All’attenzione del Sig. Gariglio
Questa lettera arriva da Andrea che si trova rinchiuso nel carcere di Ravenna per l’inchiesta del 3 giugno. L’ originale di questo scritto è stato inviato direttamente al destinatario, Davide Gariglio, Segretario regionale del PD che aveva preso parola alla notizia dell’operazione di polizia. Consapevoli della molte buste che intasano la casella delle lettere della Segreteria e della facilità con cui la posta va perduta, ne pubblichiamo qui il contenuto.
«Ravenna, 13 Giugno 2014
Cortese Sig. Gariglio,
Leggo solo oggi il comunicato stampa con il quale lei ringrazia magistratura e forze dell’ordine per la retata anti-anarchici di dieci giorni fa.
Lo leggo solo ora giacché, essendo uno dei sovversivi arrestati in quella operazione, mi trovo chiuso in una cella a varie centinaia di chilometri di distanza dalla nostra città: e qui le informazioni giungono smozzicate e in perenne ritardo.
Mi perdonerà dunque l’intempestività con la quale mi permetto di farle notare che né io né i miei compagni siamo stati arrestati per quelle «azioni teppistiche e intimidatorie contro le sedi del Partito Democratico» delle quali parla nel suo comunicato stampa: nelle carte che custodisco qui nella mia cella, e che elencano con meticolosità questurina una bella lista di fatti in qualche maniera delittuosi e i relativi capi di imputazione, non se ne fa cenno alcuno. Non voglio supporre la Sua malafede, signor Gariglio: saran state tante e tanto varie le sue telefonate in Procura che è normale confondere una con l’altra. Dia tempo al tempo e non disperi: a palazzo di giustizia sono zelanti e troveranno la maniera di accontentarla su tutto.
Glielo faccio notare in questa forma inusuale, e a titolo individuale, giacché quaggiù, e separato come sono dai miei compagni, non ne ho altre maniere: i delitti dei quali io e i miei compagni siamo accusati sono tutti legati alla resistenza agli sfratti in alcune zone della nostra città. Addirittura, le carte dell’accusa dipingono noi come l’incubo degli ufficiali giudiziari e il quartiere in cui viviamo come un piccolo mondo alla rovescia dove pubblici ufficiali e imprenditori immobiliari – e persino i Carabinieri – vivono nella paura, mentre invece i poveracci son sempre all’attacco.
Redatta con inchiostro questurino, questa descrizione di porta Palazzo e della Barriera di Milano rimane lontana dal vero giacché, nonostante lo sforzo e l’entusiasmo di tanti, a fare il bello e il cattivo tempo, qui, continuano ad essere i padroni – piccoli e grandi – e gli uomini in divisa, mentre il grosso dei poveracci continua ad arrangiarsi come può, e tendenzialmente tenendo ben bassa la testa.
È vero però che son stati più di un centinaio gli sfratti impediti in questi ultimi due anni, ed è vero pure che alla Questura e agli Ufficiali Giudiziari si è dato almeno un po’ di filo da torcere: ed è forse anche questo che Lei pensa quando lamenta l’esistenza in città di «zone santuario dove regnano l’illegalità e la violenza». Attenzione, però, cortese signor Gariglio. Nel momento stesso in cui i nostri occhi si poggiano sulla realtà questa ne esce trasformata, ed è il nostro stesso sguardo – che è etica e classe – a modificarla.
Per cui: è “violenza” l’Ufficiale Giudiziario che esegue uno sfratto oppure il povero che gli resiste? – e l’ufficiale Lei mi insegna non arriva sventolando mazzi di fiori ma carte del tribunale.
E non è “violenza”, pure, pagare l’affitto a gente come Giorgio Molino? – e quanti ne abbiamo incontrati, nella Barriera come a Porta Palazzo, di piccoli o grandi “Ras delle soffitte”!
E non è “violenza” aspettare anni e anni una casa popolare, vivere ogni giorno con l’incubo di finire in mezzo ad una strada?- le statistiche e i primati torinesi Lei li conosce meglio di me, sicuramente.
La “violenza” che Lei ci imputa – se pure è violenza! – è la violenza dei poveri che alzano la testa, ed è stata praticata da centinaia di persone in questi due anni nella Barriera di Milano e a Porta Palazzo; ed è stata la stessa che ha attraversato questi quartieri da quando esistono, per conquistare un salario migliore, per impedire una guerra, per cacciare i nazisti. Sullo sfondo, sempre, l’idea di un mondo più giusto da costruire.
L’altra “violenza”, quella che invece siamo accusati di avere combattuto, è la violenza strutturale dell’economia, la violenza legale della divisione in classi. È la normalità dello sfruttamento che, passati i tempi faticosi dello stalinismo e della socialdemocrazia, Lei e i suoi colleghi di partito potete tranquillamente ignorare: non serve più stare in mezzo agli operai per difendere i padroni, ora le maschere sono trasparenti e i padroni li potete difendere a viso aperto.
Occhi che si poggiano sulla realtà, etica e classe, possibilità, scelte. Io misuro senza fretta il tempo che scorre in questa cella, e son tranquillo in mezzo al vociare incessante del carcere. Non so se la stessa tranquillità la si possa provar dall’altra parte, dalla Sua parte, tra telefonate in Procura, aperitivi con gli industriali e affari da concludere. Ma non è affar mio, e in fondo non me ne importa.
Cordiali saluti,
Andrea Ventrella»