Una città sotto assedio
Il corteo di sabato 30 marzo resterà certamente impresso nella memoria di tanti. Per contrastare una manifestazione che voleva bloccare la normalità cittadina, le autorità locali hanno pensato bene di militarizzare una considerevole porzione di Torino. Per tutta la giornata di sabato hanno istituito una gigantesca Zona Rossa, che superava l’intero centro cittadino estendendosi fino ai quartieri di Aurora, Barriera di Milano e di San Salvario. Per farlo hanno schierato circa duemila agenti, oltre a blindati, elicotteri e idranti, chiuso tutti i ponti sulla Dora con camionette e grate, e bloccato per sei ore corso Novara e via Aosta per impedire a duecento compagni di raggiungere il corteo. Hanno sospeso le corse di molti tram, disposto la chiusura dei dehors di numerosi bar e anticipato quella di alcuni mercati rionali. Per alcune ore sono state poi chiuse le fermata della Metro di Porta Nuova e gli stessi ingressi centrali della stazione. Persino la raccolta dei rifiuti è risultata sconvolta da questo dispositivo militare, i cassonetti di un bel pezzo della città sono stati infatti rimossi diverse ore prima l’inizio della manifestazione.
Se prima si poteva parlare di un quartiere sotto assedio, sabato abbiamo avuto prova di una città sotto occupazione.
Intorno al capoluogo sabaudo sono stati disposti, sin dal venerdì, controlli minuziosi presso i caselli autostradali e sui treni diretti in città. Proprio in uno di questi controlli sono stati fermati quattro compagni da Vicenza, arrestati (finiranno ai domiciliari) e ora in attesa dell’interrogatorio di garanzia, viene imputata loro la detenzione di materiale esplodente. Un’altra storia tra le tante è invece quella di venerdì: un ragazzo che si trova su un treno per Torino, mostra il biglietto al controllore ma il titolo di viaggio in questo caso non basta, ha infatti disposizione di avvertire le forze dell’ordine quando incontra qualcuno che abbia un aspetto da manifestante. Alla fermata successiva salgono quindi sul treno alcuni poliziotti e il ragazzo è costretto a scendere; dopo una perquisizione e una denuncia a piede libero, questo ragazzo decide comunque di recarsi a Torino per la manifestazione. Ad aspettarlo sui binari trova però due uomini della Digos che con un foglio di via già pronto lo rimettono su un treno che si allontana dalla città…
Quello approntato per la giornata di sabato è stato un vero e proprio dispositivo da controvertice, quando l’incontro di molti capi di stato da una parte e di diverse migliaia di manifestanti dall’altra porta i responsabili dell’ordine pubblico a stravolgere profondamente l’abituale andamento di una città. Che questo sia avvenuto per una manifestazione di dimensioni e rilevanza certamente minori la dice lunga, tanto delle risorse che sono stati disposti a investire quanto dell’importanza attribuita al corteo del 30.
Un centro cittadino cinto completamente d’assedio a proteggere, tra le altre cose, la giornata clou della Biennale della Democrazia. Al di là della retorica e delle illusioni che i numerosi incontri e dibattiti di questo evento hanno cercato di dispensare, l’immagine che meglio esprime la sostanza di cui è fatta la democrazia è certamente quella di Piazza Vittorio, una delle piazze più grandi d’Europa, chiusa da una parte all’altra da idranti, blindati e fitti cordoni di celerini. Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori e a sorvegliarne l’accesso non ci sono certo dei liberi pensatori…
Nonostante questa esposizione di forza muscolare da parte dello Stato, cinque cortei sono partiti nel primo pomeriggio da diversi punti della città e hanno raggiunto Piazza Carlo Felice da cui duemila persone sono partite e, ponendo sul piatto il proprio coraggio, hanno urlato la loro inimicizia alle autorità pubbliche, al lavoro e al filo spinato che stritola il mondo.
Scrivevamo alcuni giorni prima del 30 che intenzione di questo corteo era quella di muoversi il più liberamente e agilmente possibile lungo le strade della città senza lasciarci dettare il percorso dalle forze dell’ordine. Un’intenzione che purtroppo è rimasta tale. A impedirlo è stato certamente il dispositivo militare messo in campo dalle autorità cittadine che abbiamo tratteggiato finora. Oltre che alle scelte della controparte sarà però opportuno riflettere e discutere sulle nostre di scelte per comprendere quali errori di valutazione abbiamo commesso, quali i limiti che sono emersi da questa giornata, così che i passi indietro obbligati dagli sbarramenti in cui siamo incappati sabato scorso possano aiutarci a farne qualcuno in avanti nelle prossime occasioni.
Trovare modi e tempi per discuterne, tra i tanti che hanno vissuto questa giornata, sarà quindi di una certa importanza. A partire dalla constatazione che, in ogni caso, né il dispositivo militare né il parallelo can can mediatico dei giorni precedenti il 30 sono riusciti a incutere paura. A distanza di cinquanta e più giorni dallo sgombero dell’Asilo e dall’arresto dei compagni per l’operazione Scintilla, quella “solidarietà diffusa, superficiale e inspiegabile” goffamente tratteggiata dal Questore Messina – dopo la manifestazione del 9 e qualche giorno prima quella del 30 – ha mostrato di essere ancora più ampia, viva e determinata. E di certo non verrà incrinata dal bottino sequestrato ai manifestanti bloccati in via Aosta e orgogliosamente esibito dai questurini come l’armamentario necessario a creare terrore. I tavoli nelle stanze della Questura imbanditi per lo più di striscioni rinforzati, maschere antigas, caschi, fumogeni e uova di vernice raccontano della necessità, avvertita e discussa in tanti nelle ultime settimane, di autodifendersi durante i cortei e rimanere compatti per evitare che qualcuno venga arrestato, senza lasciarsi rompere la testa e senza dover scappare o respirare i gas lacrimogeni. Nelle ultime settimane, grazie anche alle tante iniziative, assemblee e dibattiti, si sono sviluppati dei buoni anticorpi alla strategia del divide et impera portata avanti dalle autorità cittadine.
La favoletta dei buoni e dei cattivi non convince ormai nessuno dei tanti che si sono mobilitati dallo scorso 9 febbraio.
La consapevolezza, semmai, è che se non si trova il modo di alzare la testa, facendo fronte a una violenza statale destinata ad aumentare e che non si esaurisce certo nella sua propaggine armata, ci ritroveremo con le teste spinte sempre più a fondo nel cesso, e ci resterà per lo più la possibilità di annaspare, soli e impauriti.