Un mese a Torino

Un mese intenso, questo gennaio torinese appena passato. Ve lo raccontiamo solo ora in due parole perché, coi tempi che corrono, non riusciamo sempre ad esser celeri nel tenervi aggiornati.

Intanto, Gaza. Nel giro di poco più di una settimana, quando ancora i bombardamenti si susseguivano sopra alla Striscia, tre cortei hanno percorso la città. Cortei partecipati e rabbiosi, energici come raramente se ne vedono in città. Tutte partite da Porta Palazzo – per due volte spezzoni si sono formati proprio in piazza, o all’angolo di via Cottolengo – queste manifestazioni hanno mobilitato, dopo cinque anni di silenzio, migliaia di immigrati arabi. Ma questa volta niente imam in testa, né racket religiosi a dirigere le danze: fianco a fianco, ragazzi di strada e massaie, a contendersi slogan e microfono. E chi tra gli organizzatori italiani era abituato a trattare con preti e capetti di quartiere per negoziare egemonie mediatiche e di piazza ha avuto le sue belle difficoltà a controllare la situazione.
Cortei con tutto in mezzo, dai discorsi a sfondo tremendamente religioso ai ragionamenti sovversivi. Cortei che, se non sono riusciti a fermare la mano assassina dell’esercito dello Stato di Israele, hanno fatto intravedere alcune dinamiche delle lotte che nel prossimo futuro uniranno – lo speriamo! – italiani e stranieri dentro al tessuto urbano. Dinamiche contraddittorie, senza dubbio, ma sulle quali siamo obbligati a riflettere perché solo se quelle lotte saranno comuni nei fatti, e non tanto nelle dichiarazioni, potranno disinnescare i discorsi identitari e, con questi, quelli religiosi. In questo senso, gli accenni di scontro tra la gente di strada – che nei cortei portava la rabbia per le proprie condizioni di vita e non solo quella per i bombardamenti a Gaza – e i capetti della borghesia immigrata tutti impegnati a mantenere la protesta sul piano della politica estera, sono stati istruttivi. Storie di schiaffoni in strada, niente di piu’: ma anche di questo bisogna saper fare teoria. Per il resto sono stati lanci di uova e discorsi commoventi, spintoni con la polizia e scritte sui muri fatte con i vicini di casa. Un altro corteo, sottotono e innevato, e la fine dei bombardamenti hanno sepolto questo breve movimento torinese. Ma rapporti, esperienze ed affetti sono rimasti – insieme a molte robe sulle quali ragionare.

Due parole adesso sul mercato abusivo di via Cottolengo, del quale tanto vi abbiamo parlato nei mesi passati. I portavoce dei Comitati, spontaneamente razzisti e bugiardi, hanno cantato vittoria, ora che, anche di domenica, la via se ne rimane deserta e pulitina: il comune, addirittura, ci ha dipinto per terra le strisce blu dei parcheggi a pagamento, quasi a mimare una strada del centro. Quello che nessuno dice ad alta voce è che il vecchio “mercato abusivo di via Cottolengo”, dopo due mesi di resistenza paziente e determinata, è oramai diventato il “mercato abusivo di piazza della Repubblica” – che è un bel miglioramento. Molto più grande di prima, più vario e più sfacciatamente abusivo, circonda con le sue bancarelle una metà abbondante dell’orrido Palafucsas. Solo una volta, in questo mese, alpini e poliziotti hanno provato una mossa di disturbo. Arrivati in pattuglione, hanno intimato agli abusivi di andarsene – ma nessuno si è mosso. Poi hanno chiesto qualche documento in giro – e nessuno gliel’ha dato, neanche la gente in regola. E così se se ne sono dovuti andare, e con le pive nel sacco.
Insomma, se prima vi invitavamo a passar di lì la domenica per lottare, e assieme, ora vi invitiamo per puro piacere: il mercato è veramente un bel posto dove incontrarsi e dove conoscer gente, soprattutto nelle domeniche di sole. E, perché no, per partecipare ad una storia che nessuno conosce, ma che intreccia le storie di svariate centinaia di persone.

Un ultimo elemento, ora, per dirvi di questo mese, è la lotta dei profughi che occupano l’ex-clinica San Paolo di corso Peschiera e l’ex-comando dei Vigili di via Bologna. Proprio nella settimana della “evasione di gruppo” dal Cpa di Lampedusa e delle cariche di Massa, uno dei molti presidi organizzati sotto al Municipio dai profughi torinesi e dal Comitato che li sostiene è finito in cariche della polizia proprio sul portone della prefettura in piazza Castello. Là, molti dei presenti hanno risposto all’attacco dei questurini con la dignità di chi non ha nessuna intenzione di farsi prendere a bastonate e agisce di conseguenza. I giornali hanno parlato di panchine divelte, sampietrini tirati e di un cantiere saccheggiato: insomma, di gente che resiste. E questo dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi e a tutti quelli che – insieme a noi – hanno nella memoria degli ultimi anni torinesi solo gente che scappa, con una compostezza da galline, al primo accenno di carica.
Voci di movimento, poi, ci raccontano di numerosi blocchi stradali nella zona di Porta Palazzo proprio nel momento in cui i celerini riuscivano ad allontanare – a forza di lacrimogeni – profughi e solidali da piazza Castello. E anche questa è una buona indicazione sulla quale i più avvertiti saranno costretti a sviluppare qualche riflessione di tipo, per lo meno, “tattico”: cosa fare quando la polizia attacca e si è troppo lontani per arrivare per tempo nel campo da gioco? La scelta, spesse volte, è tra un “io c’ero” abbastanza simbolico e affannato e un appoggio pratico che invece potrebbe pesare veramente sulla battaglia in corso – bloccando pezzi di città e costringendo, se ce n’è la determinazione, i manganellatori a disperdesi su più fronti. Convinti come siamo che si stia aprendo un’epoca, bene o male, di scontro aperto e diffuso, dovremmo indagarli, questi temi, per non far troppe brutte figure nel prossimo futuro.
Forse non ci crederà nessuno, ma alle nostre orecchie di scafati navigatori di bassifondi i segnali di apprezzamento in strada per tutta questa vicenda sono arrivati non tanto perché della lotta dei profughi si comprendano temi e motivazioni – è triste dirlo ma a molti, pur poveri e clandestini, questi paiono ancora cazzi loro – ma perché finalmente qualcuno le ha date alle guardie. C’è sempre un bello scarto tra ciò che è giusto, che è vero, e quello che viene realmente percepito dentro alla città e spesso i percorsi del reciproco riconoscimento sembrano strampalati, o tortuosi. Insomma: quale sarà la porta attraverso la quale questa lotta specifica dei profughi possa diventare una lotta più concretamente universale, al di là delle dichiarazioni di buona volontà che ci sono state sin dall’inizio, non lo sappiamo bene. Ma siamo sicuri che questa porta ci sia, da qualche parte, e che prima o poi qualcuno la aprirà.