Basta poco
Di questi tempi, per chi lotta a Torino basta poco per finire in carcere e passarci qualche mese. Questo sembrano suggerire gli arresti, e le detenzioni che vanno prolungandosi, di Paolo, Erika, Toshi, Marco e Luigi, per reati di lieve entità che almeno fino a qualche anno fa non avrebbero prodotto che qualche denuncia a piede libero.
Non che non ci fossero già stati, ultimamente, diversi segnali di un cambiamento negli equilibri di potere all’interno del Palazzo di Giustizia ad esclusivo favore della Procura, vale a dire dell’ufficio del Tribunale che per sua natura lavora a più stretto contatto con la Polizia e che più degli altri si è assunto il ruolo di affrontare di petto il conflitto sociale in città e nelle valli vicine.
Per limitarci alle operazioni contro chi lotta nei quartieri di Aurora, Porta Palazzo e Barriera di Milano, numerose sono state infatti negli ultimi anni le inchieste confezionate attorno a reati penalmente poco rilevanti, come resistenza e violenza a pubblico ufficiale, grazie alle quali la Procura è riuscita a togliersi dalle scatole, e togliere dalle strade, un gran numero di compagni. Volendo fare i conti in tasca alla Giustizia, scopriremmo che in poco più di tre anni sono stati una trentina gli arresti ordinati e ottenuti dai Pm torinesi e più di cinquanta le misure cautelari “minori” dispensate. Tante inchieste per tanti piccoli episodi: una strategia che sembra fatta su misura per chi vive e lotta nei quartieri a nord della città che si trova spesso in strada a tentar di ostacolare i progetti delle autorità con iniziative estemporanee, come l’opporsi a una retata, o legate tra loro in un progetto più ampio, come per la lotta contro gli sfratti, e che per questo accumula facilmente un buon numero di denunce.
Accantonato il ricorso ai reati associativi, miseramente fallito solo qualche anno prima, la Procura ha puntato su misure come i divieti di dimora, che possono essere rinnovate più facilmente e più a lungo delle misure cautelari custodiali e che hanno l’effetto per lo meno di allontanare per lungo tempo i compagni dalla città. Una volta verificata la sottomissione assoluta dei Giudici delle indagini preliminari e di quelli del Riesame – che debbono convalidare, in gradi diversi, l’applicazione delle misure cautelari proposte dall’accusa – è stato quasi inevitabile che uomini altezzosi come dei pubblici ministeri abbiano cercato di spostare un po’ più in alto l’asticella e di perseguire quindi traguardi sempre più ambiziosi, facendo spiccare mandati di cattura e facendo trattenere in carcere i compagni il più a lungo possibile. Così se l’anno scorso, per far rinchiudere una quindicina di compagni per alcuni mesi, la Procura ha dovuto mettere assieme una trentina di imputazioni per resistenza e violenza a pubblico ufficiale estrapolandole da tre anni di lotta contro gli sfratti, ora tenta di vedere cosa riesce ad ottenere contro cinque sovversivi contestando loro il reato di resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e violenza privata per un episodio solo.
Per ora la scommessa sembra pagare, gli arrestati del maggio scorso rimangono dentro e i quattro banditi loro coimputati lontani da Torino, come altri quattro compagni allontanati dalla città ormai più di due anni fa. Forti dei successi ottenuti grazie al principio ormai consolidatosi per cui «ciò che la Procura chiede, i Giudici - delle Indagini Preliminari e del tribunale del Riesame - concedono» i Pm continuano la loro marcia volta a far piazza pulita di chi lotta in questa porzione di Torino.
Che si tratti di sfratti o di retate poca importa in fondo.
Ciò che interessa, e preoccupa, realmente le autorità cittadine è il costante tentativo di qualche testardo sovversivo di mettersi in mezzo ai progetti di lorsignori. Ripetendo continuamente che si può smettere di subire. Mostrando e proponendo come resistere concretamente.
Perché alla fin fine ad animare i sovversivi e a riempire di sgomento le autorità è una comune convinzione. Non ci vuole poi molto perché il senso d’impotenza che molti sfruttati vivono si tramuti in rabbia aperta. Perché l’indifferenza lasci il posto alla solidarietà. Perché uno sfratto o un controllo di documenti non si concludano con degli uomini e delle donne buttati in mezzo a una strada o rinchiusi in un Cie, ma con la cacciata della polizia.
Basta poco.
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