Il sistema dei “punti di crisi”: gli hotspot

Di seguito riportiamo un’interessante descrizione e analisi di un compagno che nei tempi di repressione ha studiato gli apparati che si occupano di gestire i flussi migratori, dove tratta della gestione “logistica” che si sta cercando di imprimire agli uomini e alle donne che intraprendono il viaggio della fortuna verso l’Europa. Ultimo dei due contributi di sua penna che pubblichiamo (il primo lo trovate qui), scritti nati dall’esigenza di comprendere quali livelli burocratici e operativi si concretizzino in strutture come il Cpr e di come vengano da una governance internazionale che si avvale delle nuove tecnologie così come delle retoriche politiche, che siano queste palesemente repressive o con sfumature più umanitarie.

Gli anni 90 rappresentarono per l’Italia un punto di svolta nella politica migratoria nazionale.
La crisi dei Balcani e il successivo prodursi di persone in fuga provenienti dall’est europeo colsero di fatto un governo pressoché impreparato e sprovvisto di un approccio adatto a far fronte alla questione. Le immagini della nave Vlora approdata nell’agosto del ‘91 nel porto di Bari produssero un vero e proprio shock mediatico e spiazzarono non di poco autorità e istituzioni. Nel corso dei vent’anni successivi, il sistema di gestione dell’immigrazione si è evoluto enormemente. Numerosi strumenti giuridici sono stati creati allo scopo di gestire, controllare e arginare il fenomeno stesso. Nuove prassi e tecniche di polizia, come spesso accade, si sono cristallizzate in leggi e istituzioni, nuovi regolamenti e centri di contenimento sono sorti sul territorio. Una nuova “epoca dei campi”, come sappiamo, ha preso piede con forme diverse ed eterogenee. Guardando ai giorni nostri, dall’approdo dei 20.000 albanesi in Puglia e dai successivi fatti dello stadio di Bari, perciò, molto è cambiato.

I dispositivi e gli strumenti di disciplinamento che nel tempo hanno visto la luce si sono evoluti, affinando le proprie caratteristiche, trasformando le proprie funzioni e i propri fini. Alcuni sistemi ad esempio hanno implementato la propria complessità e hanno sviluppato ulteriori tecniche e tecnologie, primo fra tutti la detenzione amministrativa. Accanto ai Cpt\Cie\Cpr, però, è l’intero impianto di gestione e controllo del flusso migratorio, nel suo volto detentivo o prettamente concentrazionario, che ha assunto nuove forme e preteso una sempre maggiore articolazione e sistematicità. È in questo quadro di continua trasformazione e di ricerca di efficacia da parte di governi e tecnici, intenti sempre a destreggiarsi in un sistema che produce sopratutto rivolte e proteste, che sono nati nel 2015 gli Hotspot: nuovi modelli di controllo e carcerazione per la popolazione straniera.

L’epoca delle emergenze produce nuovi campi

Le catastrofi e le grandi tragedie, ma anche i piccoli fatti di sangue o gli eventi più banali della cronaca, se opportunamente manipolati, hanno da sempre rappresentato una grande occasione per il legislatore. Instaurare un clima di emergenza, di paura o di pericolo per la popolazione, attraverso ad esempio la costruzione artificiale di un nemico interno o di uno esterno, è una strategia vecchia come il cucco. Lo scopo è creare un terreno fertile per la crescita delle proprie politiche, produrre consenso, etichettando un fenomeno come problema e immediatamente dopo presentarne la soluzione necessaria. In tal modo vengono compiuti grossi passi in avanti in senso repressivo, utilizzando i decreti e le misure d’urgenza, veri e propri cavalli di troia per interventi legislativi o di polizia dei più disparati. Di esempi nel presente attuale ce ne sono davvero tanti e i voli pindarici effettuati dalle autorità, a giustificazione di arretramenti nei diritti e nelle libertà, sono assai notevoli. In tal senso la questione migratoria è un esempio lampante. Il migrante è uno dei fulcri principali intorno al quale ruota l’epoca delle emergenze: emergenza sbarchi, emergenza criminalità straniera, emergenza terrorismo; questi concetti accompagnano indissolubilmente il mondo migrante, effettuando una riduzione dell’identità dello straniero a “pericolo sociale” o, nel migliore dei casi, a “vittima da salvare”.

Per mezzo dell’urgenza, costruita ad hoc a seconda della bisogna o quando gli eventi tracimano per gravità dagli schermi televisivi, l’autorità interviene, approfittando dei fatti concreti per accelerare, senza briglie, un processo normativo o applicare nuove prassi gestionali. La militarizzazione dei territori, delle frontiere, delle acque del Mediterraneo sono gli effetti più visibili di tale approccio.
Una parte della politica migratoria italiana e europea si serve di queste leve per svilupparsi nelle sue varie forme ed è in questo quadro che nuovi approcci e nuovi campi di contenimento prendono vita, da ultimo, appunto, l’Hotspot del sud Europa, la cui genealogia è alquanto esemplare.

Nascita di un nuovo campo

La notte del 18 aprile 2015, al largo delle coste della Sicilia, un’imbarcazione eritrea ricolma di migranti affondò nelle acque del Mediterraneo, trascinando con sé il suo carico di esseri umani. Il naufragio provocò 24 vittime accertate e fra i 700 e i 900 dispersi. I 28 superstiti furono i soli a poter raccontare una delle più gravi tragedie marittime dall’inizio del XXI secolo.
L’evento ebbe un fortissimo impatto mediatico riuscendo, pur sempre per alcuni giorni, ad attirare addirittura l’attenzione di un’opinione pubblica oramai assuefatta dalle continue morti in mare.

Le istituzioni nazionali e soprattutto europee, inserendosi in un dibattito assai caotico, intervennero quasi immediatamente, imponendo la propria visione delle cose. Ciò che si produsse fu un vero e proprio capolavoro retorico, reso ancora più eclatante dal fatto che stesse avvenendo facendo leva sulla mediaticità di centinaia di vittime. Gli artifici linguistici creati riuscirono con abilità a sorpassare la tragedia. Venne operata dapprima una imprescindibile riduzione dei migranti a “corpi” e, successivamente, si riuscì stornare efficacemente le attenzioni su elementi secondari o estranei alla faccenda. Non furono tanto le dichiarazioni a caldo dei politici nostrani ad operare il vero e proprio depistaggio retorico (infatti, puri sciacalli a parte, si concentrarono soprattutto sugli “scafisti senza scrupoli”), ma piuttosto quello dei tecnici e dei rappresentanti in seno all’Unione Europea, portatori di una visione più ampia e precisa.

Il 23 aprile 2015, come risposta al terribile evento, fu indetta una riunione straordinaria del Consiglio europeo. Il vertice produsse una dichiarazione che elencava i punti d’intervento necessari alla futura politica migratoria europea. Ciò che venne presentato come una “svolta” fu invece l’occasione, servendosi dell’incredibile tragedia, per rafforzare il vecchio modus operandi, intensificandone i caratteri e introducendo nuove tecniche gestionali. Aumento dei pattugliamenti in mare attraverso il potenziamento di Triton e Poseidon, lotta ai trafficanti con operazioni PSDC, intensificazione dei rapporti di cooperazione con i paesi terzi nell’ambito dei processi di Khartoum e Rabat, aumento delle espulsioni. “La nostra priorità immediata è evitare altre morti in mare” così recitava il primo punto della dichiarazione; non ci volle molto a capire che il gap tra il problema da risolvere e i mezzi presentati per farlo fosse assai notevole. All’interno del testo prodotto venne paventato per la prima volta l’intervento diretto “in prima linea” di alcune Agenzie europee. Easo, Europol, Eurojust e prima di tutte Frontex. Queste con compiti differenti e in ambiti d’intervento diversi vennero presentate come il fulcro intorno al quale doveva muoversi l’intera faccenda; gli scopi dell’intervento, goffamente celati dietro altri proclami, miravano verso due direzioni ben definite: come detto, un’ ulteriore militarizzazione delle frontiere marittime e terrestri , ma soprattutto lo sviluppo di un management dei flussi più efficace, di cui sia Frontex che Easo dovevano esserne le architravi. Le agenzie europee citate, riunite nella sigla Eurtf (EU Regional Task Force), sarebbero state presenti fisicamente con i propri funzionari sul territorio di quei paesi membri che versavano, a detta dell’Europa, in una situazione definita “emergenziale” e cioè l’Italia, la Grecia e in parte l’Ungheria.

Nei mesi successivi alla tragedia gli incontri a livello nazionale ed europeo furono numerosi e abbondarono le dichiarazioni congiunte, i documenti e gli atti prodotti sul piano istituzionale.

Il 29 aprile 2015 il Parlamento Europeo adottò una risoluzione in cui, per far fronte a quella che ormai veniva chiamata “crisi dei rifugiati”, venivano posti come centrali i nuovi concetti di quota, ricollocamento, reinsediamento11 e di rimpatrio volontario. Inoltre venne catapultato, con forte enfasi, al centro del dibattito il binomio migrante economico\richiedente asilo. Il concetto, la cui giuridicità è praticamente assente da qualsiasi codice, è divenuto nodo fondamentale e perno dell’intera questione migratoria.

L’Agenda europea

Il 13 maggio del 2015 fu istituita l’Agenda europea sulle migrazioni, già in discussione dall’anno precedente e considerata tra le dieci priorità politiche dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Junker. L’Agenda si concentrava sia su azioni immediate da portare a termine entro qualche mese, ma anche su problemi strutturali della politica migratoria europea basati su quattro piani semantici: la migrazione irregolare, la gestione delle frontiere, una politica comune europea di asilo e una nuova politica di migrazione legale. In soldoni, si gettavano le basi numeriche per le future (e fallimentari) azioni di ricollocamento e reinsediamento in tutti gli stati membri, si ridiscuteva il potenziamento militare delle acque del Mediterraneo e il processo di esternalizzazione, si tentava di approcciare infine le problematiche relative ai canali legali d’ingresso. Uno dei punti più interessanti del testo riguardava però la ridefinizione del sistema di gestione e controllo della massa migrante più problematica, quella cioè recuperata nelle acque del Mediterraneo o che premeva alla frontiera greca, la massa cioè a forte impatto mediatico.

La Commissione propose un nuovo metodo basato sui dei cosiddetti “punti di crisi”, punti caldi in quanto problematici, chiamati per l’appunto Hotspot. Sin dal principio fu molto complicato comprendere che cosa fossero questi luoghi, come dovessero funzionare, quali fossero i loro riferimenti giurisdizionali e ancora oggi, nel 2018, malgrado l’evoluzione che hanno subito, si ha di fronte un quadro assai nebuloso. Un nuovo campo, sicuramente un luogo fisico di contenimento, ma anche qualcosa in più rispetto alle strutture già presenti.
Ma che cos’è, dunque, un Hotspot? E soprattutto quante e quali funzioni, siano esse palesi o nascoste, assolve? Proveremo nei paragrafi successivi a mettere in evidenza i diversi ruoli che l’Hotspot ha assunto in questi anni, lo faremo chiamando questa struttura con diversi appellativi, alcuni provenienti dal vocabolario dei suoi ideatori, altri invece no.

Le fasi, il funzionamento

l’Hotspot come zona di non diritto, fabbrica di marginalità e nodo di un sistema logistico.

Gli Hotspot sarebbero stati, secondo i loro inventori, una delle soluzioni al problema degli sbarchi, ponendosi in piena continuità con la storia del ‘900 che ha trovato nell’internamento una delle sue pratiche più diffuse.
Il loro scopo sarebbe stato quello d’incanalare e manipolare una parte del flusso e prima di tutto identificarlo e registrarlo; l’operazione più importante sarebbe stata infatti proprio il prelievo delle impronte digitali. Questa fase, coadiuvata dai differenti database che raccolgono le informazioni sulle persone, sarebbe stata la garanzia del controllo dei migranti a distanza. Essi infatti, grazie ai sistemi informatici e alle banche dati, possono essere continuamente identificabili in ogni punto d’Europa, anche se non hanno rispettato l’accordo di Dublino o sono rimasti sul territorio benché espulsi oppure sono diventati dei diniegati. Prelevare i dati non solo per tracciare. Infatti la necessità sarebbe stata captare informazioni per poi distinguere, categorizzare, dare un nome alle cose, decretare status e profili. Lo scopo finale del sistema sarebbe stato duplice: “accogliere” o, come contraltare dell’accoglienza, deportare. È nella ricerca infatti di un equilibrio che si sarebbe dovuto muovere l’Hotspot.

Come avrebbe dovuto funzionare però nella pratica questa “macchina infernale” di kafkiana memoria?

Nella Roadmap del 5 settembre 2015, documento proposto dall’Italia del governo Renzi, vennero precisati alcuni elementi.
In primis l’individuazione in Italia dei luoghi da adibire ad Hotspot: Lampedusa, Trapani, Pozzallo, Porto Empedocle, Augusta e Taranto (questi ultimi due da attivare nel 2016). Tutti situati in Sicilia, l’epicentro degli sbarchi, tranne uno, Taranto, in Puglia sul mar Ionio. Alcuni nella forma di tensostrutture a ridosso dei porti, altri ottenuti dall’adattamento di altri centri, di un Cie, per quello di Trapani, e di due Cpsa, per quanto riguarda Lampedusa e Pozzallo.
Per la prima volta vennero messe nero su bianco le operazioni da eseguire in queste strutture, tracciando cioè l’iter burocratico a cui dovevano essere assoggettati i migranti appena sbarcati. Inoltre, nel giugno 2016, vengono rese pubbliche le Standard Operating Procedures (SOP), redatte dal Ministero dell’Interno e dal Dipartimento di pubblica sicurezza con il contributo di vari organi tra cui la Commissione Europea, Frontex, Easo, l’UNHCR e l’IOM. Si trattava di una vera e propria guida operativa che aveva lo scopo di tracciare le norme e le misure da applicare in Italia e Grecia in rapporto al funzionamento generale di queste nuove strutture.
Dal punto di vista legislativo, sia la Roadmap che le SOP, tentavano di chiarire e regolamentare l’insieme degli ingranaggi operanti all’interno degli Hotspot, ponendosi come riferimento operativo dominante anche rispetto alle legislazioni nazionali.
Nella Road map e nelle SOP venne proposto, quindi, un tentativo di presentare un quadro chiaro e completo della questione.
Nonostante la pretesa chiarezza delle fasi descritte, rimasero degli enormi buchi neri rispetto ai diritti dei soggetti, soprattutto in rapporto alla questione della richiesta di protezione; alcuni punti in particolare rimangono tuttora completamente avvolti dalla discrezionalità e dall’arbitrio dato alle decisioni delle forze dell’ordine.

Il 1 agosto del 2015 nacque dalle ceneri del CPSA di contrada Imbriacola, l’Hotspot di Lampedusa, il primo in Europa. Il 22 dicembre 2015 il Cie di Trapani venne riconvertito in Hotspot e Il 19 gennaio 2016 stessa sorte toccherà al Cpsa di Pozzallo . Il 29 febbraio 2016 nel varco nord del porto di Taranto si adibirono prefabbricati e tensostrutture dando i natali a l’unico Hotspot pugliese.Totale di 1600 posti disponibili.
In Grecia, più o meno nello stesso periodo, furono strutturati cinque Hotspot. Nell’ isola di Lesbo (16 ottobre 2015), Chio (5 novembre 2015), Samo e Lero (17 febbraio 2016) e Coo.

Alla luce dei testi sopracitati e guardando alla breve storia di queste strutture, attualmente cosa accade all’interno degli Hotspot?

Le operazioni che vengono effettuate sono cronologicamente le seguenti: primo soccorso, screening sanitario, prima identificazione, registrazione, foto-segnalamento e prelievo delle impronte. Una volta completate queste fasi, avviene lo smistamento secondo i profili prodotti nei momenti precedenti. Come primo presupposto Frontex e Europol per tutta la durata del viaggio di recupero, quindi già sulle navi, durante la fase del soccorso stesso insomma, conducono azioni di identificazione, indagine e raccolgono le testimonianze dirette (un modo gentile per chiamare un interrogatorio) allo scopo di gettare luce e perseguire la “rete dei trafficanti”. È la cosiddetta procedura di debriefing, cioè la valutazione e analisi della situazione. Frontex, con il suo team specializzato chiamato JDTs (Joint debriefing), ed Europol, attraverso i racconti personali dei naufraghi, le prove raccolte sulla nave, l’analisi del report dell’operazione SAR valutano il cosiddetto “rischio relativo”. L’analisi del rischio ha un duplice scopo. Dapprima costruire un profilo per ogni persona recuperata in mare, un indice di pericolosità soggettiva, da cui dipenderà largamente il futuro della persona e, successivamente, valutare il rischio generale del contesto, del gruppo, della situazione. Una pratica che definire a forte impatto emotivo è riduttivo. È importante ricordare infatti che le persone vengono, come detto, interrogate in ogni fase della procedura, sulle navi oppure sulle banchine, ancora bagnate e con indosso la coperta termica. Ciò che rende bene l’idea della durezza della procedura è la confisca, a scopo d’indagine, dei beni e di tutti gli effetti personali dei migranti al momento dello sbarco. Infatti sulla banchina, dopo aver indossato il braccialetto numerico, alle persone vengono sequestrati i propri averi e chiusi in una busta di plastica allo scopo di analizzarli: cellulari, lettere, foto e persino la carta utilizzata per avvolgere i cibi.

La fase successiva è quella della prima identificazione, nucleo cardine dell’intera operazione. La polizia dello stato membro, coadiuvata da Frontex, Easo e dai mediatori culturali, somministra al gruppo di persone appena sbarcate, ancora sulla banchina dei porti, il cosiddetto “foglio-notizie”. Questo è una sorta di questionario sul quale la persona migrante deve scrivere non solo le proprie generalità di base (nome, cognome, luogo di nascita) o la propria nazionalità, ma anche rispondere a domande tanto fumose nei contenuti quanto gravose negli scopi che ottengono. Vuoi chiedere asilo ? Vuoi cercare un lavoro? Perché sei emigrato in Europa? Sulla base delle risposte ottenute, gli operatori dell’Ue e i poliziotti incaricati, nella piena discrezionalità che deriva sia dalla loro presunta expertise e sopratutto dal ruolo che ricoprono, decidono di collocare le persone in categorie differenti.

Questo porta ad una prima differenziazione sulla base della nazionalità: vengono scremati dal flusso i ricollocabili. Questi sarebbero coloro che provengono da alcuni paesi specifici, il cui tasso di accettazione delle richieste d’asilo è molto alto (più del 75% secondi i dati EUROSTAT); per lungo tempo sono stati l’ Iraq, la Siria e l’Eritrea e in secondo momento anche la Repubblica Centrafricana.
I ricollocabili vengono inseriti sotto la sigla CAT1 nel sistema Vestanet C3, successivamente registrati e presi in carico dal personale Easo, condotti verso le Hub regionali ( specifiche per loro a quanto si dice) dove verrà attuata la compilazione del famoso modello C3.
Attraverso la trattazione iniziale della loro domanda, verrà applicato un processo analitico di “matchmaking” che consiste nell’analizzare il profilo, le capacità personali, le qualifiche, i titoli di studio. È importante specificare che la porzione del flusso migrante definita CAT1 è quella con caratteristiche sociali ed economiche particolari; appartenenti alle classi medie di particolari paesi in guerra, dotati di alti livelli d’istruzione e specializzati in un qualche settore, queste persone hanno un profilo generalmente diverso da quelle provenienti dall’Africa sub-sahariana o da altri paesi del Magreb. Per stati come la Germania, che non ha nascosto di interessarsene fortemente, rappresentano un possibile bacino di manodopera specializzata.

Ritornando alla procedura, dopo una prima scrematura si passa alla fase più delicata dell’intero sistema: la registrazione attraverso il foto-segnalamento e sopratutto il prelievo delle impronte digitali.
Il fallimento di questa operazione all’interno delle vecchie strutture che dovevano garantire la registrazione nel momento successivo allo sbarco, cioè i CDA o i CPSA, oltre ad essere motivo di frizioni tra l’Italia e l’Ue, è stata di fatto una delle ragioni dello sviluppo dell’approccio Hotspot26.
I migranti vengono schedati e i lor dati inseriti all’interno del sistema AFIS. A questo punto si produce la differenziazione principale del sistema.
Chi non appartiene alla categoria CAT1 è di fatto considerato come possibile migrante economico. Sulla carta tuttavia, la loro possibilità di restare sul territorio non si esaurisce qui. Infatti il diritto internazionale, prima fra tutti la Convenzione di Ginevra, non esclude nessuna persona dalla possibilità di fare una richiesta, che sia fondata e non fraudolenta, di un qualche tipo di protezione; pericoli di persecuzione legati alla propria religione, sessualità o opinione\attività politica possono di fatto riguardare anche persone provenienti da paesi non in guerra.

Così chi vuole collaborare con le autorità, ma non appartiene alla CAT1, cioè all’elenco delle nazionalità definite più a rischio, può comunque avviare una richiesta di protezione, per questi ultimi non sarà Easo a prendersi carico delle domande, ma semplicemente le forze dell’ordine. Le garanzie e l’accuratezza della legge, però, molte volte non rispecchiano la realtà dei fatti e lo strumento della “domanda infondata” permette, molto spesso, di bypassare velocemente le fasi successive.
Accade infatti che le domande, definite CAT2 (ingresso irregolare), vengono considerate inaccettabili e respinte direttamente nell’Hotspot, alla compilazione cioè del foglio-notizie. Ad occuparsi della faccenda e ad effettuare valutazioni del caso sono le forze di polizia, anche se non dovrebbe essere loro compito. È stato più volte segnalato che chi esprimesse nel foglio-notizie la “volontà di lavorare” ad esempio, venisse considerato migrante economico e per questo segnalato come irregolare da espellere (CAT3).
Qui di seguito una testimonianza abbastanza esplicativa sulla superficialità dello smistamento:

“ Al porto ci sono tutti, carabinieri, polizia, Croce Rossa, funzionari di Frontex. Prima sale l’Usmaf (Ufficio di sanità marittima, ndr) che controlla lo stato di salute dei naufraghi, che poi scendono in fila indiana, a piedi nudi, frastornati. La polizia fotografa il viso di ciascuno e fornisce un braccialetto. Poi i profughi sono portati in pullman per i 20 metri che separano dalla tenda triage di Msf”. Per prima cosa si procede a verificare le condizioni di salute di chi sta per sbarcare e in caso di malattie all’isolamento e alle cure. I naufraghi vengono perquisiti a fondo. Poi, “un funzionario di Frontex fa le domande anagrafiche, a cui negli ultimi tempi ne è stata aggiunta una: ‘perché sei qui?’ se la risposta è ‘per lavorare’ saranno espulsi in due giorni, anche se non sanno perché, anche se non sanno cosa significa asilo, anche se sono costretti a rispondere dopo giorni di mare, in cui hanno rischiato di morire” (psicologo Francesco Rita dall’Hotspot di Pozzallo, in cui opera come operatore di Medici Senza Frontiere).

In questo caso e non solo, l’Hotspot si presenta come ciò che viene chiamata, nel vocabolario giuridico, “zona di non diritto”. Ciò ci permette di dare un primo appellativo a queste strutture: l’Hotspot è un luogo d’eccezione nel cuore dell’Europa democratica, uno spazio dove si verifica un vuoto giuridico dove le forze di polizia agiscono nella piena discrezionalità, a detrimento delle libertà individuali e dei diritti garantiti ai migranti.

Gli appartenenti alla categoria CAT2 le cui domande vengono considerate fondate e sopratutto riescono a penetrare per pura casualità la maglia di discrezionalità degli operatori delle FF.OO. possono restare sul territorio come richiedenti asilo; la maggior parte di loro rappresenta la popolazione dei centri di contenimento in Italia, coloro che approderanno a qualche protezione temporanea o diventeranno dei diniegati.

Chi viene valutato non passibile di richiesta d’asilo a causa del suo profilo, chi è stato già espulso, chi presenta indici di pericolosità sociale, chi ha presentato una richiesta infondata, chi non vuole chiedere una protezione o si rifiuta di collaborare nell’identificazione viene assegnato al sistema dell’espulsione, il sistema di scarico per il flusso migrante.

Tre strade, tre categorie, tre destini diversi.

Prende il via così l’ultima fase dell’approccio Hotspot che è lo smistamento. Le persone classificate come CAT1 vengono trasferite in appositi centri per poi accedere alle misure di ricollocazione verso gli stati membri disponibili, le CAT2 portate nelle regional Hub (che non sono altro che dei CARA) sul territorio nazionale per poi se la Commissione territoriale si esprimerà positivamente portate all’interno del sistema Sprar, i “migranti economici” senza speranza” non passibili di richiesta d’asilo (CAT3) o chi si rifiuta di collaborare accederanno al mondo dei Cpr o saranno espulsi direttamente dall’Hotspot.

Come accade in tutto il mondo della detenzione amministrativa in Italia, la maggior parte delle persone che transitano all’interno dell’Hotspot e devono essere espulse, non vengono deportate con la forza, ma vengono semplicemente rilasciate con un foglio di via dall’Italia, cioè viene intimato loro di lasciare entro 7-10 giorni il territorio nazionale. Questo di fatto, per evidenti ragioni, non avviene. Ciò che si viene a creare è una continua produzione di persone “clandestine” che non avendo nessuna possibilità futura di regolarizzarsi vagheranno clandestinamente per lo Stivale, ritorneranno poi forse nei Cpr se capiteranno nelle maglie delle forze dell’ordine, ma in linea generale andranno a infoltire le masse di manodopera in nero a basso costo dell’economia nostrana, la cui ricattabilità è cosa ovvia. Come i Cpr, la cui funzione, nonostante le pretese di efficacia messe sul tavolo, è sempre stata quella di deterrente collettivo, gli Hotspot sono anch’essi definibili come fabbriche d’irregolarità, produttori di marginalità sociale. Questo è il nostro secondo appellativo.

Tentando di analizzare in modo più o meno preciso, come visto, le diverse fasi a cui accede obbligatoriamente il migrante, un immagine inizia lentamente a cristallizzarsi davanti ai nostri occhi. L’Hotspot non è solo un campo dove concentrare i migranti appena sbarcati, ma piuttosto si rivela come un meccanismo complesso e variegato che trova nelle azioni del registrare, del categorizzare e dello smistare il suo leit motiv. Quello dell’Hotspot è stato definito dai suoi propugnatori infatti come un approccio, un modus operandi da applicare nei confronti di un gruppo umano. Il suo riferimento teorico più vicino non a caso è quello dello smart border, concetto applicabile ai valichi di frontiera nei confronti del flusso regolare. Guardando alle lunghe procedure descritte poc’anzi viene spontanea la costruzione del terzo appellativo che utilizziamo. l’Hotspot è certamente un metodo, un approccio, come dicono i tecnici dell’UE, ma noi aggiungeremo, a ragione, che più precisamente è un metodo logistico applicato alla gestione dei migranti. Categorizzazione, smistamento e messa a valore appartengono infatti al mondo delle merci, alla logistica che regge il capitalismo mondiale.

Un metodo di lavoro in team

“Che cos’è un Hotspot?” recita il titolo di un paragrafo delle SOP. Esso è, nel suo mettersi in pratica, prima di tutto un “metodo di lavoro in team”. Ad affollare infatti questi luoghi non ci sono solo i gendarmi e gli operatori sopracitati dell’Eurtf. L’Hotspot deve essere il prodotto complesso di una cooperazione integrata tra attori differenti: le agenzie europee e le associazioni umanitarie ad esempio, le Ong e la guardia di finanza, l’UNHCR, Msf, l’IOM, Save The Children, la Croce Rossa e le forze di polizia, Amnesty e i militari. Ognuno ha il suo compito specifico, il suo ruolo. Il risultato deve essere una coabitazione tra concetti e pratiche in apparente antitesi; soccorsi e interrogatori, cure e prelievo delle impronte, protezione e carcerazione, militarismo e umanitarismo.

L’azione repressiva deve andare di pari passo con l’attività dei protagonisti del cosiddetto terzo settore o dei diversi attori delle agenzie dell’Onu come, d’altronde, accade in tutti i campi di contenimento delle democrazie occidentali. Tutti questi enti svolgono diverse attività collaterali e integrative alle normali procedure dell’Hotspot e di fatto, scalpitando, criticando, storcendo il naso a volte, partecipano e collaborano complessivamente al marchingegno. Non è un caso che le associazioni o le Ong che operano all’interno delle strutture siano state autorizzate dal DLCI e ci svolgano le proprie attività nei limiti della seguente clausola: “senza alcun pregiudizio per lo svolgimento delle attività di polizia”.

È l’equilibrio di cui si parlava nell’Agenda, l’approccio integrato che viene propugnato per l’intero sistema delle frontiere. Uno dei suoi scopi è anche presentarsi sotto una parvenza di normalità e umanitarismo, integrando nel sistema le rappresentanze umanitarie e mettendo a tacere, coinvolgendoli, i più critici e preoccupati dei diritti umani, ad esempio attraverso la garanzia di una copertura mediatica30 una tantum da parte di giornalisti e di associazioni; è la logica del dissenso pilotato e della cooptazione che in passato ha funzionato egregiamente per i Cpt e che vale ancora oggi per i Cpr o la Seconda Accoglienza.
Le procedure identificative e di smistamento sono accompagnate quindi, come detto, da attività collaterali di Ong e associazioni. Tuttavia l’Hotspot è anche una struttura e in quanto tale deve essere gestita e mantenuta, poiché genericamente è un “centro per migranti” e perciò deve fornire dei servizi alle persone contenute all’interno: vitto, alloggio, manutenzione degli impianti, fornitura del kit, gestione di un pocket money e tanti altri.
“Dietro le quinte” dell’Hotspot appaiono associazioni e cooperative che lavorano in genere nel sociale, alcuni oramai professionisti della materia, altri che oltre al “mondo dei migranti” si occupano di vari ambiti. Enti arcinoti nell’ambiente poiché hanno gestito o gestiscono tuttora i Cpr, i Cara e i numerosissimi centri Sprar e Cas sparsi sul territorio. La Croce Rossa, le Misericordie, Badia grande, la Coop. sociale Noi e Voi, la Soc. Cooperativa Domus Caritatis, Azione Sociale, la Coop. Vivere sono alcuni dei nomi che garantiscono al sistema Hotspot di funzionare. Caso a parte è rappresentato dall’Hotspot di Taranto dove a gestire la struttura c’è stato, insieme ad un’associazione, il Comune del capoluogo di provincia attraverso il direttore che è niente meno che il capo della Polizia Municipale! Questi attori completano il quadro eterogeneo con cui si ha a che fare, il team citato dai documenti istituzionali.

Un modello ubiquo di gestione

Un lavoro di squadra quindi, ma anche di più e cioè un modello, un frame, una linea operativa. Secondo le SOP esso è infatti una “struttura in un’area designata normalmente, ma non necessariamente in un luogo di sbarco”; questo gioco di parole vuole dire che il metodo Hotspot ( cioè la funzione di identificazione, categorizzazione e smistamento logistico) può avvenire ovunque. In un centro d’accoglienza lontano dal punto di sbarco, oppure addirittura nei locali di una questura ad esempio. In questi luoghi si può mettere in moto il modello così come al momento dell’approdo, con la sua versione discrezionale del foglio-notizie. Così il Cara-Hub di Milano, Bari o Villa Sikania si possono trasformare in Hotspot, così come il porto di Brindisi, la questura di Milano o una porzione dello Zen di Palermo.
Non a caso nelle SOP venne paventata, ed è ora in funzione, l’idea degli Hotspot mobili, in pratica macchinari, tende e funzionari Easo e Frontex che si muovono a secondo del bisogno verso altri luoghi dove sono assenti gli Hotspot in quanto strutture ufficiali.
Un’ulteriore evoluzione di questo approccio è stata proposta nel 2016 dall’ex ministro Alfano che, per risolvere il problema delle fughe dai Centri, mise sul banco l’idea dell’Hotspot galleggiante. Navi cioè preposte al contenimento di migranti dalle quali registrare e smistare il flusso. Esso è un orizzonte di sviluppo della detenzione amministrativa che, benché possa sembrare un po’ azzardato, ha i suoi precedenti nelle legislazioni degli Stati europei e d’altronde non fa che evolvere delle pratiche di identificazione e smistamento già in atto sulle navi di recupero con a bordo funzionari Frontex.

Controllo, carcerazione, deterrenza

Quanto si resta in un Hotspot? La questione pone dei grossi problemi di carattere giuridico, sopratutto perché, come visto, la struttura\metodo ha la capacità di creare di fatto categorie differenti di persone a cui è assegnato un percorso e un destino diversi.
Per le SOP, in linea generale, il periodo di permanenza all’interno dell’Hotspot deve essere “il più breve tempo possibile”. Niente male per un documento che vuole porsi come caposaldo giuridico in materia!
La permanenza deve riferirsi al quadro normativo vigente, ma qual’è la norma a cui adeguarsi? Per chi è stato considerato passibile di richiesta di protezione e può considerarsi in una posizione legale sul territorio si parla di 72 ore ( prorogabili di altre 48 ore se vi sono difficoltà tecniche) e cioè tempo di durata massima per legge del fermo amministrativo e che sarebbe anche il tempo necessario alla registrazione nel database Eurodac. I dati e i racconti a disposizione dipingono una realtà tuttavia ben diversa, soprattutto se consideriamo la differenza tra permanenza ( con la possibilità di allontanarsi) e il trattenimento vero e proprio che avviene prima dell’identificazione ( in questo caso il termine massimo dovrebbe essere di 24 ore).
Benché “liberi” i richiedenti asilo sono sottoposti ad un regime di privazione della libertà, nei limiti delle condizioni che essi stessi accettano in cambio del servizio d’accoglienza. Chi ha già dato i propri dati biometrici, di fatto, può uscire dalla struttura durante il giorno ( portando con se il proprio cartellino identificativo), ma è obbligato a rientrare alla sera, sottoponendosi ad una sorta di regime cautelare in attesa dello spostamento nelle c.d. Hub. In quanto tale l’Hotspot è un campo di contenimento che svolge una funzione di presa e controllo di una parte del flusso migratorio.
Il discorso cambia per chi non è stato ancora identificato, rifiuta il prelievo delle impronte o è destinato, in quanto migrante economico, ad essere espulso; per questi si parla, nella prassi, di un vero e proprio regime detentivo. Le persone appena sbarcate infatti fino a quando non si sottopongono all’identificazione non possono uscire dalla struttura; rimangono detenute e controllate dalle forze dell’ordine, siano esse possibili richiedenti asilo, migranti economici o anche minorenni la cui età non è stata ancora accertata.
L’Hotspot, quindi, è prima di ogni altra cosa una prigione, un nuovo campo di detenzione amministrativa, un ”area chiusa” come esplicitato nella Road map.
Chi arriva è prima di tutto un detenuto, un “trattenuto” se si vuole utilizzare il lessico politicamente corretto della legge, la cui posizione può cambiare solo in cambio della collaborazione con le autorità.

Cosa succede infatti a chi si rifiuta di collaborare? Molti migranti conoscono bene cosa vuole dire lasciare le proprie impronte sul territorio italiano: la perdita della possibilità di fare richiesta altrove, magari in quei paesi del nord del continente dove di fatto si vuole arrivare. L’accordo di Dublino ha di fatto chiuso le porte dell’Europa più ricca a milioni di persone che rimangono ancorate in Italia e in Grecia o che sopratutto affollano le frontiere nel tentativo di poterle attraversare. Molti quindi all’interno dell’Hotspot si oppongono all’identificazione, alterano i propri polpastrelli o resistono in vari modi al prelievo. La questione è di vitale importanza per le istituzioni, pena la perdita dell’efficacia dello strumento Hotspot a disposizione e in generale della necessità del controllo informatico sui migranti. La questione è tuttavia anche estremamente spinosa per via della portata giuridica che ha il prelievo coatto da parte delle forze di polizia. Si può assalire una persona per bloccarle le dita anche se non c’è nessuna ipotesi di reato? Evidentemente, secondo la legge italiana, no. Secondo le forze di polizia e non solo, invece si, come testimoniato dai numerosi casi di violenza nei confronti dei migranti. La materia è stata per molto tempo al centro del dibattito e più volte all’Italia è stato chiesto da Frontex e istituzioni europee, in modo più o meno pressante, di trovare un rimedio. La soluzione è arrivata per mezzo della legge N°46 del 13 aprile 2017 che obbliga coloro che si rifiutano di farsi prelevare le impronte al trasferimento in un Centro per i rimpatri, dove, una volta imprigionati a scopo intimidatorio, può avvenire, al di là delle sue silenziose mura, il prelievo coatto. Una scappatoia furba ed efficace insomma che porta il migrante che si ribella da una struttura detentiva d’eccezione, dove il diritto ancora traballa, ad una oramai consolidata dove l’indicibile può accadere.

La situazione alle frontiere del nord Italia in questi ultimi anni ha fatto si che l’Hotspot assumesse un ulteriore ruolo nel sistema di gestione e controllo dei flussi migratori: ciò che è stato definito senza vergogna dall’ex ministro degli Interni Alfano “un alleggerimento della frontiera”, una decompressione assai fallimentare, tra l’altro, del confine. Le persone migranti intente a radunarsi per attraversare illegalmente la frontiera, in luoghi di confine come Ventimiglia o Como, a seguito di retate della polizia, sono state prese e deportate all’interno dei confini nazionali verso gli Hotspot del sud distanti mille kilometri, in particolare Taranto, con il puro e semplice scopo di allontanamento dal confine. Decine e decine di autobus ricolmi di migranti scortati dalla polizia si sono mossi, nelle estati di proteste alla frontiera, verso la Puglia. Persone già identificate e registrate, richiedenti asilo regolari sul territorio. In rapporto a questa funzione gli Hotspot sono luoghi utilizzati come deterrente per i passaggi illegali della frontiera, a protezione dell’accordo di Dublino.

Conclusioni

Approccio, metodo, lavoro in team, centro per il soccorso questi sono le immagini che ci vengono candidamente fornite dai propugnatori dell’Hotspot. Se dovessimo fermarci superficialmente alle descrizioni e alle analisi dei tecnici e delle istituzioni avremmo un quadro assai distorto della realtà. l’Hotspot è ben altro. È un luogo d’eccezione, un deterrente collettivo, un metodo logistico, una fabbrica di marginalità e ancora un campo di contenimento, di deportazione e, prima di ogni altra cosa, un carcere. Caratteristiche molto diverse da ciò che traspare dai media o dalle dichiarazioni altisonanti che vorrebbero presentarci nient’altro che un banale Centro d’accoglienza, forse un po’ particolare, dove si aiutano e si sfamano i migranti appena salvati.

Malgrado ciò e nonostante i tentativi descrittivi che abbiamo effettuato, rimangono delle forti lacune di conoscenza su ciò che accade quotidianamente all’interno di queste strutture o di quanti altri ruoli l’approccio assolva rispetto ad una parte del flusso migratorio.
È sintomatico percepire quanto la stessa legge italiana ad esempio sia ancora sfornita di regole e norme che abbiano una presa legislativa sulla materia. Ad esempio il tentativo di accomunare l’Hotspot ai campi della Legge Puglia del 1995, attraverso il decreto legge N°13 del 2017 convertito nella legge N°46 del 13 aprile 201745, rende evidente quanto l’astuzia delle autorità molte volte gareggi con la superficialità degli interventi giuridici.
È chiaro che non ci si duole dell’assenza di una legge che faccia presa in modo oggettivo sulla situazione. Se, grazie ad un serio intervento normativo, il trattenimento illegale diventasse legittimo, se si passasse dalle pratiche discrezionali della polizia a regolamenti ferrei, dall’eccezione al diritto, l’Hotspot Approach rimarrebbe sempre ciò che è, e, detto fuori dai denti, non è niente di cui rallegrarsi. L’ Hotspot è l’ennesimo scempio partorito dalla storia dell’Europa e in riferimento a ciò non fa che accodarsi alla lunga lista delle tipologie di campi di concentramento che negli anni sono sorti, con motivazioni diverse (ma poi non così tanto diverse), nel continente. L’Hotspot è semplicemente qualcosa di cui non si può e non si deve immaginare un’altra forma. Esso è solo un ennesimo e sempre più complesso dispositivo di disciplinamento per la popolazione, un altro banale muro contenitivo, una nuova frontiera in Europa.