Inseguendo la chimera – pt.2
NOTE A PARTIRE DALL’OPERAZIONE SCINTILLA
Dopo mesi concitati, nel tentativo di dare una degna risposta allo sgombero dell’Asilo e all’arresto di sei compagni e compagne, nel tentativo di mantenere viva la voglia di lottare in questa città, ci prendiamo ora il tempo di fare alcuni ragionamenti su questo teorema inquisitorio partorito dalla Questura, fatto proprio dalla Procura e avvallato da una GIP. Un teorema che per il momento non ha retto il primo impatto con il Tribunale del Riesame, dopo tre mesi sono infatti usciti dal carcere cinque compagni, ma che costringe ancora Silvia tra quelle mura e in condizioni di detenzione particolarmente afflittive.
A indagini ancora aperte vale la pena spendere sopra queste carte qualche parola, tra le altre cose perché contiene alcune indicazioni che sono il segno dei tempi su come costringere certi anarchici al silenzio, seppur non del tutto nuove. Già quindici anni fa infatti si poteva leggere in un libretto, dal titolo ‘L’anarchismo al bando’, di come le strategie repressive mirassero a “togliere agli anarchici ogni possibilità di agire in gruppi di più persone articolando anche alla luce del sole il loro intervento, proprio in quanto finalizzato all’insurrezione generalizzata”.
Questo lavoro di analisi uscirà a puntate, una alla settimana, che si concentreranno su alcune specificità dell’operazione Scintilla e della lotta contro i Centri di detenzione per immigrati. A scriverle sono alcuni compagni, alcuni imputati e indagati in quest’inchiesta, altri no, che nel corso degli anni si sono battuti contro la detenzione amministrativa.
Silenzi
L’oggetto del teorema inquisitorio Scintilla è una lotta ventennale, quella contro la detenzione amministrativa dei senza-documenti, portata avanti da un movimento reale dentro e fuori i Centri di reclusione. Una lotta composta anche da una serie lunghissima di iniziative all’esterno dei Centri: alcune indette, altre a sorpresa, alcune anonime, altre rivendicate, alcune “a volto scoperto” e altre “a volto coperto”. Per la maggior parte di queste ultime gli inquirenti non sono finora riusciti a raccogliere né prove né indizi sufficienti per attribuire precise responsabilità individuali, nonostante anni di esegesi di scritti, intercettazioni telefoniche e ambientali, videoriprese, pedinamenti, rilievi e prelievi di impronte digitali e DNA.
Che fare, si saranno chiesti nelle Questure e nelle Procure di mezza Italia? Continuare le indagini in attesa di individuare qualche colpevole? Gettare la spugna e archiviare i fascicoli come casi irrisolti? O provare a chiudere il cerchio ipotizzando l’esistenza di una struttura associativa che consenta di attribuire tanti fatti a tutti i membri della supposta associazione. Come è noto, con l’operazione Scintilla, Questura e Procura di Torino hanno scelto la terza via, e non è la prima volta che accade. Limitando lo sguardo alle lotte contro la reclusione amministrativa dei senza documenti è già avvenuto a Lecce nel 2005 e sotto la Mole nel 2010, ai tempi dell’Assemblea Antirazzista.
Ma creare una impalcatura associativa non è cosa da poco, e da sempre nelle Questure e Tribunali ci si scalda con la legna che si ha. Come sempre, occorre partire dai fondamentali e quindi dal Codice Penale che all’art. 270 cp. stabilisce “Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni dirette e idonee a sovvertire violentemente gli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”. Giurisprudenza alla mano, il GIP spiega che “rientra negli ordinamenti economici e sociali tutelati dall’art. 270 c.p. ogni formazione sociale in cui si esprime l’ordine democratico statale, anche quelle di sostegno economico e sociale alle politiche di sviluppo e coesione sociale nell’ottica del rispetto dei diritti umani, pure pertanto in relazione al settore dell’immigrazione, rilevante per la presente fattispecie associativa”.
Apriti cielo! Al netto della legnosità tipica del linguaggio dei Tribunali e della supercazzola sul rispetto dei diritti umani, questo passaggio mette a nudo la realtà: la detenzione amministrativa dei senza-documenti è uno dei pilastri su cui si regge l’attuale ordine democratico statale. Chiunque si batta apertamente e con costanza contro la macchina delle espulsioni è potenzialmente un sovversivo, dunque possono continuare a dormire sonni tranquilli – almeno per ora – giusto quelli che attraverso “pubbliche e pacifiche manifestazioni di protesta” sperano di superare democraticamente i lager della democrazia.
Definire organigrammi e divisioni di ruoli è tuttavia difficile e per dare sostanza ad una associazione “seppur fluida e priva di gerarchie interne” ci vuole dell’altro. Non basta sollevare una cortina fumogena descrivendo l’Asilo Occupato e soprattutto una mansarda occupata in Corso Giulio Cesare come “basi operative di una cellula sovversiva” e il blog Macerie come “strumento di propaganda a disposizione dell’associazione”. Queste son note di colore che vanno bene per le veline della Questura, da passare a qualche giornalista alla ricerca di ribalta o al ghostwriter di una sindaca a corto di idee. In Tribunale c’è bisogno almeno di una parvenza di concretezza, di prove o almeno di indizi, da trovare o costruire a tutti i costi. Quelli che seguono sono tre esempi del lavoro di costruzione dell’impalcatura associativa: vengono presentati non certo per gridare alla montatura, ma perché tra le righe si nascondono delle importanti indicazioni repressive, volte a costringere veramente in un angolo i compagni e più in generale chiunque sia disposto a lottare .
Un articolo sul blog Macerie che commenta tre tentativi di incendio di altrettanti bancomat di Poste Italiane rappresenta una “implicita rivendicazione della paternità degli attentati”. Implicita perché descrive le azioni come “tentavi falliti con ogni probabilità per problemi tecnici”. Secondo gli inquirenti soltanto gli autori di tali azioni erano a conoscenza dei problemi tecnici, e quindi gli autori delle azioni vanno ricercati tra gli autori dell’articolo. Un ragionamento un po’ tirato ma abbastanza logico penserà qualcuno. Peccato che dei problemi tecnici ne avessero diffusamente parlato diversi articoli di giornale, uno dei quali persino linkato nel post in questione. Più che un ragionamento un po’ tirato, siamo dunque davanti a un sofisma. Senza scandalizzarsi, è interessante guardare all’indicazione implicita degli inquirenti: meglio non parlare pubblicamente di certe azioni, se non si vuole correre il rischio di vedersene attribuita la paternità.
Tre compagne commentano alcuni articoli di giornale riguardanti due azioni dirette. Secondo gli inquirenti la conversazione – registrata grazie ad un microspia ambientale – permette di ricavare “elementi significativi della responsabilità degli indagati per gli attentati commessi a Torino e Genova”, dove sei mesi prima c’erano stati due tentativi di incendio ai bancomat di Poste Italiane. Viste le premesse si potrebbe pensare che le compagne siano delle sprovvedute che si lasciano scappare dettagli di quelle azioni senza sapere di essere intercettate . Non sarebbe la prima volta che accade, ma non è questo il caso. Le tre compagne iniziano la discussione parlando di altri fatti, successi pochi giorni prima in quel di Firenze, contro una sede di Cadapound, e in Francia contro una agenzia di reti informatiche che collaborava con la gestione dei Cie d’oltralpe. Poi il ragionamento continua soffermandosi sugli episodi tra il capoluogo piemontese e quello ligure sempre come scambio di considerazioni a partire da ciò che si era potuto sapere dai giornali. Ma ecco che con un gioco di “inc” (ossia ciò che gli inquirenti reputano incomprensibile nell’ascoltare le intercettazioni) e pezzi tagliati una compagna sembra quasi parlarne come se fosse lei l’autrice. Altro sofisma, ma soprattutto altra indicazione implicita: di certe azioni meglio non parlare neanche privatamente, se non si vuole correre il rischio di vedersi attribuita la paternità, di quelle o di simili.
La pubblicazione dell’opuscolo i Cieli Bruciano – un raccolta di informazioni sulle aziende coinvolte nella macchina delle espulsioni – viene descritta come una “rivendicazione anticipata delle azioni che di lì a poco sarebbero state realizzate”. Ma come è possibile rivendicare e quindi attribuirsi la paternità di qualcosa che non è ancora successo, e anzi succederà nelle settimane, mesi e anni seguenti? Semplice, l’opuscolo viene trasformato nel “manifesto programmatico” di una supposta associazione, e il gioco è fatto: da lì in avanti, tutto ciò che accade a quelle aziende è in qualche modo attribuibile ai membri dell’associazione. Un modo non troppo velato per invitare tutti al silenzio: un teorema inquisitorio di questo tipo può essere riproposto in altri contesti, e quindi chiunque faccia circolare informazioni in un contesto di lotta reale si potrà vedere costretto a risponderne davanti ai Tribunali.
D’altro canto non arrivano grandi rassicurazioni a ben leggere le motivazioni che hanno portato il Tribunale del Riesame ad annullare l’ordinanza in merito al solo reato associativo. Se da un lato viene criticata la scarsa riconducibilità dei fatti specifici agli indagati e una traballante descrizione dell’intera associazione, composta solo da promotori e senza indicare il ruolo e le caratteristiche dei partecipi, non viene messo in discussione nessuno degli aspetti sopracitati e anzi il Tribunale del Riesame sembra dare implicite indicazioni alla Procura e alla GIP su come costruire meglio il tutto. Tra queste viene messo molto l’accento sull’istigazione, quasi rimproverando il non averla contestata anche per i presidi e il più generale sostegno alle rivolte, anche in rapporto al peso che potrebbe avere nella fattispecie associativa stessa. Dato che “è comunque possibile riportare i vari attentati a una comune matrice ideologica e persino ad un ambiente identificato”, il potenziale stesso dell’opuscolo I Cieli Bruciano sembra derivare da una certa “incendiarietà” dei discorsi e dal suo essere rivolto a un’area, come quella anarchica, da cui è lecito attendersi un cattivo uso di certe raccolte di informazioni.
Non ci sono molte alternative: o ci si rifugia nel barocco “un bel tacer mai scritto fu”, restando in silenzio non solo di fronte al nemico che legge e ascolta perché vorrebbe sapere, ma anche tacendo fra compagni che vorrebbero intendersi, o si sceglie di difendere e allargare gli spazi di libera discussione, analisi e critica, sforzandosi di trovare i modi più opportuni per farlo. Spazi che vanno ben al di là di un blog o delle quattro mura di una casa occupata e sono alla base di qualunque percorso di lotta.
Per chi si fosse perso la puntata precedente Attorno a un perché potete trovarla qui.