Buchi neri
Un paio di compagni dopo aver navigato attraverso il corteo del 1° maggio hanno deciso di mettere giù alcune considerazioni parziali su quello che hanno visto e vissuto in quella giornata.
Che il primo maggio da lunghi decenni sia una giornata controversa, per usare un dolce eufemismo, è pacifico nel cuore di molti, se non altro nella sua declinazione a festa sindacale e politica in cui sotto l’egida del lavoro – neanche più quella dei lavoratori – le becere rappresentanze possono aggiornare il portfolio al mercato della politica, mostrarsi come guida per l’elettorato, consiglieri nello sfruttamento, forza del sociale. Tuttavia, in questo periodo in cui il centro della città è difeso da ordinanze prefettizie e ogni grossa manifestazione con delle dichiarazioni minimamente bellicose viene completamente blindata, la “festa dei lavoratori” pare ancora un’occasione per incontrarsi in strada con la volontà di mettersi di traverso. Politici e istituzioni che decidono sulle nostre teste, rintanati nei palazzi, sfreccianti nelle corsie dei tram sulle loro autoblu, si affacciano nelle vie del centro in mezzo al popolino, seppur circondati da cordoni di celere.
Ci si domanda allora che senso abbia partecipare alla manifestazione del primo maggio se non per cogliere l’occasione di avvicinarsi a tal punto ai potenti da tirargli almeno un sonoro e ribaltante coppino alla nuca. Che questo avvenga nello slancio di un disoccupato solitario, in un piccolo gruppo di lavoratori incazzati o in una forza d’urto ancora più collettiva dipende dal coraggio contagiatosi nelle esperienze quotidiane di lotta. Ma su questo fronte, purtroppo, le difficoltà sono evidenti da tempo.
Lo “spezzone sociale” in coda al corteo è da molti percepito come lo spazio dove amalgamarsi e cercare le condizioni per dimostrare la propria rabbia, dove provare a travalicare l’ordine impartito dagli organizzatori e risalire la fiumana come salmoni, per riuscire a raggiungere, sfidando la polizia, la cricca dei potenti. Avere una testa e un cappello No Tav può essere però scomodo e fastidioso, soprattutto in un momento in cui la stessa lotta in Val di Susa non si esprime più con quella potenza di scontro in cui molti si sono identificati in passato, non tanto perché propugnava un modello economico e sociale alternativo, ma per ciò che simboleggiava in termini di opposizione radicale e pratica a questo ordine di cose esistente. Una potenza che ha lasciato il posto a ben altre strategie, dove attualmente il confine tra ciò che rimane del movimento contro il treno e la sua rappresentanza politica infilata al governo pare abbastanza sfumato. Un cappello No Tav che, alla luce di queste considerazioni, forse è anche indice della penuria di lotte reali e di una più ampia conflittualità sociale latente. Detto in altri termini, se le teste sono tante ognuna con la propria tenacia e convinzione, è più probabile che il cappello resti sull’attaccapanni e ognuno si prenda la responsabilità di portare la propria voce, con le proprie idee. Le parole di indizione del Movimento No tav, o di chi ne tira le fila, sembravano già far trapelare quanto il discorso fosse sbilanciato sul fronte delle strategie politiche piuttosto che sulla voglia di rompere con tutta la messa in scena. Partecipare al primo maggio come uno spezzone tra i tanti, come un pezzo di quella dialettica interna alla politica nel presentarsi come un “modello di sviluppo diverso, capace di dare benefici immediati a tutto il Paese“ opponendosi alle menzogne di industriali e politici “con la vitalità e le bandiere“. Per quanto stonata, una voce nel coro.
La canea mediatica si è focalizzata sugli “scontri”, trasformando degli spingi-spingi in massiccia violenza (che comunque, va riconosciuto, è stata a senso unico, dai celerini sui manifestanti). Scontri tra: da una parte il fronte No Tav sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dall’altra la polizia in difesa dello spezzone del Pd. La storia adatta nell’eccitato spettacolo pre-elettorale. Una polarizzazione e un’alleanza, da un lato avvalorata dalla presenza di alcuni consiglieri pentastellati nello spezzone contro il treno ad alta velocità, dall’altro dai continui silenzi e nessuna smentita di chi quello spezzone l’ha reso possibile. Negli articoli a commento di questa giornata viene giustamente fatta la lista di tutta la merda apparsa in questa cloaca, ma di chi governa questa città e delle sue responsabilità nelle condizioni di sfruttamento e oppressione che stiamo vivendo … beh, non vi è traccia. Non ci stupisce in fondo, anzi è in perfetta linea con quanto dispiegato nell’ultima stagione dell’opposizione al treno e di chi ne tira le fila, e che ha già visto uno dei suoi apici nella presenza del vicesindaco Montanari al corteo dell’8 dicembre.
Nonostante ciò, in quella piazza ieri, in quello spezzone, erano presenti anche molte persone, tanti giovani e meno giovani, studenti o disoccupati o sfruttati, poco etichettabili e con una voglia genuina di ribellarsi, di interrompere la sfilata e il teatrino della “festa dei lavoratori”, per provare a distribuire questi coppini. Una disponibilità alla rottura col resto del corteo che non si è rispecchiata tanto nelle parole lanciate dal microfono del furgone No Tav, parole di stupore davanti alla celere schierata in piazza Vittorio, davanti a chi “ci aveva detto che sarebbe stata una piazza aperta a chi voleva manifestare le proprie idee, come noi, pacificamente“. Fino alla collera isterica di Alberto Perino, inebetito dalla vecchiaia o dal potere, che preso il microfono si è arrogato il diritto di dire cosa andava fatto e cosa non, ordinando alle persone di non accettare le provocazioni della polizia proprio nel momento in cui erano state aperte delle teste.
Ma volendo anche supporre la buonafede di una parte degli organizzatori dello spezzone, e quindi una schizofrenia di intenti, nell’ipotesi di invitare gli animi inquieti in uno spazio in cui sentirsi liberi di esprimere la propria rabbia, si riscontra quantomeno un’ingenuità di fondo, per non vedere malizia. Credere che le aste delle bandiere e le calotte craniche potessero rimanere intatte contro gli urti ripetuti delle manganellate durante le cariche in via Roma è da sprovveduti. Pensare che questo non potesse accadere è da scellerati. A forza di scremare le ipotesi di senso che può aver avuto l’impostazione di questo spezzone non resta che la mera rappresentazione. Mostrare il sangue di chi voleva semplicemente partecipare a questa sfilata? Oppure la collisione tra la consigliera pentastellata e il capogruppo del Pd torinese? A questo punto chi ha partecipato al corteo leggendo la narrazione interna del Movimento No tav e quella degli articolisti della stampa mainstream potrebbe sentirsi cotto a puntino, in questa paella senza carne né pesce, spaesato in una galassia dove la lotta non ha nessun valore.
Qualcuno, nonostante tutto, è riuscito a evitare l’inscenata. Qualcuno è riuscito a squarciare il velo della sfilata politica, mettendo in difficoltà le componenti istituzionali a tal punto che quasi nessuna testata ne ha parlato, oppure ne ha scritto due righe per poi eliminarle nella versione aggiornata. Dopo vari tentativi di sbucare nella piazza del palco sorvegliata dalla celere, un gruppo di circa una trentina di fattorini in bici ha fatto incursione alla testa del corteo, davanti alla banda e ai gonfaloni. Ha gettato le biciclette per terra, bloccando l’ingresso della parata in piazza San Carlo mentre il capo piazza della polizia impartiva perentoriamente al servizio d’ordine della Cgil:”se non ci pensate voi, noi avanziamo!”. La presenza molesta dei lavoratori, la solidarietà della gente attorno, il rischio di danneggiare l’immagine della sfilata ha portato il cordone di celere ad aprirsi e far entrare i rider con le bici in spalla in piazza,fino a raggiungere il palco per fischiare e insultare il comizio dei confederali.
Da un lato questi lavoratori e lavoratrici hanno provato a vivere il 1° maggio come giornata di lotta a partire da un percorso reale, fatto di scioperi, assemblee e quant’altro e che ha visto la “festa dei lavoratori” come un’ulteriore occasione per entrare a gamba tesa tra gli stinchi dei potenti di Torino. Dall’altro se ne trae una preziosa indicazione tattica, che forse potrebbe essere riprodotta e sperimentata su numeri più ampi: non più opporsi frontalmente per risalire la fiumana ma girarle attorno, tentare e ritentare, veloci o lenti, assieme o divisi fino a trovare la falla in un centro cittadino blindato ma non totalmente impraticabile.
Le sfide che questo presente ci pone sono palesi. In ballo c’è il rischio di perdere la voglia di lottare, di credere nella sua efficacia e nella sua carica liberatoria. Se pensiamo possano esistere dei momenti di espressione corale di istanze, malesseri e stizza occorre ragionarci seriamente. La responsabilità sta in ogni testa che sogna qualcosa di diverso, nelle braccia di chi sceglie di agire. Responsabilità è porsi delle domande, cercare risposte e non attendere per forza un’idea o una proposta da qualcun più avvezzo. Capire cosa non si vuole è già un punto da cui partire.