Dietro l’angolo pt.5 – Il mondo inabitabile

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

Le epidemie convivono da sempre con la storia dell’umanità, sono legate indissolubilmente alle attività umane e sono apparse più volte come sintomo dei profondi cambiamenti sociali della specie umana.

Se dovessimo individuare in questo fenomeno una certa sintomatologia del nostro presente, che in qualche modo segna la discontinuità e la continuità con il nostro passato prossimo, e con un incerto futuro, potrebbe essere quella dell’impossibilità di un altrove.

Ciò che accadeva più frequentemente durante le epidemie storiche era la fuga repentina, di chi se lo poteva permettere, dai focolai di contagio. In questo caso, invece, la diffusione globale dell’infezione si è prodotta in un tempo brevissimo, al punto che anche gli Stati che ostentavano sicumera, e si pensavano in qualche modo al riparo, si sono dovuti nella quasi interezza sottomettere alle necessità proprie di una malattia che intasa gli ospedali, si appiccica ai luoghi chiusi ed affollati e di cui si conosce ancora troppo poco.

Al netto delle caratteristiche proprie di un virus piuttosto che di un altro, la velocità e l’ubiquità della diffusione è sicuramente un segno dei nostri tempi. Una velocità figlia delle infrastrutture dei trasporti mondiali, della gestione centripeta dei servizi, della concentrazione urbana, dell’industria turistica e della colonizzazione delle campagne.

Continuità e discontinuità, dicevamo, certamente gli aspetti sopra descritti del capitalismo attuale erano tra quelli più studiati e analizzati e, d’altra parte, l’aria soffocante di un mondo ultraconnesso, in cui il concetto di responsabilità diventava troppo vago – a causa dell’impossibilità di prevedere l’esito delle proprie azioni in questa catena inconoscibile di relazioni – s’era già fatta stantia in parecchie parti del mondo.

Insomma era un po’ sulla bocca di tutti l’idea che in questa interconnessione frenetica di relazioni prima o poi si sarebbe prodotto un patatrac.

All’inizio di questo processo, che in molti chiamano globalizzazione, vi era un preciso pensiero della classe dominante da loro definito come esternalizzazione, un mantra che pare oramai antico, l’idea cioè di scaricare altrove i costi sociali, sanitari e ambientali della produzione e degli imperativi produttivi del capitalismo avanzato.

Esternalizzazione che per molto tempo ha funzionato proprio come una forma di distanziamento sociale rispetto alle conseguenze del progresso tecnologico e industriale, un progresso che via via impoveriva di risorse i luoghi in cui si insediava, costringeva gli abitanti a migrare e rendeva man mano l’ambiente inabitabile.

La convinzione ultima dei dominanti su questo aspetto era, e per certi aspetti è, quella che non sarebbero mai stati loro a pagarne il prezzo.

L’irreversibilità di parecchi processi, dalla produzione nucleare al cambiamento climatico, stavano già facendo arrivare alcuni nodi al pettine.

Esternalizzare non basta più, il mondo pervaso, oramai, dal modello capitalista di sviluppo porta ovunque le sue nocività.

II

Per quel poco che si conosce di questo virus, una delle descrizioni che abbiamo trovato più pertinenti è quella rilasciata da 13 medici dell’ospedale Papa giovanni XXIII di Bergamo, il Covid-19 è :“L’Ebola dei ricchi”(…)“richiede uno sforzo coordinato e transnazionale. Non è particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e centralizzata, più si diffonde il virus. La catastrofe che sta travolgendo la ricca Lombardia potrebbe verificarsi ovunque”

Già da tempo parecchi ecologisti e nemici del progresso ci avevano avvisato che l’urbanizzazione estrema, l’estrazione predatoria delle risorse e la produttività ad ogni costo stavano compromettendo fortemente le capacità riproduttive di determinati ambienti e popolazioni, una compromissione che spesso si autoalimentava generando processi a catena.

Era almeno da un decennio che in Cina la minaccia di una pandemia era percepito come un problema verosimile: ciò in virtù del repentino cambio di vita di milioni di persone, dell’intensificarsi a dismisura dell’allevamento intensivo e della mancanza di spazi intermedi tra la profonda campagna e la città che rendono sempre più fragili le barriere immunitarie tra la popolazione umana e l’ambiente in cui vivono.

I capitalisti già sapevano di dover fare i conti con questi problemi in un futuro non troppo remoto, e probabilmente pensavano di poter circoscriverne i danni.

Ma l’intelligenza biologica di ogni nuova forma di vita, compresi i virus, cerca costantemente la via più veloce e sicura per riprodursi.

La geografia della diffusione ha così seguito le vie principali degli scambi mondiali e nazionali andando a insediarsi nei poli produttivi più fortemente legati alla complessa catena di messa a valore planetaria.

L’”Ebola dei ricchi”, definizione calzante di una consapevolezza che si è imposta gradualmente nei principali Stati come minaccia alla riproduzione dei rapporti capitalistici.

E’ questo sicuramente un altro aspetto, se non proprio inedito, almeno degno di nota.

Il blocco della vita sociale e di parte delle attività produttive è stata una decisione presa certamente a malincuore dai governanti, i cui costi e le cui conseguenze sono ancora tutti da quantificare, una decisione che, per quanto abbiano cercato di posticipare, si è resa indifferibile davanti alla possibilità che il sistema sanitario collassasse, scalfendo inoltre quel poco di fiducia che i governati hanno ancora nelle istituzioni.

Da un po’ di tempo a questa parte, la vita delle popolazioni urbane stava iniziando a subire limitazioni; le mascherine in molti centri urbani asiatici erano già un armamentario necessario per uscire di casa a causa dello smog; l’anno scorso, per esempio, Nuova Delhi ha subito un lockdown del traffico aereo e di quello automobilistico, le autorità invitavano la popolazione a non uscire di casa perché l’aria era velenosa.

Il produttivismo capitalista dava segni di cedimento ben prima di questa epidemia e oramai non solo gli ecologisti sapevano che il livello dei ritmi di produzione e di scambi avevano raggiunto il limite rischiando di far collassare il sistema.

Un problema sicuramente pieno di sfaccettature e complesso quello di un sistema giunto ad un livello di saturazione tale che necessita, per sopravvivere, di essere bloccato.

In prima battuta si può affermare che un problema sistemico non sia per forza un problema avvertito da tutti gli attori, per esempio a riguardo delle emissioni di gas serra, la precaria soluzione è quella di una competizione molto feroce tra gli stati e le grandi multinazionali sulle quote di emissione.

Da questa piccola considerazione si possono intravedere alcuni scenari per il nostro presente pandemico rispetto a improbabili parametri comuni sui futuri blocchi della produzione e alla corsa forsennata per accaparrarsi soluzioni mediche all’avanguardia per competere nei mercati internazionali.La salvaguardia della salute della popolazione produttiva pare ora diventare un parametro necessario alla conservazione del proprio ruolo all’interno del sistema, cessando di essere solo un’istanza di magnati illuminati e green.

A scanso di equivoci, non si vuole qui affermare che si andrà imponendo una versione paternalistica del capitalismo attuale, dove i padroni si prodigheranno a far crescere il benessere nella popolazione oppure che gli Stati riformeranno su parametri universalistici i sistemi sanitari nazionali. Piuttosto si vuole rimarcare l’idea che la salute e l’ambiente necessariamente diventeranno centrali nel decidere le sorti della concorrenza intercapitalistica e, quindi, si imporranno come parole d’ordine a cui a tutti verrà ordinato di sottostare.

III

Se la velocità e l’ubiquità sono ciò che hanno reso questo fenomeno una brutta gatta da pelare per gli Stati, d’altra parte ciò che affligge soprattutto gli sfruttati che occupano il mondo è il suo carattere di massa. Milioni di persone hanno esperito, e stanno facendo esperienza, di cosa significhi vivere in un ambiente antropico ostile alla vita umana, un tipo di esperienza che fino a poco tempo fa era circoscritta ad ambiti di realtà gravemente compromessi.

La possibilità di questa esperienza comune potrebbe dare una materialità a tutta una serie di discorsi prima citati.

Una materialità che è prima di tutto biologica ma che potrebbe sostanziarsi in un atteggiamento di classe.

Non c’è nessun automatismo che lo garantisca, come gli esempi che ci arrivano dai tanti luoghi contaminati di questo mondo ci insegnano. Di certo per molti sfruttati l’obiettivo di riempirsi la pancia oggi potrebbe rendere un po’ più dolce la consapevolezza di produrre la propria morte dopodomani. Ma davanti a un’esperienza di massa potrebbero saltare tutti quegli escamotage individuali per indorarsi la pillola: e l’imporsi dell’idea che non c’è una via d’uscita.

Perchè, in fin dei conti, l’esposizione al rischio sta già svelando l’arcano del cosiddetto distanziamento sociale che non è altro che una rimodulazione della separazione tra le classi.

Se ne sono accorti bene i detenuti di tutto il mondo e i lavoratori costretti a continuare produrre, se ne accorgeranno a breve anche tutti gli altri che saranno costretti a tornare a lavorare e quelli che dovranno affrontare le conseguenze della nuova normalità.

E se la situazione non muta in poco tempo, i ricchi troveranno sicuramente un modo per allontanarsi dalle conseguenze del mondo nocivo su cui basano i loro privilegi.

E’ necessario comprendere come a livello ideologico sia veramente pericoloso l’imporsi di discorsi dall’impronta biologista sull’esposizione e l’allocazione del rischio infettivo. Quei discorsi che tracciano delle linee su parametri biologici, come l’età, per dare o togliere libertà o restrizioni, oppure tutti quelli che lamentano l’eccessivo sovraffollamento o la carenza di norme igieniche come un dato naturale.

Questi discorsi ci spogliano di qualsiasi capacità etica di fronte al problema, poiché riconoscono come sacrificabili alcuni individui. In questo modo tracciano delle separazioni tra coloro che potrebbero almeno desiderare, se non provare, a rovesciare questa società.

Inoltre, in questo modo, scompare la sola e gracile idea emancipatrice di questa malattia: il fatto che l’essere umano riconosca di condividere il medesimo ambiente e che se qualcuno potrà permettersi di salvarsi, per tutti gli altri, ogni giorno di più, anche quando l’epidemia sarà finita, non resterà che respirare la medesima aria.

Anche in questo caso si tratta di intravedere un ambito di intervento, un possibile orizzonte comune e non certo di una formula magica. Difatti potrebbero essere numerosissimi gli esempi di come questa situazione produca anche processi opposti di isolamento, diffidenza reciproca oppure di come in molti permanga l’illusione che questi sacrifici servano a riottenere una vita nuovamente all’altezza dei propri standard di comfort e consumi.

D’altra parte, però, non si tratta di una semplice alternativa tra libertà e paura quanto piuttosto tra libertà di esporsi o meno a un rischio e trovarsi costretti a doverlo fare per sopravvivere.

Non crediamo che svilire le altrui fobie serva a molto in questa situazione quanto piuttosto sarebbe più utile smontare la percezione del rischio che ci viene propinata, totalmente schiacciata sulle responsabilità individuali e sulla paura del corpo dell’altro. Anche perché i tempi che verranno, ci insegneranno che ci sono cose più terribili di cui avere paura.

IV

La versione ufficiale di come affrontare queste problematiche è farcita da una buona dose d’ottimismo.

Un ottimismo di certo propagandato, ma anche condiviso in buona fede da una ampia parte degli sfruttati.

Pare ci sia ancora tempo, tempo per convertire la produzione, per mitigare le conseguenze dell’inquinamento, per trovare cure a chi ne è vittima.

E insomma, proprio perché c’è tempo, l’innovazione tecnologica spinta nella giusta direzione risolverà i problemi mantenendo gli adeguati livelli di produzione, consumo e profitto.

Del resto anche ora in questa pandemia ci somministrano le stesse ricette: attraverso la quarantena cercano di guadagnare il tempo necessario a sviluppare le tecnologie adeguate, non certo per mettere in sicurezza la popolazione, ma per far ripartire il sistema.

Nel grande palcoscenico attuale le posizioni sul cambiamento climatico e sulla pandemia sono quasi simmetriche: da una parte ci sono i negazionisti – ultimamente un po’ in difficoltà poiché si trovano ad affrontare, nello stesso tempo, il crollo del prezzo del petrolio e a dover, a malincuore, bloccare la produzione industriale a causa dell’emergenza sanitaria – dall’altra i cosiddetti sostenitori del Green New Deal che a tutt’oggi sbandierano la possibilità alquanto fantasiosa secondo cui il salvataggio del pianeta e dell’umanità potrebbero convivere benissimo con la ripresa economica capitalista.

Sono effettivamente questi ultimi che da anni cercano di convincerci dell’alto valore dei buoni comportamenti individuali, spacciandoci l’apertura di nuove fette di mercato (dalle borracce, alle auto elettriche passando per le mascherine e il tracciamento dei contatti), come l’unica soluzione a dei problemi sistemici che loro stessi hanno generato.

Il problema non è soltanto quello del recupero delle istanze radicali.

Da scalfire, davanti a questa pandemia, è la speranza che il peggio possa essere posticipato, perché è una speranza che ci toglie il tempo di agire.

Non si daranno soluzioni morbide davanti alle emergenze e, come si vede bene di questi tempi, non c’è, davanti alla paura di morire, nessuna rimostranza che tenga.

La cosiddetta transizione ecologica non sarà di certo un passaggio felice e si manifesterà sempre più come un passaggio necessario alla conservazione stessa dell’apparato produttivo.

Da una parte c’è la portentosa capacità di convincimento di misure che vengono adottate per la sopravvivenza, aventi quindi carattere di necessità, che investono gli Stati di un enorme potere materiale e simbolico – di cui questa crisi sanitaria ci ha dato un buon esempio -; dall’altra ci sono le istanze degli ultimi su cui verranno sempre di più scaricate le conseguenze di questo mondo marcio, ultimi che si troveranno sempre di più a scegliere tra la mera sopravvivenza dettata da un ambiente antropico ostile e le condizioni possibili per vivere una vita che valga la pena di essere vissuta.

Da tempo si sapeva che l’inabitabilità del pianeta era uno degli scenari più probabili nel quale ci saremmo trovati ben presto, quest’emergenza ne sta dando un assaggio a tutti.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

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