A 34 mani
NOTE SULLA LOTTA CONTRO GLI SFRATTI A TORINO
Quello che segue è uno scritto a 34 mani. È stato redatto da alcuni arrestati del 3 giugno e propone una lettura complessiva dell’inchiesta, delle sue implicazioni e cerca anche di raccontare, ancora una volta, due anni di resistenza e lotta nelle strade di Torino. Proprio come i migliori romanzi d’avventura verrà pubblicato a puntate, e ognuna di queste affronterà un aspetto differente della storia che ci interessa.
Ne immaginerete certamente la difficoltà di redazione, con gli autori dispersi in celle o case di città differenti; qualcuno sottoposto a censura; con i ritardi e i disguidi propri della corrispondenza carceraria. Ne perdonerete dunque la disomogeneità di stile e pure certe contraddizioni di punti di vista e contenuti. Puntata dopo puntata avrete tra le mani un testo collettivo, sì, ma nel senso della pluralità delle voci, della coralità: non c’era a disposizione alcun direttore d’orchestra che potesse dettar la partitura e, del resto, nessuno l’avrebbe voluto avere.
Racconto di una lotta
«Quindi voi organizzate sommosse, giusto?». Con questa domanda mi avvicina durante l’ora d’aria un compagno di sezione. Aveva letto qualche trafiletto sugli arresti del 3 giugno e non contento mi aveva chiesto il permesso di dare un’occhiata alle carte processuali. A ripensarci mi viene ancora da sorridere. In questi anni di lotta contro gli sfratti nelle strade di Porta Palazzo e Aurora, nella Barriera di Milano e in Borgo Vittoria, di sommosse non ce n’è stata nemmeno una. Come organizzatori di sommosse lasciamo evidentemente un po’ a desiderare. Ma quella domanda, qualunque cosa intendesse il mio compagno di sezione con il termine “sommossa”, mi aveva fatto riflettere. Non era possibile comprendere più di tre anni di lotta attraverso le carte di questura e tribunale, o agli articoli di cronaca scritti copiando malamente quelle carte. E così, un pezzo alla volta, ho iniziato a raccontargli questa lotta.
Secondo i giudici tutto inizia il 12 settembre 2012. Quel giorno, un picchetto antisfratto come tanti altri si anima più del solito. Alla proposta dell’ufficiale giudiziario di concedere un rinvio di sei giorni i resistenti rispondono con un secco «no»: i toni si alzano, si chiamano rinforzi e un paio di cassonetti vengono messi di traverso per bloccare la strada. La determinazione del picchetto convince il padrone e l’ufficiale giudiziario a modificare la data del rinvio, posticipando lo sfratto di cinque settimane e ottenendo così un risultato importante. Non è una banale questione di giorni, cinque settimane sono sicuramente meglio di una, ma va spiegato che un giorno non vale l’altro. Il primo proposto coincideva con il 18 settembre, un giorno particolare per il quale erano già in programma una dozzina di sfratti nei quali era prevista una resistenza organizzata.
Da qualche mese infatti la Questura, in accordo con gli ufficiali giudiziari e i padroni di case, aveva deciso di stroncare la resistenza agli sfratti, che in poco più di un anno era riuscita a guadagnare terreno, rendendo molto difficile per i padroni rientrare in possesso d’alloggi affittati o venduti a inquilini morosi intenzionati a resistere. E così qualcuno aveva inventato i famosi terzi martedì del mese. Il ragionamento è semplice, sulla falsa riga del divide et impera: se la resistenza è in grado di organizzarsi per difendere ogni giorno una casa diversa, non sarebbe stata in grado di badare a tanti sfratti nello stesso giorno. Ragionamento semplice, ma fallace. Dopo un paio di infruttuosi tentativi in tono minore nei mesi di giugno e luglio, la Questura ci riprova in grande stile il 18 settembre 2012. Ma quel giorno 150 persone, sfrattandi e solidali di Torino e altre città, organizzati in gruppi autonomi e coordinati, difendono dall’alba una dozzina di case sotto sfratto. Grazie ad una combinazione di mobilità, con gruppi pronti a intervenire dove la polizia prova ad attaccare, e staticità, con strade e portoni barricati da cassonetti legati da catene e cavi d’acciaio, i resistenti hanno la meglio. Quel giorno chi aveva trovato la forza e il coraggio di resistere non viene sfrattato e non mancano cortei improvvisati, partite di calcio dietro le barricate e persino una protesta rumorosa davanti alla caserma dei Carabinieri della Barriera di Milano, definita dai giudici, con toni epici e allarmisti, «un assedio».
Nonostante il fallimento di settembre, la Questura decide di perseverare e continua con la tattica dei terzi martedì del mese, senza ottenere alcun risultato, fino alla successiva primavera. Nel frattempo inizia un lavoro di logoramento ai fianchi della resistenza, con una delle tecniche più collaudate: la minaccia. Agenti dei diversi commissariati fanno visita negli appartamenti sotto sfratto, e quando trovano qualcuno che sembra intenzionato a resistere non vanno tanto per il sottile: “avvertono” chi ha figli che a resistere si corre il rischio di perderli, grazie anche all’aiuto degli assistenti sociali, e chi è straniero del rischio di avere problemi col rinnovo del permesso di soggiorno. Tutto questo le carte di Tribunale non lo raccontano, ma va anche detto che le minacce non ottengono i risultati sperati. O si lascia, o si resiste, e visto che la resistenza funziona, tanto vale provarci. In pochi si spaventano e decidono di mollare, i più continuano a lottare, se non altro perché non ci sono alternative.
Questura e ufficiali giudiziari stavano studiando nel frattempo un’altra carta da giocare contro la resistenza agli sfratti. Un articolo del codice di procedura civile che consente di sospendere l’iter normale, rimandare le carte a un giudice, e aspettare che questo fissi una data a partire dalla quale la polizia potrà intervenire senza ovviamente darne notizia agli inquilini, «inaudita altera parte» come recita il latinorum della legge. In pratica, in caso di resistenza, la polizia può intervenire anche prima del giorno stabilito in un precedente rinvio. Non avendo valutato opportuno attaccare sistematicamente e frontalmente i picchetti, non essendo riuscita a costringere i solidali a ritirarsi con i terzi martedì del mese, la Questura decide di cambiare le regole del gioco, sfruttando l’effetto sorpresa per evitare di incontrare ostacoli. Prima sperimentata timidamente, poi applicata in larga scala, la procedura di sospendere gli sfratti si rivela un vero e proprio asso nella manica per la Questura e gli ufficiali giudiziari. Dalle carte processuali emerge addirittura una circolare emanata dal coordinatore degli ufficiali giudiziari che stabilisce le regole di ingaggio in caso di resistenza: non avvicinarsi al picchetto, incontrarsi altrove con la proprietà e la Questura, sospendere lo sfratto in attesa di un’esecuzione a sorpresa.
La resistenza organizzata contro gli sfratti fatica a trovare delle contromisure efficaci contro questa novità. Qualcuno tenta ricorsi legali, facendo un buco nell’acqua – come del resto ci si poteva aspettare dal momento che la legge è sempre dalla parte dei padroni. Si tentano contestazioni nei confronti di responsabili e esecutori di questa procedura, giudici e ufficiali giudiziari, senza ottenere però grandi risultati. Se il terzo martedì di gennaio 2013 era bastato presentarsi in qualche decina, tra sfrattandi e solidali, agli sportelli Unep, l’ufficio a cui fanno capo gli ufficiali giudiziari, per ottenere rinvii che non erano stati consegnati al mattino, dal mese successivo gli sfratti vengono sospesi senza possibilità di discussione. A marzo, al termine dell’ennesima protesta, scatenata dalla sospensione di uno sfratto e arrivata nuovamente negli uffici dell’Unep promettendo, in caso di «sfratti anticipati» non meglio precisati «casini assicurati», tre ragazze vengono arrestate per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. La rete di resistenza agli sfratti è ancora forte, e risponde con determinazione a questo arresto. Il giorno stesso si protesta fuori dalla Questura in cui le ragazze insieme ad altri sono stati portati, e qualche giorno dopo un numeroso e rumoroso corteo spontaneo parte dall’occupazione di Corso Novara, sfila fino a piazza della Repubblica e raggiunge in tram il carcere delle Vallette dove le ragazze sono rinchiuse.
Ma la resistenza agli sfratti si stava infilando in un vicolo cieco. Organizzare picchetti era diventato pressoché inutile, giacché invece del classico rinvio si poteva sperare di ottenere soltanto una sospensione. I picchetti visibili erano diventati anche controproducenti, dal momento che rendendo palese la volontà di resistere in maniera organizzata si correva il rischio di velocizzare e drammatizzare le procedure di sfratto, rendendole in tutto e per tutto simili a quelle di uno sgombero di una casa occupata. Se prima si aveva la certezza di poter rimanere in casa fino alla data fissata dal rinvio, ora non era più così. Se prima era sufficiente organizzarsi per essere in tanti e ben protetti dalle barricate, ora non bastava più. Grazie agli sfratti a sorpresa la repressione iniziava a riguadagnare un po’ del terreno perso. Per un lungo periodo in alcune zone di Torino chi trovava la forza e il coraggio di resistere era praticamente sicuro che non avrebbe perso la casa per diversi mesi. Di questa moratoria di fatto, non sancita per legge ma frutto di un momentaneo mutamento dei rapporti di forza in favore degli inquilini morosi, avevano beneficiato anche i tanti che non sceglievano di resistere e i tanti che in quei mesi decisero autonomamente di occupare una casa abbandonata. In alcune zone di Torino la polizia e gli ufficiali giudiziari faticavano a fare il loro lavoro; la lotta contro gli sfratti era riuscita, per un limitato periodo di tempo, in una limitata porzione di città, a «privare di autorità e di forza le decisioni giudiziarie» per usare le parole dei giudici, che in uno slancio di fervore arrivano a scomodare persino «lo Stato di diritto e costituzionale».
L’introduzione degli sfratti a sorpresa, modificando i rapporti di forza a tutto vantaggio dei padroni, consente alla Questura di sferrare, senza troppi timori, un attacco frontale alla lotta, nel maggio del 2013. Prima vengono sgomberate, in una sola mattina, tre occupazioni – due abitative e un posto occupato da anarchici – la settimana successiva vengono eseguiti, a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro, due sfratti a sorpresa. Infine il terzo martedì del mese la polizia sfonda a suon di manganelli e lacrimogeni le barricate di cassonetti, eseguendo con la forza due sfratti. Dopo oltre un anno passato a studiare la situazione e a preparare il terreno senza forzare la mano, la polizia aveva deciso di dar una spallata alla resistenza contro gli sfratti indebolita, oltre che dalle strategie questurine già descritte, anche dalla scelta di un gruppo di famiglie di abbandonare la lotta, smettere di resistere e accamparsi con tanto di bambini fuori dal Palazzo Civico.
Venuta meno la notevole efficacia che l’aveva finora contraddistinta, la resistenza organizzata agli sfratti appare ora invece piena di incognite e così qualcuno si aggrappa alla speranza di impietosire l’autorità e velocizzare le procedure di assegnazione della casa popolare, mettendo in mostra i bambini e intavolando una trattativa con qualche uomo del Comune. Questa scelta, oltre a non portare alcun beneficio a chi si era accampato rinunciando alla resistenza, contribuisce a indebolire la lotta contro gli sfratti: a tirarsi fuori sono infatti alcuni tra i più attivi nella rete di solidarietà che si era creata negli ultimi anni. Le alterne fortune di questo gruppo di sfrattandi costituito su base etnica, essendo i protagonisti principalmente marocchini, rappresentano a prima vista un’alternativa alla rete di lotta cresciuta grazie ai picchetti. Col tempo si è capito che questo sindacato etnico, costituitosi in associazione con tanto di sede e biglietti da visita, non è altro che un’occasione di far della resistenza agli sfratti un mestiere, a tutto vantaggio di pochi, sulle spalle di molti. Dopo aver pagato la quota associativa, aver ottenuto un aiuto nella compilazione della domanda per la casa popolare e un breve rinvio alla prima visita dell’ufficiale giudiziario, gli iscritti a questo sindacato etnico vengono sistematicamente lasciati al loro destino. Ci sono voluti mesi per capirlo, ma nell’estate 2013 questo gruppo abbastanza abile nel tenere un rapporto di dialogo con la Questura e gli ufficiali giudiziari, sembrava una valida alternativa ai picchetti barricati diventati ormai inutili.
Per continuare la lotta, quella vera, c’era bisogno di riorganizzarsi. Si decide di rinunciare ai picchetti, perlomeno a quelli visibili. Chi è sotto sfratto non potrà contare, d’ora in avanti, sulla forza di decine di persone davanti al portone di casa e dovrà vedersela da solo con l’ufficiale giudiziario, come un qualunque altro sfrattando. Ma a differenza di uno qualunque, sa di poter contare su un gruppo di solidali “nascosti dietro l’angolo”, pronti a intervenire in caso di emergenza. Se padrone e ufficiale giudiziario concedono un rinvio il picchetto nascosto non interviene, se insistono per eseguire e chiamano la polizia, i solidali si manifestano e impediscono l’esecuzione dello sfratto. Nonostante questo stratagemma la resistenza è indebolita. Soltanto i più determinati e coraggiosi, con padroni di casa più malleabili, riescono a tener testa a lungo, accesso dopo accesso, da soli e senza dover ricorrere all’aiuto dei solidali nascosti. E in ogni caso una volta che la resistenza organizzata si svela, lo sfratto viene sospeso e dopo i tempi necessari ai vari passaggi burocratici potrà essere eseguito a sorpresa da un giorno all’altro. Inoltre una rete di lotta, nata e cresciuta grazie al passaparola alimentato dalla quotidiana presenza in strada dei picchetti, risente non poco della loro mancanza. Oltre a essere un potente strumento di propaganda diretta, i picchetti avevano permesso il rafforzamento dei rapporti di solidarietà che sono alla base di qualunque percorso di lotta.
Questo cambio di tattica, imposto dalle “nuove” regole del gioco, ha permesso comunque alla resistenza organizzata di sopravvivere e continuare a funzionare. Anche la Questura ha dovuto di conseguenza adattarsi, e gli stessi ufficiali giudiziari hanno incontrato nuovi problemi, costretti ad avventurarsi fin dentro le case, alla ricerca di possibili indizi di una resistenza nascosta, in vere e proprie perquisizioni informali, condotte non di rado con l’aiuto di Carabinieri o poliziotti a far da scorta.
Questi cambiamenti vengono tradotti dai giudici con il passaggio dalla minaccia e violenza a pubblico ufficiale, rappresentata dai picchetti vecchio stile, alla resistenza a pubblico ufficiale, i picchetti nascosti che spuntano da dietro l’angolo e fanno desistere l’ufficiale giudiziario dai suoi intenti.
Ma al di là dell’interpretazione del Tribunale, resta la lotta contro gli sfratti. Una lotta che in oltre tre anni è riuscita a trasformare un’ordinaria e quotidiana scena di repressione, l’ufficiale giudiziario che bussa alla porta di casa per sfrattare un inquilino moroso, in tante occasioni di resistenza e insubordinazione. Una lotta che non si può ridurre a una manciata di episodi, trasformati in altrettanti capi d’imputazione più o meno fantasiosi. Sono stati anni intensi con centinaia di picchetti, e poi assemblee, cortei, iniziative, occupazioni, senza farsi mancare momenti di festa, colazioni, pranzi e cene dietro una barricata aspettando l’ufficiale giudiziario o in una casa appena occupata a festeggiare. Una lotta che continua, seppur tra alti e bassi, a tener testa alla repressione, ai tanti e diversi attacchi della Questura e dei padroni, e che non è stata stroncata neanche dagli arresti del 3 giugno.
Di “sommosse”, quelle tirate in ballo dal mio compagno di sezione, neanche una, purtroppo. Ma le sommosse non si possono organizzare a tavolino, come ho cercato di spiegargli. Ciò che si può fare è provare a stimolarle e arrivare preparati al momento in cui magari scoppieranno. E le lotte, in fondo, servono anche a questo.
Questa era l’ultima puntata di “A 34 mani”, se avete perso qualcuna delle puntate precedenti e ora vi è venuta voglia di leggerle: