Ancora una volta
Il muro d’acqua che nel fine settimana è piombato su Torino, a uniformare il grigiore di questa città tra cielo e asfalto, non ha spento i bollenti spiriti di chi è rinchiuso nel Cpr di corso Brunelleschi e da giorni si sta battendo per mandare un segnale: non si è disposti a soccombere senza colpo ferire. Sulla spinta delle rivolte che sono avvenute dopo la morte di Faisal, nella notte tra domenica e lunedì i reclusi dell’area gialla hanno tentato in gruppo la fuga. Un ragazzo è riuscito a conquistare la libertà senza essere ripreso, a lui va il nostro saluto con la speranza che possa continuare a lottare nel cammino tortuoso attraverso la fortezza europea, mentre tutti gli altri sono stati riacciuffati, pestati e riportati in sezione.
Purtroppo in questi giorni ci è giunta anche l’amara notizia che Djallo, il ragazzo che aveva testimoniato in merito al decesso, è stato trasferito a Roma nel Cpr di Ponte Galerie insieme ad altri 13 reclusi.
Anche le proteste individuali non sono mancate in questi ultimi giorni. L’assenza di cure adeguate sbandierata oramai in lungo e in largo è solo il picco più alto di una serie di condizioni che stritolano l’esistenza dei reclusi. Già alcune settimane fa ci era arrivata la notizia che ai reclusi veniva somministrato solo un litro di acqua potabile al giorno mentre dai rubinetti usciva solo acqua bollente. Non è un caso infatti che da venerdì 12 luglio per tre giorni una buona parte dei detenuti del centro abbia portato avanti uno sciopero della fame, per protestare tra le altre cose contro il cibo immangiabile che gli viene distribuito.
La pioggia quindi è piombata su Torino e l’acqua si è insinuata attraverso le strutture fatiscenti del Cpr e ha allagato le stanze dell’area blu. A riportare la notizia anche alcuni rinomati media locali, che però si guardano bene invece dal tuffarsi nel pantano delle contraddizioni, dal parlare di tentativi parzialmente riusciti di evasione, ovvero dal diffondere quelle notizie pericolose (per l’indicazione che danno) e politicamente poco spendibili, sopratutto in questa parentesi di ritorno sulle scene dell’affair Cpr e il rinnovato interesse di alcuni “buoni” politici sensibili alla questione.
Purtroppo però non si possono neanche chiudere gli occhi sulle difficoltà che riscontrano tutti quei solidali disposti a saltare a pié pari il campo della mera rappresentazione (o dei tentativi di riformare queste strutture o dedicarsi alla cura di alcuni casi disperati), per provare piuttosto ad abbattere le mura o sostenere chi è disposto, da dentro, a farlo. I presidi davanti al Cpr sono molto importanti, creano una continuità e sono forse anche ciò che fa sentire dentro la possibilità di reagire ai soprusi senza che questi gesti cadano nel vuoto, ma da soli non bastano. La frustrazione nel vedere alcuni ragazzi arrampicati su un tetto a gridare aiuto mentre dentro la polizia reprime con le botte i tentativi di protesta, forse è direttamente collegata non solo alla mancanza di idee e azioni da mettere in campo, ma anche alla mancanza di una prospettiva a medio termine nella quale inquadrare la costruzione di un rapporto di forza reale. Sapere che oggi non si è in grado di fare granché per rintuzzare la violenza e l’arroganza della polizia è un problema, ma ancora peggio è il rischio di accorgersi che non si è in grado di pensare e mettere in pratica i vari passi che portano al superamento di questa impasse. Non è cosa facile, anche partendo dal livello di controllo e repressione che evidentemente si scatena non appena si provi ad agire concretamente in questa direzione. Un percorso che si compone di tanti aspetti, a volte anche noiosi e ripetitivi come informare le persone che abitano nei quartieri dove viviamo di quello che accade dentro, come portare avanti ostinatamente presidi, volantinaggi e saluti anche quando dentro non succede niente e vige la risacca, come provare a mantenere alta l’attenzione con iniziative di vario genere in grado di non far dimenticare a nessuno, a partire da noi stessi, chi sono i responsabili di questa guerra spietata. Un percorso il cui obiettivo minimo riemerge proprio dai fatti di questi giorni: come arrivare preparati alla prossima rivolta, piuttosto che rincorrerla con fatica?
Eppure le rivolte dei reclusi, che riaffiorano attraverso qualsiasi bufera salviniana o di qualche altro boia di Stato, sono lì a ricordarci l’urgenza di questa sfida. Non solo perché l’apporto di chi lotta fuori potrebbe fare una piccola differenza, ma perché c’è da domandarsi se davanti alla nostra coscienza, alla nostra voglia di essere un pezzo effettivo di questo scontro di classe, vogliamo privarci di questa occasione.