Ai solidali
Molti compagni producono solidarietà come i tignosi producono pidocchi. Ne fanno in grande quantità, di ogni genere, verso ogni genere di bisognosi di attestazioni solidali: verso i perseguitati, verso i minorati, verso tutti coloro a cui è stato o sta per essere sottratto qualcosa. (…) Ora, da molti anni – perfino da troppi anni – ci chiediamo che cosa si debba intendere per solidarietà. Una dichiarazione di intenti? Un riconoscimento della situazione di distretta in cui si trova qualcuno? Un comunicato nei riguardi dell’ente repressore che l’oggetto della repressione non è solo ma trova al suo fianco noialtri agguerriti combattenti sprovvisti di comunità di intenti ma tutti orecchi nel cogliere ogni alzata di manganello? (…) La solidarietà rivoluzionaria è altra cosa. Vediamo, per l’ennesima volta, di chiarire il problema.
Penso, per amore di discussione, che si possano ipotizzare due situazioni: la solidarietà che intendo dare agli esclusi in generale e quella che intendo dare ai compagni colpiti dalla repressione. Parrebbe la medesima cosa ma non lo è. Nei confronti dei primi posso denunciare i processi repressivi ma il mio scopo primario non può fermarsi qua, deve andare oltre, devo cioè cercare di organizzare gli esclusi in questione per realizzare insieme a loro un attacco contro gli strumenti e gli uomini che questa repressione realizzano. Nei confronti dei secondi la mia solidarietà rivoluzionaria può consistere solo continuando il progetto rivoluzionario per cui quei compagni sono stati colpiti dalla repressione.
È evidente che in ambedue i casi il momento iniziale della solidarietà è solo un passaggio, perfino pleonastico se non meramente secondario, per andare a un momento successivo. Nel caso degli esclusi in generale ha lo scopo non fine a se stesso di farmi conoscere per presentare il progetto organizzativo, questo sì di natura rivoluzionaria. Nel caso dei compagni la semplice solidarietà è quasi controproducente se il mio vero scopo rimane quello di continuare il loro progetto, perché potrebbe mettere a repentaglio proprio questa continuazione, facendo conoscere pubblicamente una condivisione di intenti che non è sempre utile portare a conoscenza della repressione. Va da sé che se io non condivido il progetto dei compagni oggetto dell’attacco repressivo non sono disponibile nemmeno a fornire loro la mia solidarietà, in caso contrario quest’ultima sarebbe solo una banale manifestazione di esistenza in vita da parte mia (ecco: sono qua, esisto anch’io) e non avrebbe nulla di rivoluzionario.
(Il testo che avete appena letto è tratto dall’articolo “Solidarietà come attestazione in vita”, che potete leggere in tutta la sua limpida durezza nel numero 4 della rivista SenzaTitolo. Come forse sapete, uno dei redattori di questa pubblicazione è stato arrestato in Grecia il primo di ottobre scorso con l’accusa di concorso in rapina con un altro anarchico. Cogliamo l’occasione per salutarli.)