scendere gente che cerca veramente di far degenerare le cose.
Ma quando si chiudono le porte, ci ritroviamo da soli. Noi siamo sempre in borghese, niente armi. In generale riusciamo sempre a far montare i tipi da espellere sull’aereo, è il nostro mestiere. Gridano, sbattono, spaccano i sedili a volte, le hostess piangono, vabbé. I problemi arrivano quando i passeggeri si mettono in mezzo. Ci sono stati dei filosofi per esempio. Gente che non sapeva niente ma che veniva a fare la parte dei giusti. Vedevano dei neri circondati da bianchi e gridavano allo scandalo. Quando magari il rimpatrio procedeva bene, e riuscivano a fare alzare tutti. In seguito, l’Air France è stata accusata di aver dato i nomi di questa gente alla polizia. È vero, la ma quelli dell’Air France si erano rotti di farsi trattare da nazisti o da collaborazionisti.»

«Il “rapporto di forza” con il comandante di bordo»
«Giuridicamente, il comandante di bordo è quello che comanda dentro all’aereo da quando le porte sono chiuse. Ma prima comandiamo ancora noi. Se ci chiedono di scendere, il capo missione dice: “no, finché le porte sono aperte noi non scendiamo”. Poi chiamiamo il nostro ufficiale e finché non arriva non ci muoviamo: e questo fa imbestialire tutti, è proprio una questione di rapporti di forza. L’ufficiale arriva, arriva la Celere, l’aereo non riesce a partire in orario e alla fine non può decollare e viene annullato. Questo, giuridicamente, è il massimo. Se scendiamo, perdono tutti.
Gli ordini, poi, dipendono dagli ufficiali. Il problema è che la maggior parte di loro non vogliono scontrarsi direttamente con l’Air France. Una volta, alla Lufthansa bastava un colpo di tosse di un espulso e ci facevano scendere, preferivano cancellare un volo che fare un rimpatrio. L’Alitalia pure, e anche Royal Air Maroc. Adesso non facciamo più le compagnie africane, per fortuna, perché là veramente era difficile. A volte dobbiamo minacciare il personale di bordo, perché si dimenticano che siamo poliziotti, e che possiamo denunciarli per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, ma in generale va bene.
Un comandante di bordo ci ha detto che durante un rimpatrio c’è stata una rivolta e che un ragazzo era stato calpestato. Noi ne si è perfettamente coscienti. Loro se vogliono decollare hanno tutto l’interesse di lasciarci sul volo. Una volta in volo di solito le cose vanno bene. Dipende dalla collaborazione dell’uomo e dalla fiducia dei colleghi e dell’equipaggio. Ma la maggior parte delle volte sleghiamo il ragazzo.»

«Dobbiamo imparare a sbrogliarcela all’estero»
Ci sono persone bilingue tra di noi per gestire le situazioni all’estero. Spesso i rapporti con la polizia locale non sono l’ideale. Possono fare dei problemi per via dei documenti, possono rifiutare il rimpatrio. In certi Paesi dell’Africa non ci amano, fanno prova di cattiva volontà.
Di solito quando arriviamo ci aspetta la SCTIP, il servizio di cooperazione tecnica internazionale di polizia che fa capo all’ambasciata. In Sudamerica c’è l’Interpol che ci accoglie quando trasportiamo spacciatori e criminali. Nella maggior parte degli altri Paesi prendiamo contatto con le autorità locali. Gli trasmettiamo il dossier del tipo espulso, con tutto quello che ha fatto in Francia. Se è stato buono sull’aereo allora leviamo dal dossier tutti i documenti che potrebbero portarlo in prigione.
In Tunisia, sistematicamente, gli espulsi si fanno tre giorni di carcere. In Algeria sono più simpatici, anche con gli espulsi. Anche in Marocco se la passano bene. Ci è successo spesso di riportare al paese loro dei delinquenti, la feccia proprio. Fanno i malandrini quando sono in Francia, ma quando vedono i poliziotti del paese loro imparano immediatamente le buone maniere. Fa piacere. Bisognerebbe farglieli fare più spesso, degli stages al loro paese.»

Domani, il seguito di questa testimonianza: le considerazioni del poliziotto sul proprio lavoro, che considera «un po’ assurdo» ma che dopo tutto gli permette di «fare il giro del mondo».