Inseguendo la chimera pt.4
NOTE A PARTIRE DALL’OPERAZIONE SCINTILLA
Dopo mesi concitati, nel tentativo di dare una degna risposta allo sgombero dell’Asilo e all’arresto di sei compagni e compagne, nel tentativo di mantenere viva la voglia di lottare in questa città, ci prendiamo ora il tempo di fare alcuni ragionamenti su questo teorema inquisitorio partorito dalla Questura, fatto proprio dalla Procura e avvallato da una GIP. Un teorema che per il momento non ha retto il primo impatto con il Tribunale del Riesame, dopo tre mesi sono infatti usciti dal carcere cinque compagni, ma che costringe ancora Silvia tra quelle mura e in condizioni di detenzione particolarmente afflittive.
A indagini ancora aperte vale la pena spendere sopra queste carte qualche parola, tra le altre cose perché contiene alcune indicazioni che sono il segno dei tempi su come costringere certi anarchici al silenzio, seppur non del tutto nuove. Già quindici anni fa infatti si poteva leggere in un libretto, dal titolo ‘L’anarchismo al bando’, di come le strategie repressive mirassero a “togliere agli anarchici ogni possibilità di agire in gruppi di più persone articolando anche alla luce del sole il loro intervento, proprio in quanto finalizzato all’insurrezione generalizzata”.
Questo lavoro di analisi uscirà a puntate, una alla settimana, che si concentreranno su alcune specificità dell’operazione Scintilla e della lotta contro i Centri di detenzione per immigrati. A scriverle sono alcuni compagni, alcuni imputati e indagati in quest’inchiesta, altri no, che nel corso degli anni si sono battuti contro la detenzione amministrativa.
Nelle strade, oltre le mura
L’operazione giudiziaria del 7 febbraio si è articolata su due piani. Da un lato l’arresto di sei compagni nell’ambito dell’operazione Scintilla, dall’altro lo sgombero dell’Asilo.
Binari che non sono scorsi in parallelo. A livello mediatico, in buona parte, lo sgombero è stato giustificato dalle autorità cittadine, sindaca Appendino in testa, perché l’Asilo era un covo di sovversivi, nel tentativo di provare a far terra bruciata attorno ai compagni arrestati e a tutti quelli che frequentavano via Alessandria 12. A livello politico intrecciare i due piani è certamente stato d’aiuto nel giustificare un dispositivo militare mai visto per lo sgombero di un’occupazione: sia come numero di uomini e mezzi impiegati – parliamo di un centinaio di camionette al giorno che si sono turnate per i primi venti giorni, per poi continuare con numeri inferiori, ma comunque notevoli, per un altro mese abbondante-; sia per le modalità – il quartiere di Aurora ha subito una vera e propria occupazione militare, con strade chiuse e check point che per diverse settimane hanno stravolto la vita di tanti abitanti del quartiere, costringendoli a farsi identificare ogni volta che entravano e uscivano di casa-.
Di questo sgombero e dell’Asilo si è molto parlato nei giorni e nelle settimane successive. Ne hanno parlato in tanti, dai vertici cittadini dell’Amministrazione e della Questura ai pennivendoli della carta stampata e delle televisioni, dagli abitanti ai commercianti di Aurora. Fino ad arrivare a professori e studenti dell’Università e ai tanti solidali con cui abbiamo condiviso cortei, iniziative, assemblee e chiacchierate che con ritmo praticamente quotidiano si sono succeduti a partire dal 9 febbraio.
Un’attenzione e soprattutto una solidarietà fuori dall’ordinario, specie in un periodo “di bassa” come questo, lungo le sponde della Dora e del Po come altrove. Extra-ordinarietà attribuibile in parte alla storia dell’Asilo, un’occupazione “storica” che durava ormai da più di 25 anni, ma che ha le sue origini lontano dall’edificio di via Alessandria 12. Condizioni di vita e di lavoro che tendono a farsi sempre più gravose per tanti; una panoplia di misure legislative particolarmente afflittive nei confronti di chi lotta o di chi cerca soltanto un modo per tirare a campare, cui si accompagna un linguaggio sempre più esplicitamente di guerra contro questi ultimi; la creazione continua di misure ad hoc anche di fuori del campo strettamente penale, una presenza sempre più massiccia e invasiva delle forze dell’ordine nelle strade. Sono alcuni degli elementi che danno un’idea dell’aria che tira, un’aria sempre più soffocante e che non sembra destinata a diradarsi. Aria che alimenta, mescolandoli tra loro, sentimenti diversi come la frustrazione, il senso di impotenza, il rancore tra poveri e la rabbia verso chi ci governa e sfrutta. Per sciogliere o perlomeno allentare questo intreccio di sentimenti e cercar di volgere lo sguardo all’insù quando si pensa alla causa dei nostri mali, occorrono delle occasioni. L’operazione poliziesco giudiziaria del 7 febbraio è stata vissuta da molti come l’occasione che mancava e ha scoperchiato una pentola in ebollizione ormai da tempo. Un coperchio fatto saltare a forza. Con la forza che si ha avuto il coraggio di mettere in strada sin da quella sera, e che si è poi moltiplicata durante il corteo del sabato successivo. A risvegliare energie, attenzione e voglia di discutere, anche in ambienti intorpiditi come quello degli universitari, sono state le pietre sulla polizia.
Un fatto che dice molto su queste giornate torinesi, come sui tempi che viviamo e su quelli che verranno. Tempi in cui anche solo discutere, nel senso migliore del termine, richiederà la disponibilità e la capacità di fare i conti con la violenza statale. E, ultime in ordine di tempo, le misure previste nel nuovo pacchetto sicurezza, il Salvini bis, sono lì a confermarcelo.
Nel constatare come i fatti del 7 febbraio abbiano risvegliato molte energie e attenzione in città, non possiamo non sottolineare come sia mancato quel pezzo di città con cui nel corso degli anni abbiamo discusso e ci siamo organizzati per lottare contro gli sfratti e occupare palazzine come quella di corso Giulio Cesare, contrastare le retate e la macchina delle espulsioni. Una mancanza legata certamente all’impasse in cui da tempo si trovano alcuni percorsi di lotta, che allenta le relazioni, rende più difficile il ragionare e discutere su eventuali proposte e fa anche sbiadire il ricordo della funzione che l’Asilo ha avuto come luogo di incontro ed organizzazione, non solo per i compagnia ma anche per un buon numero di uomini e donne che vivono nelle strade di Torino nord.
Dopo che ne hanno parlato in molti, dell’Asilo proveremo ora a parlarne brevemente noi, alcuni tra i tanti compagni che l’hanno vissuto e utilizzato per organizzarvisi.
Nel farlo ci sembra il caso di sottolineare come negli ultimi nove anni quasi nessun testo sia uscito a firma Asilo Occupato (a braccio ne ricordiamo solo uno nel lontano 2011), e non si tratta certo di un caso. Tra le mura di via Alessandria 12 non si incontrava infatti un collettivo con la “C” maiuscola, ma dei compagni e delle compagne che hanno vissuto quel luogo, oltre che come spazio abitativo e sociale, soprattutto come uno spazio in cui organizzarsi per lottare senza però doversi presentare al mondo attraverso la propria identità, quanto piuttosto far parlare le azioni e le proposte di intervento. Compagni e compagne che sono cambiati nel corso degli anni, per i tanti casi della vita e per le tante operazioni repressive precedenti all’operazione Scintilla – ben oltre cento sono le misure cautelari tra carcere, arresti domiciliari, obblighi e divieti di dimora e firme, oltre a diverse Sorveglianze Speciali, che hanno raggiunto chi si organizzava in quel di via Alessandria 12, solo negli ultimi sei anni -.
Non uno spazio liberato, quindi – che la retorica sulla bella vita e sull’occupazione, come luogo per sperimentare nuove forme di socialità e relazioni non ci ha mai interessato -, ma uno spazio in cui discutere e ragionare su come portare avanti delle lotte nelle strade del quartiere e della città. Lotte contro gli sfratti, la militarizzazione, le retate, il carcere e i Cpr. Lotte per ricacciare indietro quella normalità statale di cui parlavamo sopra e che si traduce in un controllo sempre maggiore, in condizioni di sfruttamento e di vita sempre più dure, nell’atomizzazione sociale e nella guerra tra poveri. Far emergere una forza in grado di interrompere questa normalità è ciò che accomuna gli sforzi dei compagni che si incontravano nei locali dell’Asilo.
Una rottura della normalità che, in piccolo, abbiamo avuto modo di intravedere quando, insieme a tanti sfrattandi e solidali, abbiamo chiuso per diverse ore interi isolati del quartiere con barricate di cassonetti per resistere a degli sfratti, impedendo a ufficiali giudiziari e polizia di entrarvi. Se proprio si volesse usare l’immagine di uno spazio liberato, sicuramente ci sembrerebbe più opportuna questa, quella di intere strade strappate con la forza di una lotta per mandare in panne la macchina degli sfratti e imparare a ricacciare indietro la paura e il senso di impotenza.
Di queste lotte troviamo traccia anche nelle carte dell’operazione Scintilla, riprese anche da Questore e Sindaco, in cui si descriveva questo tentar di ricacciare indietro la normalità dello Stato come un tentativo di controllo del territorio. Un’ipotesi che, oltre a proporre un’immagine del radicamento dei conflitti purtroppo maggiore di quella che c’è realmente stata, non rispecchia in alcun modo le riflessioni che ci hanno mosso. Piuttosto che costruire una struttura, con alla testa un manipolo di militanti, che cresca e si rafforzi in città strappando terreno allo Stato e imponendo una sorta di contropotere, i nostri sforzi erano, e continuano ad essere, diretti a costruire dei momenti organizzativi con altri uomini e donne su problemi specifici, in cui il ruolo e l’importanza dei compagni tenda a venir meno col crescere delle capacità di autorganizzazione reali di chi lotta. L’importanza che i compagni rivestono e che è loro attribuita in una lotta, non è certo un obiettivo da perseguire quanto una criticità, in alcuni momenti difficilmente evitabile, che si dovrebbe sempre aver la tensione di sciogliere. Tanto più che oltre a una proposta di organizzarsi assieme per affrontare determinati problemi, la proposta che sempre abbiamo provato a suggerire è quella di provare ad organizzarsi autonomamente, con amici, familiari e conoscenti, nell’ottica di una sempre maggior diffusione delle iniziative di resistenza.
Scrivevamo sopra di come lo sgombero dell’Asilo sia stato definito dalle autorità cittadine necessario, alla luce dell’associazione sovversiva che gravava su alcuni dei compagni che lo frequentavano. Vedendo come l’impianto accusatorio non abbia retto neanche il primo vaglio del Tribunale del Riesame di Torino, non certo noto per il suo garantismo, potrebbe venir la tentazione di chieder conto di quelle immediate dichiarazioni.
Una volta tanto ci sentiamo invece di convenire con la sindaca pentastellata, lo sgombero dell’Asilo era realmente una priorità per chi governa questa città. Ormai più di un anno fa, quando si facevano via via più consistenti le voci di un possibile sgombero, avevamo scritto che lo sgombero dell’Asilo sarebbe stato un pezzo dello scontro di classe che quotidianamente si manifesta per le strade della città. Ci sentiamo di ribadirlo precisando che al suo interno, come detto, in tanti si sono incontrati animati dal desiderio di sovvertire quest’ordine sociale che si fonda su un’ingiustizia sempre più manifesta.
Ci eravamo ripromessi di parlare un po’ dell’Asilo, e nel tentare di farlo non abbiamo parlato granché della vita all’interno dello stabile di via Alessandria 12. Senza voler trascurare i tanti bellissimi momenti trascorsi al suo interno, non si tratta certo di un caso.
Se vi siete persi le puntate precedenti di Inseguendo la chimera potete leggerle cliccando sotto.
Segugi e alchimisti [Nell’ultima puntata ci siamo accorti di aver scritto un’imprecisione a cui abbiamo posto rimedio. L’errata corrige riguarda un passaggio nel quale si afferma che delle microspie erano state messe in una abitazione privata dove aveva vissuto per un periodo un compagno imputato. In realtà, come modificato nel testo, quel compagno non ci ha mai vissuto e si trattava di una mera supposizione della Digos, mostrando quindi quanto sia facile essere autorizzati a ficcare il naso negli affari di persone non solo non indagate ma anche non così centrali nelle reti di relazioni e rapporti dei compagni e delle compagne imputate. Senza contare che le microspie (per non sbagliare) sono state lasciate in casa pronte ad essere attivate all’occorrenza, anche se la Digos aveva espressamente richiesto all’epoca di stoppare l’intercettazione perché non era stato rilevato materiale utile in senso probatorio.]