Fermenti
Mentre il Cie di Bari ha momentaneamente chiuso i battenti, al Cie di Torino continuano gli episodi di ribellione e resistenza.
La settimana scorsa un ragazzo tunisino, preso durante una retata a San Salvario, è stato portato all’interno del Cie, per la seconda volta negli ultimi 6 mesi. Una volta condotto nell’isolamento, fra sabato e domenica ha bruciato la cella da due in cui era recluso, rendendola inagibile. Il motivo del gesto è legato alla protesta contro il suo imminente rimpatrio.
A Malpensa, lunedì scorso, un ragazzo proveniente dal Cie di Torino ha resistito all’espulsione. Il volo che avrebbe dovuto, contro la sua volontà, portarlo in Senegal era un volo di linea, con altri passeggeri, molti dei quali probabilmente senegalesi, che potevano forse comprendere la sua situazione. Dopo aver minacciato più volte di urlare e provare a resistere una volta salito a bordo, gli agenti e il personale preposto al rimpatrio coatto hanno preferito riportare il ragazzo al Centro.
Un altro recluso per paura di essere espulso ha ingoiato delle pile e perciò è stato condotto con urgenza all’ospedale Don Bosco, dove è ancora ricoverato in pessime condizioni mentre i due ragazzi tunisini arrestati il 14 febbraio dopo la rivolta che ha portato alla chiusura di due stanze dell’area bianca e poi riportati all’interno del Cie, ancora oggi si trovano rinchiusi nell’isolamento a scopo punitivo.
Fatto grave e da sottolineare è che dopo le proteste di febbraio a più reclusi che si trovano nell’isolamento è stato sequestrato il telefono. È certa la notizia di un ragazzo tunisino, trasferito nell’isolamento perché coinvolto nel tentativo di danneggiamento dell’area blu il 16 febbraio, a cui è stato sequestrato il telefono da due settimane.
Intanto all’interno del Cie i gestori Gepsa e Acuarinto si stanno dotando di lavoranti di diverse nazionalità, o perlomeno delle nazionalità dei reclusi che più spesso transitano dal Cie torinese. Lavoranti che conoscono alla perfezione una lingua e le sue sfumature dialettali. Marocchini, algerini, egiziani, tunisini e così via e non semplicemente arabofoni insomma. Sembra che ci sia bisogno di qualcosa in più di una semplice traduzione. Lo scopo di una tale approccio, oltre a garantire una maggiore fiducia tra carcerieri e reclusi, potrebbe essere quello di dare una mano alle forze di polizia per un’identificazione più rapida.
A spiegare la situazione all’interno di Corso Brunelleschi, sia riguardo le magagne della struttura come la caldaia sempre rotta, sia riguardo la vecchia ma sempreverde abitudine di nascondere tranquillanti nel cibo, i soprusi delle guardie, e anche, lucidamente, il business legato alla detenzione nei Centri di Identificazione ed Espulsione, ci sono le parole dei ragazzi di corso Brunelleschi, che vi riproponiamo:
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