Attraverso la bufera
Dopo l’ondata repressiva del 29 novembre scorso, passato un po’ di tempo per mettere le idee in ordine, vi proponiamo un testo che nasce dalla necessità di fare e condividere il punto della situazione. È uno sforzo e un tentativo collettivo di orientamento, di raccontare le tensioni e i progetti che si confrontano con la realtà, di comprensione della bufera che ci circonda. Per riuscire a navigarci attraverso, puntualizzare le sfide che si pongono di fronte e individuare gli strumenti necessari per continuare a lottare.
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Alcuni mesi sono passati dal 29 novembre data dell’ultima ondata repressiva che ci ha colpiti.
L’ennesima ordinanza tribunalizia che ha portato quattro compagni in carcere e ha notificato ad altri otto dei divieti di dimora. Una vicenda che ha visto finire altri cinque compagni in carcere e due ai domiciliari a conseguenza della violazione dei divieti e che si è conclusa dopo quasi un mese con la caduta al Riesame di tutte le accuse.
La cadenza periodica con cui il tribunale di Torino continua a colpire le lotte ci spinge a non tirare un sospiro di sollievo per il finale apparentemente positivo della vicenda ma piuttosto a cercare di riflettere a bocce ferme sulla fase attuale.
Da una parte a livello generale ci preme sottolineare la complessità dell’attacco che le classi sfruttate stanno subendo negli ultimi anni e la necessità per dei compagni di progettare un intervento in questa situazione. Dall’altra parte a livello locale c’è la necessità di comprendere come mettere in campo questo tipo di intervento all’interno di un contesto urbano e politico in via di trasformazione.
Consapevoli che i tribunali non sono che un tassello del mosaico di forze che ci dominano abbiamo cercato di tracciare alcune linee di riflessione.
Tutto attorno
La situazione economica che stiamo vivendo non prevede inversioni di tendenza, almeno nell’immediato. La fase di espansione materiale degli anni ‘50 e ‘60 ha provocato l’aumento della concorrenza tra agenti capitalistici con il conseguente ritiro massiccio di capitali monetari dal commercio e dalla produzione. Ciò ha creato una sovraccumulazione di capitale liquido e le condizioni di un’espansione finanziaria di portata storica.
Che gli effetti positivi di questa “finanziarizzazione” non potessero durare a lungo se ne aveva avuto già sentore con le crisi degli anni ‘90-inizi 2000, convinzione che è diventata certezza con quella che qualcuno chiama già “Grande recessione”, partita nel 2008 non a caso da una bolla del sistema creditizio statunitense.
Scoppio di varie “bolle” finanziarie, perdita di potere d’acquisto dei salari con relativo crollo dei consumi, calo della produzione, indebitamento sempre più alto di Stati e privati, aumento in termini assoluti della popolazione in surplus. Il capitalismo si trova in un momento critico.
Dal canto loro gli Stati, già svuotati di senso in un mondo che sembra sempre di più dipendere da poteri globali e inter-statali, cercano di mettere delle toppe.
In Italia il disperato tentativo di attrarre capitali o quantomeno dare un freno alla delocalizzazione di questi si muove su diverse direttrici: individuando nuove frontiere di investimento potenzialmente redditizie (per esempio con la riqualificazione urbana e l’informatizzazione e automazione delle aziende); cercando di deregolamentare e rendere così più competitivo a livello europeo il mercato del lavoro, a discapito – manco a dirlo – dei lavoratori; cercando di tenere in vita, con una serie di ingenti investimenti pubblici, il fragile sistema creditizio-finanziario italiano (vd. salvataggio Mps); esternalizzando e privatizzando alcuni costi di riproduzione della popolazione (smantellamento dell’edilizia popolare e del sistema previdenziale, etc.); orientando la sua politica estera in uno stato di guerra permanente che non fa altro che determinare sempre più massicce migrazioni in Europa, con conseguente aumento sia della pressione sui salari sia della competizione tra alcune fasce di popolazione autoctona che tendono sempre più a diventare in surplus e una popolazione che in quanto migrante lo è già.
Lo Stato sta per cui gradualmente abbandonando la sua funzione di garantire la soddisfazione dei bisogni minimi, dalle cure mediche a una casa dove abitare passando per l’ approvvigionamento dei servizi basilari come l’acqua, delegandola a vari soggetti privati alla ricerca di nuovi canali per incrementare i propri profitti.
Nella pratica questi fenomeni assumono i caratteri di un attacco diretto alle condizioni di vita, all’esistenza stessa di molte persone. Un attacco che rende inutile qualsiasi richiesta di riconoscimento come puri e semplici soggetti di diritto e che pone immediatamente, per una parte consistente di popolazione, una qualsivoglia prospettiva di soddisfazione dei bisogni su un terreno di lotta.
Per questo sul fronte interno la possibilità di un cedimento del potere statale sembra essere un’ossessione per gli esecutivi che si sono succeduti in questi anni. Il rischio di una crescente ingovernabilità che acutizzi il conflitto sociale fino a fare intravedere le ombre di una guerra civile, sta a nostro avviso dietro ai tentativi di disciplinamento della popolazione, a un aumento della repressione (con un aumento tendenziale delle pene e della frequenza con cui queste vengono erogate) e del controllo (con la diffusione di sistemi di controllo integrati, schedatura genetica, etc).
Proprio in questa cornice, a nostro avviso, va letta anche l’azione repressiva contro le lotte sociali.
Intensificare le lotte
Se la repressione è l’avanzare dello Stato che, passo dopo passo, rende sempre più dure le condizioni di vita degli sfruttati, quello su cui ci soffermeremo nelle prossime righe è solo un aspetto particolare di questa repressione: l’attività di contrasto ai conflitti sociali svolta da poliziotti e uomini di tribunale.
È sotto gli occhi di tutti la debolezza e scarsa incisività che attualmente caratterizzano un po’ ovunque i diversi percorsi di lotta, si fa molta fatica a darvi continuità, a renderli efficaci e a stimolare altri uomini e donne a parteciparvi; dall’altra parte della barricata il lavoro giudiziario contro quel poco che chi lotta riesce a fare continua però a produrre arresti, misure cautelari e processi con una certa continuità.
Non crediamo però sia l’operato dei pm, dei poliziotti e dei giudici la causa prima o principale di questo momento di bassa. Senza aver la pretesa di tracciare regole valide per ogni luogo e situazione, ma limitandoci ad osservare i contesti che conosciamo meglio come quelle di Torino e della Val di Susa, ci sembra di poter dire che l’attività giudiziaria si sia fatta più pressante e minacciosa solo dopo che i percorsi di lotta si trovavano già in una certa difficoltà. Piuttosto che contrastarli quando camminavano con ben altra andatura di quella odierna, l’operato degli uomini di tribunale ha impantanato ulteriormente queste lotte rendendo ancor più difficile l’uscita dal guado.
Le numerose inchieste con il loro carico di denunce, arresti e altre misure cautelari hanno aggravato ulteriormente la situazione: togliendo di mezzo tanti uomini e donne, costringendo i loro compagni a dedicare parte delle proprie energie a processi e carcerazioni e intimorendo molti altri mostrando che bastava veramente poco o, a voler essere precisi, bastava sempre meno per trovarsi stretti dai legacci della Giustizia.
Così se qualche anno fa la Procura di Torino ha dovuto mettere assieme diverse decine di picchetti antisfratto per convincere un Gip a togliere di mezzo una trentina di compagni, a dicembre glien’è bastato uno, per di più senza barricate o particolare animosità, per far arrestare o bandirne una dozzina.
Di questo passo è lecito attendersi che prima o poi il picchetto finisca, di fatto, fuori legge. E a chi vorrà provare a resistere a dei licenziamenti, a uno sfratto o alla realizzazione di un progetto nocivo non resterà che lamentarsi e limitarsi a delle iniziative di testimonianza, come una raccolta firme, se non vorrà finire sotto la scure giudiziaria.
La possibilità di contrastare i progetti dei padroni passa dalla difesa di pratiche come quella del picchetto. Ma non siamo solo noi o altri gruppi militanti a poterlo fare.
L’unica reale difesa è rappresentata dall’intensificarsi delle lotte con la loro forza e il loro carico di illegalità. Ogni riflessione, sforzo e tentativo devono andare in questa direzione.
Per contrastare l’operato degli uomini di tribunale bisogna contrastare la repressione nel suo complesso, l’avanzare della normalità statale.
Per quanto complicato possa essere, non crediamo si possano percorrere altre strade.
Per questo ci sembrano oltre che errate pure fallimentari alcune recenti ipotesi che, alla luce del momento di bassa in cui ci troviamo, ritengono si debba interloquire o pungolare le istituzioni locali visto che attualmente sembrano condividere alcune istanze espresse da chi lotta, come nel caso dell’Alta Velocità, o perché sembrano godere di un’ampia simpatia nei “quartieri popolari”.
Gli spazi di manovra che si aprirebbero incalzando le istituzioni locali potrebbero forse essere utili a rafforzare specifiche strutture organizzate ma, nella sostanza, non farebbero altro che contribuire a disarmare ulteriormente i già deboli conflitti sociali in città.
Noi riteniamo che la forza di una lotta sia un inestricabile intreccio tra la capacità di autorganizzarsi di chi vi partecipa, il livello dello scontro che si riesce a raggiungere e l’obiettivo per cui ci si batte; e consideriamo altresì di primaria importanza la diffusione di comportamenti di ribellione e momenti di resistenza autonomi dalle strutture e dalle lotte organizzate.
Nel giusto modo
Nonostante la tensione sociale attorno a noi potrebbe essere ben più effervescente, è indubbio che non manchino le ragioni e le occasioni per lottare. Se i padroni portano avanti il loro attacco con costanza e in maniera sempre più preventiva, dal canto loro gli sfruttati non hanno mai smesso di opporvisi, anche solo individualmente o per brevi periodi.
Come compagni ci siamo sempre domandati quale potesse essere il nostro contributo e soprattutto con quali obiettivi.
Quello che continuiamo ad auspicarci è che si diffonda tra gli sfruttati la voglia di lottare. Costruire dei percorsi con degli obiettivi circoscritti, organizzandoci assieme a chi è direttamente toccato da un particolare problema, va in questa direzione. Partire dai bisogni allora non risponde solo a una valutazione strategica, all’analisi che facciamo sul mondo che ci circonda, ma anche alla volontà di incontrarsi con delle porzioni di sfruttati senza pretendere che esistano delle comuni basi ideologiche. Ci sembra infatti molto più interessante concentrarsi su come si articola una lotta, quello che spesso viene chiamato metodo, e sulle pratiche da mettere in campo.
Per quanto riguarda la struttura organizzativa, il modo di prendere le decisioni e metterle in pratica, l’orizzontalità è sicuramente un punto focale: fare in modo che le assemblee siano il più partecipate possibile, che ognuno si esprima e sia conseguente agli impegni che prende davanti ai propri compagni di lotta, che non si producano figure di maggiore influenza se non veri e propri leader, disincentivando ogni meccanismo di delega. Dato che spesso la figura dei compagni, loro malgrado, viene caricata di ruoli e responsabilità, soprattutto nei percorsi da loro ideati e spinti, occorre stimolare la libera iniziativa di chi partecipa a una lotta anche a costo di far emergere valutazioni differenti e contraddizioni al proprio interno. Diversificare i momenti di confronto e decisione, dalle grandi assemblee ai piccoli gruppi che preparano le singole iniziative e azioni, può sicuramente facilitare il confronto e la presa di responsabilità in una lotta.
Un altro contributo che vorremmo dare alle lotte è quello di diffondere la capacità di riconoscere e indicare con precisione il nemico in ogni passaggio e approfondimento del conflitto. Trovare insieme i luoghi e le modalità di attacco, abituarsi a prendere direttamente ciò di cui si ha bisogno dalle mani dei padroni, che si tratti di una casa o dell’acqua o del cibo; non limitarsi ovvero ad un’attesa passiva.
Il nostro obiettivo però non si limita solo a costruire o inserirci nelle lotte particolari, ma è anche quello di radicalizzarle. La radicalizzazione delle lotte emerge e prende forma proprio dalle capacità autorganizzative, di autonomia dalle strutture politiche e sindacali, di attacco al nemico.
Lo slancio ulteriore, però, risiede nella possibilità che a partire da un obiettivo specifico, da un particolare problema, si creino dei momenti di rottura che travalichino l’obiettivo stesso per portare a un attacco e uno stravolgimento più ampio dei rapporti di potere nei quali siamo immersi, possibilmente catalizzando la partecipazione e la solidarietà di più sfruttati possibili.
Durante il picco della lotta contro gli sfratti in questi quartieri, alcuni compagni scrivevano:
“Il fatto che un’assemblea di sfrattati e di compagni abbia sottratto con la forza spazio e potere allo Stato; che delle strade abbiano vissuto senza polizia anche se solo per qualche ora; che lo si sia fatto in maniera pensata e organizzata nei dettagli; questo è, per sua natura, un fatto di tipo insurrezionale.”
“Rotture insurrezionali”; non più cercare un lavoro, perderlo, scegliere se pagare le bollette o l’affitto, comprare solo cibo scadente, camminare braccato per la strada senza un documento in tasca, etc, ma disporre del proprio tempo e dello spazio senza sottostare ai ritmi che questo sistema capitalistico e i suoi padroni ci impongono.
Rotture di questo tipo potrebbero generarsi non solo a partire da una lotta specifica e grazie all’organizzazione che questa si è data, ma anche, ad esempio, dalla resistenza a una retata così come da uno dei tanti soprusi all’ordine del giorno. E poiché le «rivolte non posseggono l’alchemico potere di trasformare la competizione e l’indifferenza quotidiane in solidarietà», le lotte che oggi portiamo avanti, con il loro portato di relazioni e conoscenza reciproca, potrebbero allora tornare utili per far sì che la rabbia si orienti contro i responsabili dello sfruttamento e non contro i propri compagni di sventura.
Ciò che potrebbe generarsi a partire da queste rotture, qualora avessero la fortuna di protrarsi nello spazio e nel tempo, è difficile da immaginare ma la sola vertigine ci spinge a ricercarne la soglia.
Ritornando al piano delle lotte parziali, c’è infine una sottile alchimia che i compagni dovrebbero essere in grado di formulare costantemente: da un lato come già detto funzionare da stimolo affinché le mansioni tattiche e i ragionamenti di prospettiva diventino patrimonio e compito dell’intera sfera dei compagni di lotta; dall’altro non perdere la propria capacità di intervento autonomo.
Per intervento autonomo si intendono quelle azioni portate avanti da un gruppo di compagni che condividono una determinata modalità di intervento all’interno di una specifica lotta o nell’attacco rivolto a determinati aspetti del dominio, che non passano necessariamente attraverso momenti organizzativi con altri sfruttati o esclusi.
L’azione autonoma ha la capacità di chiarificare l’individuazione del nemico e di suggerire vari modi per attaccarlo e danneggiarlo, in particolare quando riesce a radicarsi nel conflitto tra una parte degli sfruttati e determinati progetti del potere, anche a prescindere dalla presenza di una lotta strutturata. Un’azione che rallegri coloro che percepiscono e riconoscono quel nemico e che apra delle possibilità inaspettate di diffusione e riproducibilità dell’azione, con il pregio tra le altre cose di disincentivare strutture rigide di organizzazione nelle quali ogni iniziativa individuale o di un gruppo debba passare al vaglio di ogni compagno di lotta.
Lo spazio conteso
Lo scorso giugno avevamo deciso di costruire una mobilitazione intorno alla violazione delle misure cautelari, in particolare dei divieti di dimora, per dare una risposta diretta alla strategia repressiva della Procura, risposta che aveva come principale obiettivo quello di riuscire a rimanere nelle strade e nei luoghi in cui abbiamo costruito rapporti di lotta e complicità.
Al volgere di questa seconda tornata repressiva la violazione delle misure si è resa necessaria ma è stata messa in secondo piano dalla consapevolezza che l’attacco era rivolto alla nostra proposta di lotta e alla nostra presenza in quartiere.
Per questo abbiamo cercato di leggere questa operazione di polizia anche all’interno delle dinamiche del pezzo di città in cui viviamo e lottiamo, e in questo senso vanno interpretate le iniziative degli scorsi mesi: ci siamo organizzati assieme all’assemblea degli abitanti dell’occupazione di c.so Giulio Cesare 45 per preparare l’incursione alla Circoscrizione 7; abbiamo inoltre condiviso con loro e altri sfrattati l’iniziativa contro il vicesindaco Montanari; siamo andati in giro per le strade a capire in quali palazzi la Smat avesse staccato l’acqua proponendo di aiutarci a vicenda a riattaccarla qualora ricapitasse, insultando e schernendo gli addetti della Smat che giravano per il quartiere, abbozzando quella minima solidarietà che dovrebbe esserci tra chi condivide gli stessi problemi.
I processi di riqualificazione stanno trasformando interi quartieri in svariate città, da Detroit a Genova, da Bordeaux a Barcellona e Londra. Questo a causa di una tendenza generale in cui la città non è più compresa come lo spazio capace di accogliere le necessità della produzione, ma è diventata essa stessa un’unità produttiva.
Lo spazio urbano è uno strumento per la valorizzazione del capitale che sta acquistando sempre più centralità nell’economia globale. Ciò si riverbera sul piano locale intensificando le ristrutturazioni volte alla produttività e al controllo del territorio che gli è direttamente funzionale.
Dalla fine degli anni ‘90 il ritaglio di Porta Palazzo ha iniziato a essere interessante per l’amministrazione e numerosi investitori ed è iniziato un processo di trasformazione. Man mano l’interesse è avanzato, sia geograficamente che di intensità: occupando lo spazio, espellendo in vari modi i meno abbienti e chi non è ligio. Negli ultimi tempi questi processi si stanno accelerando a vista d’occhio. Nel giro di un mese la polizia ha sgomberato la casa occupata di via Lanino ed è entrata per ben due volte nelle altre case occupate del quartiere per effettuare complessivamente 12 arresti; una presenza poliziesca a cui gli abitanti del quartiere si stanno abituando sempre di più e che non prende di mira solamente i compagni. Continui controlli congiunti tra Asl, compagnie del gas e della luce, forze dell’ordine che staccano le utenze ai morosi e nel frattempo fermano chi non ha i documenti. Distacchi dell’acqua a interi palazzi da parte della Smat, sempre per morosità. Retate nei giardini e nelle strade.
Nel frattempo la nuova sede della Lavazza va ultimandosi, dalle finestre dell’Asilo occupato è possibile vedere il suo profilo stagliarsi a poche centinaia di metri di distanza. I prezzi dell’affitto salgono ed è possibile comprare dei loft in Corso Brescia a 400.000 euro. Un nuovo centro commerciale viene inaugurato nelle strade di Borgo Dora e nello stesso tempo chi vende merce sospetta al mercato delle pulci viene arrestato mentre torna a casa. La nuova Associazione dei Commercianti del Balon, dopo essersi rallegrata per lo sgombero di via Lanino, ha assunto diversi uomini della sicurezza privata dall’aria minacciosa che intimoriscono gli abusivi, la loro nuova sede è diventata in poco tempo una dependance del Commissariato nel mezzo del quartiere.
La Circoscrizione 7 chiede lo sgombero delle case occupate in zona come passo necessario alla riqualificazione dell’area e ostacola in ogni modo l’insediamento del mercato domenicale nelle strade del quartiere. La scuola Holden, la scuola di storytelling diretta da Baricco, non solo attrae nuovi abitanti facoltosi ma organizza oramai in maniera sistematica incontri per addetti ai lavori sul tema della riqualificazione e dell’urbanistica proponendosi, quindi, come uno dei luoghi di produzione delle strategie da adottare per la pulizia del quartiere.
Questi stessi soggetti sono quelli che pubblicamente promuovono forme di cittadinanza attiva e di dialogo e con questo atteggiamento dimostrano quale sia la partita etica e politica in gioco in queste trasformazioni: o partecipi in maniera civile aiutandoli a sostenere i loro investimenti oppure finisci in galera.
Una sorte simile spetta chiaramente anche a chi non ha un tetto, non ha i documenti o i soldi per restare. Quando la polizia ci sfonda la porta di casa per arrestarci sappiamo che, oltre agli uomini del tribunale, anche questi signori hanno il loro carico di responsabilità e non abbiamo perso, né perderemo, occasione per ricordarglielo.
Da tempo questa zona non è uno spazio omogeneo delimitato e contrapposto rispetto al resto della città, ma una zona popolata a macchia di leopardo, dove il tanto decantato mix sociale si concretizza in una polarizzazione sociale sempre più intensa. Nella medesima traiettoria a profondità differenti si osservano l’uomo del Ministero che si reca alla conferenza alla scuola Holden, la preside dello Iaad, un neet che ciondola tra il bar e il marciapiede e una pensionata che maledice Equitalia e i condomini morosi del suo palazzo.
Con l’intensificarsi dell’imbellimento del quartiere l’internità di persone spiacevoli è andata aumentando, cambiando anche il paradigma di opposizione. I “nemici” che si possono tratteggiare resistendo a uno sfratto a due passi dalla nuova scuola di design, schiacciati da un complesso di loft, sono svariati e non si riducono al solo padrone di casa e alle sue rappresentanze. La resistenza allo sfratto palesa una contrapposizione diretta alla dinamica di speculazione della rendita dell’affitto oltre ad intrecciarsi tout court con la contesa dello spazio.
Investimenti forti trascinano piccoli interessi e spontanee migrazioni sui flutti del mercato immobiliare oppure lungo gli abbagli dell’identità artificiosamente attraente dei luoghi. Ai piedi del palazzo della Lavazza, dello Iaad e della scuola Holden, secondo i progetti, si dovrebbe creare un autoregolato e “solidale” mix sociale.
Per ora, però, i rapporti tra chi si contende la possibilità di stare in questo posto non possono e non riescono a essere piani.
Oltre agli interessi si stratificano le necessità, che spesso hanno un verso opposto l’una rispetto all’altra. La cosiddetta classe che avrebbe una ragione per ribellarsi, per lottare, non è così visibile e netta, da parecchio tempo è un amalgama complesso e frammentato. Proviamo a pensare a come si vive in un condominio in queste zone, a quanta gente ha problemi con le utenze, non paga e quanta gente ha problemi con i debiti degli altri condomini poiché questi pesano sulle loro già sovraccariche spalle. Temi complessi da analizzare avvolti nel malcontento generale che si respira in queste zone lasciate a un progettato degrado abitativo e tendenzialmente sovraffollate. Quando queste necessità si scontrano i politicanti del quartiere convogliano la rabbia su discorsi diretti alla pancia della gente che ha qualche possibilità in più di avere qualche briciola o concessione. Sotto le vesti di comitati di quartiere appaiono i fascisti che fanno breccia sulle ragioni di alcuni italiani con discorsi terribilmente carichi di pericolosità, una spinta verso una guerra tra poveri, verso l’approfondimento della già presente frammentazione, semplificando il lavoro di chi controlla e di chi sfrutta.
A dispetto della complessità della realtà, della difficoltà a rimanere in questo spazio dove spinte tenui e brutali ci sospingono a traslocare, a demordere, pensiamo che valga ancora la pena avere una proposta per coagulare, organizzarsi, farsi forza e lottare. In queste strade tanti si sono conosciuti e organizzati assieme, si sono costruite barricate e rivoltati cassonetti, si è resistito contro la polizia. E accade quasi ogni giorno che ci sia qualcuno che riesca a scappare dai controlli, chi cerca di difendersi da solo, chi infrange le leggi per sopravvivere, chi occupa una casa popolare. Ci sono molti che hanno una ragione per resistere qui e se qualcuno decidesse di farlo dovrebbe essere una scelta che funziona, puntellata dalla solidarietà di tanti altri.
Siamo convinti che la partita non sia ancora finita in questo angolo di città.
Torino, gennaio 2017