Se la misura è colma
Il Tribunale di Torino non ha esaurito le cartucce, anzi a ritmo serrato le richieste dei Pm trovano giudici pronti a sottoscriverle. Così sull’inizio dell’estate cadono altre misure cautelari a pioggia contro chi partecipa, in una maniera o in un’altra, all’opporsi mettendosi in mezzo a progetti che stravolgono i luoghi e la vita di chi ci abita, a meccanismi di sfruttamento ed esclusione. Dopo i dodici divieti di dimora comminati contro chi ha portato un po’ di letame alla ditta che distribuisce il cibo ai reclusi del Cie di corso Brunelleschi, sono diciannove le misure di diversa natura affibbiate dal giudice delle indagini preliminari di Torino lo scorso 21 giugno a chi ha partecipato a una giornata di lotta esattamente l’anno scorso attorno al cantiere di Chiomonte, lungo i sentieri e le strade della Val Clarea.
Tra le persone coinvolte in questa stretta repressiva c’è gente che in Valle ci vive da sempre, chi ha deciso di passarci attratto dal conflitto, c’è chi ha fatto delle lotte parte principale della propria vita, chi attraverso l’esperienza nell’opposizione alla costruzione dell’Alta Velocità ha cambiato i tempi, le priorità, la socialità nella propria esistenza. Senza alcuna differenza le misure hanno raggiunto chi in maniera ostinata continua a esserci nonostante le difficoltà che la lotta sta passando.
Ciò che ora viene messo in campo è l’ennesimo tassello di una strategia che si palesa in maniera sempre più netta: riportare le cose in ordine, togliere degli strumenti per lottare, fiaccare l’animo di chi ha deciso di esserci per far saltare i piani di chi ci governa. L’esperienza ci insegna che la lotta capace di essere efficace, di tracimare ed effettivamente scompaginare la routine delle cose incontrerà prima o poi l’ostacolo posto dalla legge. Sulla pelle di chi viene accusato, arrestato, messo al bando, obbligato a stare all’interno dei confini di un comune, a firmare ogni giorno dai carabinieri e nell’ombra dello spavento che la deterrenza proietta su chi gli sta accanto.
Se un tempo le carte giudiziarie rincorrevano il ritmo della lotta in Valle e i pubblici ministeri andavano affinando gli strumenti più congeniali per indebolire il contesto, cercando di dividere tra buoni e cattivi, gente autoctona e alloctona, fallendo, oggigiorno la cassetta degli attrezzi dei Pm è ben assortita e oliata, le misure sono ben calibrate sulle specificità di chi compone questo contesto vasto ed eterogeneo e la repressione viaggia in contemporanea a ciò che succede, quasi in prevenzione di conseguenze contagiose e imprevedibili.
Per questa inchiesta Rinaudo ha addirittura forzato la mano tirando fuori dal cappello un “fermo cautelare”, applicato solitamente per fatti più gravi quali l’omicidio, che ha costretto alcuni giorni due persone in carcere, in regime di isolamento per la maggior parte del tempo, poiché il Gip che ha firmato le carte dell’operazione del 21 giugno non aveva accettato di mettere i due sotto misure cautelari. Così il Pm ha disposto una settimana prima una perquisizione a casa dei ragazzi grazie alla quale ha potuto far scattare le manette senza dover chiedere il permesso a un giudice.
E se certi stratagemmi tanto arroganti quanto non convenzionali inquadrano oramai un atteggiamento giudiziario ben consolidato messo in campo dalla Procura, ciò che salta all’occhio dopo quest’ennesima inchiesta è la volontà di alcuni indagati di non accettare le disposizioni cautelari.
Qualcuno si è rifiutato fin da subito di presentarsi dai carabinieri per la firma quotidiana, manifestando pubblicamente la volontà di violare anche il possibile aggravamento della misura. Un altro dal giorno in cui è stato costretto agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni ha scelto di uscire dalla sua casa, informando tutti della sua decisione, consapevole delle conseguenze del suo gesto. Un altro ancora, fino a pochi giorni fa uccel di bosco, ha deciso di svelarsi durante una fiaccolata e ha dichiarato di non voler consegnarsi alla polizia, ma che aspetterà invece la notifica delle carte assieme a un presidio permanente davanti al luogo dove ha scelto di stare.
La maggior parte delle misure cautelari comminate fanno ricadere la gestione direttamente sui mezzi e la volontà di chi la subisce: i domiciliati si autocostringono in casa, affrontando da soli, tante volte senza riuscire più a lavorare, i costi della propria prigionia; chi è cacciato dalla città deve reinventarsi da un’altra parte e trovare un modo per vivere; chi è sottoposto alla firma mette i suoi passi sulla strada della caserma e organizza la propria vita sui nuovi orari imposti.
Violare le misure cautelari fino alle estreme conseguenze vuol dire costringere le istituzioni a prendersi la responsabilità di una punizione che in altro modo non sarebbe rispettata, quindi incarcerando chiunque non accetti le prescrizioni.
Se un tale atteggiamento fosse contagioso e diffuso potrebbe creare un corto circuito difficile da assestare.
Se il lavoro fatto fin qui dal Tribunale di Torino è paradigmatico di come evolvono e si limano gli strumenti di gestione e controllo della popolazione, del territorio e dei possibili conflitti che ne scaturiscono, la scelta di violare le misure apre una possibilità: che questo modus operandi non diventi una convenzione, che non possa neanche essere esportabile altrove.
Non accettare che delle carte del Tribunale riescano a piegare la quotidianità delle persone che vengono colpite vuol dire anche per chi rimane loro accanto avere in mano una scommessa: affinché queste scelte non portino solamente a conseguenze che ricadano sulla pelle di chi le fa, ma siano invece l’occasione di rintuzzare dello spazio di possibilità effettiva nella lotta, è necessario stringersi attorno a chi è stato colpito, a chi se ne frega delle disposizioni del giudice, e rilanciare.
Quale altra buona indicazione allora se non quella di fare di queste violazioni carburante per una solidarietà che sappia sostenere queste scelte e spingere un passo in là i percorsi intrapresi, alla faccia di Procuratori e Tribunali.