Bruciare le frontiere ogni giorno, un contributo torinese
LA VALORIZZAZIONE DELL’ESCLUSIONE E QUELLA DELL’INCLUSIONE
Un contributo torinese
Non è facile cercare di dare una lettura semplice alla gestione europea dei flussi migratori così come si è imposta negli ultimi due anni. I motivi sono molteplici e riguardano soprattutto la provvisorietà delle misure che i singoli Stati hanno adottato per far fronte alle “emergenze” e la differenza stessa di questi provvedimenti, strettamente collegati al contesto territoriale nazionale, cioè al suo posizionamento geografico rispetto ai corridoi di migrazione e al perimetro dell’Eurozona, agli interessi economici interni e a quelli d’investimento nei Paesi stessi da cui migliaia di uomini e donne son partiti. A ragion di questo, avere una visione troppo omogenea di ciò che muove i membri della UE non restituirebbe una visione a fuoco, quanto piuttosto un’idea forfettaria in cui la realtà di competitors economici risulterebbe troppo accontonata rispetto a una natura prettamente e classicamente politica di Stato-nazione.
Un punto d’attacco analitico alla questione è quello di considerare le strategie comuni, così come sono emerse, di messa a profitto dei flussi migratori tenendo tuttavia bene a mente un certo gap d’intenzionalità tra il potere “centrale” di Bruxelles e quello degli specifici governi nazionali. Dacché, in aggiunta, questi ultimi sono inseriti in una graduatoria decisionale data dalla forza economica avranno anche esigenze diverse nella gestione demografica del vecchio continente, e di conseguenza nell’afflusso quantitativo e qualitativo di manodopera immigrata. Del resto è scontato ribadire che ai poteri neoliberali contemporanei s’accompagna sempre una lente che vede le persone come capitale umano, passibile di valorizzazione su più scale, anche quella dell’esclusione. Cercare di capire il significato di sfruttamento insito in questa prospettiva d’interesse, potrebbe esser d’aiuto anche a trovare un punto d’attacco pratico, di lotta, che permetta di trascendere la distinzione tra immigrati e autoctoni per concentrarsi sulle condizioni di sfruttamento che li accomunano.
Ma questo sarebbe già un buon punto in un percorso rivoluzionario. Per ora non si può far a meno di partire dalle specificità, e in questo caso dall’organizzazione e dalle conseguenze del governo della migrazione povera, a partire dall’inserimento integrativo nel tessuto produttivo nazionale, passando per i dispositivi di filtraggio e smistamento (dalle strutture “logistiche”, come i neonati Hotspot, alla frontiera), fino ad arrivare all’espulsione vera e propria nei centri della Detenzione Amministrativa.
D’altra parte gli annunci di costruzione di muri e riproposizione del ruolo della frontiera chiusa nello spazio intra-UE non possono certo esser presi sottogamba. Eppure gli intenti sull’erezione di recinzioni lungo la frontiera italo-austriaca, o la chiusura effettiva di quella tra Svezia e Danimarca e di quella tra Danimarca e Germania, risultano in base ai processi stabiliti dagli ultimi accordi internazionali una soluzione emergenziale data dall’interesse non comune dei Paesi europei. Le soluzioni emergenziali sono certo esse stesse parte di processi strutturali, ma è doveroso riuscire a inserirle in una prospettiva più ampia di governo delle migrazioni verso l’Europa.
Proprio per questo è interessante riportare quali direttive in materia di gestione dei flussi migratori stanno vedendo attuazione. Su questa scia, l’ultimo step è quello presentato il mese scorso da Matteo Renzi ai presidenti del Consiglio e della Commissione UE: un piano per limitare i flussi attraverso una protezione delle frontiere esterne dell’Europa. L’obiettivo non è sono quello di stabilire un limes per impedire gli ingenti arrivi previsti per il prossimo biennio, ma anche quello fondamentale, e assolutamente complementare, di migliorare la tenuta e la “libera circolazione” di Schengen. Il Migration Compact di Renzi è stato ben accolto a Bruxelles, anche perché è il linea con le decisioni prese il novembre scorso a La Valletta tra i leader europei e quelli africani, per «una responsabilità condivisa dei paesi di origine, di transito e di destinazione». Il processo di esternalizzazione della frontiera europea non è tuttavia nato negli ultimi anni ma ha assunto rilevanza nel 2006 con gli accordi di Rabat. Nella capitale amministrativa del Marocco, i governi di 55 paesi europei e africani (Africa settentrionale, occidentale e centrale), insieme alla Commissione europea e alla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale si sono incontrati per rafforzare la cooperazione in materia di migrazione. L’obiettivo principale di questa cooperazione? Consentire lo scambio di informazioni tra le autorità al fine di prevenire la migrazione irregolare, la criminalità transfrontaliera e la mobilità dei cosiddetti foreign fighters. Questi tre punti, spesso e volentieri, vengono presentati come indistinti in un generale discorso sulla pericolosità migratoria, quello stesso attraverso cui trovano legittimazione gli interventi militari sulle coste dall’altro lato del Mediterraneo. La cornice interpretativa di questo discorso si sostanzia generalmente in un’esigenza di protezione preventiva, “la società europea militarmente si deve difendere”.
Le linee della guerra trovano nuove sfaccettature con le direttive stabilite a un altro incontro, quello avvenuto nel 2014 a Khartoum. Nella città sudanese gli Stati membri dell’UE insieme a 9 paesi del Corno d’Africa e a paesi di transito hanno concordato, con la solita legittimazione del contrasto alla tratta di esseri umani e alla lotta al terrorismo, una serie d’investimenti europei in loco con l’intento di prevenire gli spostamenti delle persone. In pratica si tratta per l’Europa di investire, di rafforzare pezzi del proprio mercato nei paesi di origine e transito dei migranti, agevolandone la crescita economica e avendo manodopera certa da radicare.
Oltre a questo livello più prettamente produttivo e indiretto della frontiera esternalizzata, vi è quello del controllo diretto sui flussi. Il Processo di Khartoum, nel solco di quello di Rabat, rafforza la tendenza a trasferire sui paesi terzi, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee di fronte a un crescente afflusso di migranti; aumenta i controlli anche attraverso l’agenzia FRONTEX, realizzando operazioni di respingimento verso i paesi di origine; cristallizza la cooperazione nella gestione dell’ispezione dei territori attraversati da corridoi migratori e prevede finanziamenti ai campi e alle strutture che selezionino chi può avere una possibilità d’accesso all’Europa. Questi ultimi sono quegli stessi posti concentrazionari da cui i migranti provano a scappare per le condizioni abominevoli a cui sono costretti. Le prigioni per migranti della Libia, il mercato di esseri umani in Turchia e il muro di contenimento al confine siriano, sono in questo senso solo la punta dell’iceberg.
Questi accordi multilaterali prendono in esame anche un agire non preventivo ma successivo alla deportazione dall’Europa ai Paesi d’origine. Il rimpatrio e la riammissione efficaci di coloro che non necessitano di protezione rappresentano una priorità fondamentale per lorsignori tanto che l’UE ha un piano di sostegno alla reintegrazione fatto d’investimenti per il potenziamento dei Paesi d’origine.
Quanto tutto ciò sia effettivamente corrispondente al vero non è dato sapere. Ciò che invece qui da queste parti sta accadendo, è che ci sono dichiarazioni a destra e a manca di rafforzamento del sistema dei respingimenti.
Difatti è recente la notizia che il governo italiano ha in agenda il rafforzamento della macchina delle espulsioni. Dal Viminale Mario Morcone tuona:
“Abbiamo sottoscritto l’impegno con l’Europa ad avere la disponibilità di 1500 posti nei CIE e lo rispetteremo. È vero che attualmente ci sono pochi posti nei CIE, anche perché queste strutture sono costantemente devastate: chi finisce lì è la gente peggiore. Noi li ricostruiamo e loro ce li incendiano. È come un circo con le gabbie dei leoni. Qualcuno che li ha visitati ha detto che preferirebbe stare a San Vittore piuttosto, ma rispetteremo l’impegno con Bruxelles”.
La valorizzazione dell’inclusione
Oltre il fattore della limitazione esterna e dell’esclusione delle eccedenze attraverso i respingimenti, il significato dell’integrazione nelle politiche sulla migrazione per l’economia di Schengen è altrattanto rilevante. In soldoni si tratta di selezionare nella maniera più accurata possibile l’iniezione di mano d’opera migrante all’interno del sistema produttivo europeo. Quello che implicano i lavori della Commissione Europea sulla gestione interna è che per salvaguardare la libera circolazione delle merci e la competitività europea nel mercato mondiale è necessario effettuare una più stringente selezione dei migranti in base alle necessità di inserimento produttivo. D’altronde in Paesi come Australia e Gran Bretagna già è previsto un percorso di concessione dei visti-lavoro a “punti” in base alla qualificazione di studio e all’esperienza lavorativa precedente.
In Italia – dicono – ci sono invece troppi clandestini. Il sistema di espulsione non è abbastanza efficiente per coloro i quali, squalificati o dediti a procurarsi da vivere illegalmente, rappresentano un costo troppo elevato in termini di servizi sociali erogati senza contributi e gestione giuridica dei fenomeni di disadattamento e criminalità.
Dall’altra parte, invece, una percentuale più alta di immigrati accertati come qualificati porterebbe un maggior apporto qualitativo a più livelli, in primis quello della maggior pervasività degli investimenti europei nei Paesi d’origine degli immigrati: dall’Egitto alla Libia, il piatto è conteso e non solo tra cugini europei.
La soluzione per lorsignori sta dunque in un miglior apparato di selezione. E non che nonostante i proclami sulla valorizzazione delle alte competenze, non sia a loro funzionale una massa di lavoratori costretti ad avere poche pretese. Quel che dicono è che i “serbatoi di manodopera” servono e hanno già un ruolo essenziale nella crescita economica; tuttavia una certa eccedenza, da funzionale a una tenuta dei salari diretti al ribasso, o in certi casi persin inesistente, non deve diventare un surplus tale da non poter essere gestito.
I migranti non sono ritenuti tutti uguali, ça va sans dire. Infatti nell’ultimo anno è entrata a far parte del linguaggio diffuso la categorizzazione binaria tra “profughi di guerra”, con la possibilità di permanere nel territorio europeo attraverso la richiesta di protezione internazionale, e “migranti economici”, costretti al ricatto del permesso di soggiorno. Già questa prima differenziazione fa una prima selezione giuridica che permette da un lato di considerare indesiderabili e clandestini coloro che vengono da Paesi per cui non è prevista la protezione internazionale, e quindi nella maggior parte dei casi passibili d’espulsione; dall’altro di sfruttare al meglio il tempo di permanenza dei richiedenti asilo nei territori nazionali europei.
È quel che ha formalizzato la cancelliera tedesca in una legge che può esser considerata esemplare. Con il plauso internazionale di media ed economisti, a differenza dell’opinione negativa espressa sui muri minacciati dall’Austria, a metà aprile il governo Merkel ha approvato il “pacchetto integrazione”: degli 800.000 arrivi di migranti nel prossimo anno, oltre la metà non saranno accolti; per tutti gli altri, per lo più rifugiati, non si prospetta però un destino più roseo. Sotto il motto “foerdern und fordern” (tradotto: incentivare e pretendere), la legge infatti stabilisce lo sfruttamento forzato con la creazione di 100.000 posti di lavoro quasi gratuiti, in barba alla legge tedesca sul salario orario minimo di 8,50 euro. “Lavori da un euro” li hanno chiamati beffardamente durante la discussione in Parlamento. Lo stesso provvedimento prevede l’impossibilità di accedere al canonico mercato del lavoro se non tramite l’apprendistato. L’obbligo è quello di sottostare a quest’occupazione, pena il decadimento della tutela internazionale. Al lato produttivo s’accompagna uno più normativo, funzionale al sistema di controllo e alle leggi sull’antiterrorismo, che stabilisce che sia lo Stato a decidere dover far risiedere senza possibilità di spostamento gli immigrati e che ivi debbano seguire corsi di lingua e cultura tedesca.
I provvedimenti tedeschi sono abbastanza palesi da offrirci una buona lente attraverso la quale vedere anche quello che succede più vicino. In Italia l’inserimento nei cicli di sfruttamento tramite le associazioni e le cooperative che si occupano di Seconda Accoglienza è sempre più diffuso, soprattutto tramite il sistema delle borse lavoro o dei tirocini. Ma non solo. Nel capoluogo piemontese ventisette rifugiati hanno aderito al progetto di messa a lavoro “volontario” e gratuito nato dall’intesa tra Comune e Amiat, l’azienda per lo smaltimento dei rifiuti. Con tanto di pettorina con su scritto “Grazie Torino” ripuliscono le strade e il sindaco Fassino la spaccia per una forma di restituzione alla città rispetto all’accoglienza ricevuta.
Tuttavia se è palese il lato dello sfruttamento della manodopera ricattabile in tutti questi progettini sempre più numerosi e diffusi, benché per ora non si sia una legislazione regolamentare nazionale come in Germania, lo è meno quello della selezione e soggettivazione all’empowerment individuale operata all’interno dei processi integrativi della Seconda Accoglienza. Se gli Hotspot rappresentano il punto logistico di smistamento giuridico, le strutture che si occupano di accoglienza integrata, in teoria, sono quelle atte al bilancio delle competenze dei singoli e di selezione economica dei più adeguati al mercato occupazionale locale. Che questo processo sia poi di fatto farraginoso rispetto agli scopi non gli toglie gravità.
Il contenimento nelle strutture della Seconda Accoglienza
I luoghi della Seconda Accoglienza, lo SPRAR, i CARA e i CAS, presentati dalle istituzioni come i luoghi dell’integrazione e dell’inserimento dell’immigrato, assolvono a funzioni strutturali nel controllo e nella gestione di una parte del flusso migratorio e nella sua messa a valore in senso economico.
È necessario, tuttavia, fare delle opportune differenze tra le diverse strutture della Seconda Accoglienza, in modo da poterne cogliere sia le particolarità che le differenti criticità.
I CARA sono centri enormi, 13 sul territorio italiano, la cui sicurezza interna è garantita da militari e forze dell’ordine, spesso in strutture che un tempo erano CIE. Il loro ruolo è più chiaro se si considera che al loro interno sono presenti le unità per i rilievi dattiloscopici.
I CAS (Centro d’Accoglienza Straordinaria), che rappresentano la modalità d’accoglienza più in uso in Italia, sono un insieme di centri, piccoli o grandi, sparsi per il territorio italiano. Questi sono caratterizzati dal criterio dell’emergenzialità sia per la scelta della struttura che per l’assegnazione della gestione all’ente.
Lo SPRAR, invece, acronimo che sta per sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, detto anche sistema dell’accoglienza diffusa, è un insieme di progetti integrativi per l’immigrato, volti al suo inserimento sociale ed economico all’interno della società italiana. Tale sistema utilizza come luoghi per l’accoglienza strutture fisiche delle più diverse, da appartamenti a fabbricati fino a caserme o alberghi.
Le cooperative, i consorzi o le aziende che lavorano all’interno di queste strutture sono svariati, alcune specializzati nel controllo dell’immigrazione e con un’esperienza ormai assodata nella gestione di numeri considerevoli di immigrati concentrati in una medesimo posto, altre, invece, sono piccole o grandi associazioni, nate e cresciute nel contesto dell’assistenza e dei servizi alla persona. Inoltre, molti di questi enti sono i medesimi che hanno gestito o gestiscono tuttora i CIE e che negli anni sono diventati professionisti del settore. Di fatto, non è azzardato considerarli come strutture semi-detentive in cui gli immigrati vivono senza la possibilità di poter gestire autonomamente la propria esistenza. Un regolamento interno, orari di sveglia e di rientro notturno, l’impossibilità di scegliere con chi vivere e cosa mangiare, l’obbligo di comunicare i propri spostamenti sono, infatti, la base normativa di questi luoghi. Le condizioni di vita dei richiedenti sono così caratterizzate da una sospensione perpetua, un’attesa infinita della risposta della Commissione Territoriale e, quindi, da una dipendenza dalla struttura accogliente.
Benché i tempi di permanenza dovrebbero essere di 35 giorni nei CARA e di 6 mesi rinnovabili negli SPRAR, una persona richiedente asilo può stazionare in questi “parcheggi” anche per diversi anni, in una totale incertezza riguardo al proprio futuro giuridico.
I servizi offerti malgrado siano presentati dalle istituzioni come strumenti finalizzati all’indipendenza del soggetto, assurgono nella realtà l’effetto di fortificare, attraverso il soddisfacimento di alcuni bisogni, il legame di subordinazione fra il migrante e il sistema d’accoglienza. Infatti, nonostante all’immigrato sia garantita la possibilità di poter uscire durante la giornata, gli sia corrisposto un pocket money o offerto un abbonamento per i mezzi pubblici, le sue possibilità di emancipazione dal sistema d’accoglienza sono molto remote. Basti pensare all’isolamento in cui, spesso e volentieri, si trova chi sta in questi posti, all’impossibilità di conoscere la realtà che li circonda se non attraverso i canali offerti o alla possibilità mancata di soddisfare autonomamente i propri bisogni.
Tale condizione generale che contrasta con l’autonomia e l’autodeterminazione dell’individuo assume un aspetto ancora più eclatante proprio nei progetti SPRAR, dove è il percorso d’integrazione a essere posto come centrale. Nei progetti di inserimento infatti un concetto fondante è quello d’empowerment, ovvero di potenziamento del soggetto, partendo però dall’immagine dell’immigrato come soggetto debole in possesso di qualità personali, sociali o lavorative in difetto e che devono essere per questo stimolate attraverso percorsi istituzionalizzati. Una contraddizione fra l’offerta di strumenti per l’autonomia individuale, l’immagine categorizzata del migrante e la condizione di dipendenza effettiva.
Un altro elemento contraddittorio emerge se si guarda alle statistiche sugli esiti generali delle domande di protezione. Nel 2015, infatti, il 56% delle richieste hanno ricevuto il diniego dalle Commissioni Territoriali. Se si considera che il sistema della Seconda Accoglienza si basa principalmente sui richiedenti asilo, persone che possono rientrare facilmente in una condizione di irregolarità, sorge spontaneo chiedersi a chi servano i percorsi integrativi. Infatti, sembra piuttosto che i corsi di italiano o l’orientamento formativo, legale o abitativo, siano degli elementi fortemente funzionali alla giustificazione dell’esistenza stessa di questo sistema e del business ad esso sotteso.
Business che è tutt’altro che marginale. Solo per citare un esempio, i soldi corrisposti dalla Prefettura all’ente gestore per quanto riguarda il CARA di Mineo sono 140.000 euro al giorno, cifra che ammonta intorno a 40 milioni annui. Il richiedente asilo per un determinato periodo di tempo è, infatti, messo a valore, sia attraverso i finanziamenti che fanno guadagnare chi gestisce i centri della Seconda Accoglienza, sia attraverso lo sfruttamento della sua forza lavoro.
Negli SPRAR, dove sono presenti gli immigrati in attesa di un permesso umanitario, viene corrisposta una cifra pro-capite anche se, in molti casi, permangono in queste strutture anche coloro ai quali è stata negato il permesso e che di conseguenza dovrebbero perdere il diritto di rimanerci.
L’interesse principale per i gestori di tali strutture sembra proprio quello di riempirle il più possibile moltiplicando gli introiti in una logica economica di scala.
Il mondo della Seconda Accoglienza è in aggiunta anche un grosso bacino di manodopera a basso costo o a costo zero per aziende e imprese. La messa a lavoro dell’immigrato può passare sia per canali legali, assumendo la forma delle cosiddette borse-lavoro o del lavoro volontario, sia attraverso vie parallele come il lavoro in nero. Ciò che accomuna queste differenti forme di sfruttamento è la messa a profitto del richiedente asilo obbligato a vivere per anni in attesa dell’esito della domanda di protezione.
Proprio questa condizione limbica ha portato nell’ultimo anno a un aumento delle proteste degli “ospiti” che hanno lamentano l’inattività obbligata, le attese infinite dovute alle lungaggini burocratiche nelle quali incappa ogni singola richiesta d’asilo e i conseguenti dinieghi, la mancata erogazione di bonus quali i pocket money e gli abbonamenti gratuiti ai servizi pubblici, il cibo di pessima qualità che in alcuni casi non viene addirittura servito.
A far da sfondo alle singole motivazioni è la sensazione di essere letteralmente parcheggiati. I rifugiati sono riusciti a far conoscere le proprie rivendicazioni bloccando strade, occupando i centri di accoglienza, impedendo l’entrata ai vari operatori, organizzando manifestazioni sotto alle Prefetture dove erano bloccate le pratiche per le richieste d’asilo, rifiutando il cibo scadente fornito nelle mense. Questi sono solo alcuni esempi usciti dalle cronache locali ai quali vanno aggiunti le fughe e gli allontanamenti.
La valorizzazione dell’esclusione
Il processo di valorizzazione della manodopera straniera passa attraverso il filtraggio e la categorizzazione degli immigrati, secondo criteri che si vorrebbero sempre più selettivi e funzionali al mercato del lavoro. Tale processo non può che aumentare il numero degli esclusi, cioè di coloro ai quali vengono negate le condizioni minime di sostentamento.
Se da una parte un numero sempre maggiore di immigrati di recente arrivo vengono inseriti nei percorsi di integrazione andando a riempire strutture adibite alla Seconda Accoglienza, dall’altra lo “scarto”, ovvero molti degli immigrati cosiddetti economici, prendono la strada dell’irregolarità. Tuttavia, stando al rapporto sulla Detenzione Amministrativa del febbraio 2016, meno del 10% degli scartati è finito in un CIE, quindi la stragrande maggioranza ha ricevuto soltanto un foglio di espulsione. La maggior parte di coloro che vengono identificati negli Hotspot e categorizzati come irregolari dai CIE non ci passa. Nei centri della Detenzione Amministrativa non c’è posto perché queste strutture vengono continuamente incendiate dai reclusi.
D’altro canto, vero è che la macchina delle espulsioni, anche nella sua piena potenzialità, non potrebbe mai colmare l’esigenza di contenimento ed espulsione dei tantissimi senza-documenti. I 1.500 posti in più richiesti all’Italia dall’Unione Europea risultano essere quindi una piccola pezza, funzionale se non altro al potere di deterrenza del CIE. Va da sé che il ricatto del permesso o la minaccia di espulsione costringono molti immigrati senza le carte in regola ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, spingendo sempre più in basso l’asticella del livello salariale.
Non si può però dimenticare l’aspetto significativo della messa a profitto degli immigrati irregolari che nel CIE ci finiscono. L’enorme introito percepito dagli enti gestori è garantito da un pagamento pro-capite dei reclusi. Inoltre lo Stato prevede, su richiesta dell’ente gestore, la possibilità del pagamento della metà dei posti disponibili anche quando a seguito di rivolte e incendi delle aree, il numero di reclusi diminuisce considerevolmente.
Se la macchina delle espulsioni non assolve tutte le sue funzioni, non è detto che i governanti di fronte alla previsione di crescita dei flussi migratori non decidano di vagliare altre strade. È ciò che suggerisce la notizia di questo maggio: decine di immigrati che protestavano a Lampedusa contro i rilievi dattiloscopici nell’Hotspot sono stati caricati in voli charter e rimpatriati. Non è da escludere che la gestione emergenziale della migrazione apra alla regolamentazione dell’espulsione diretta.
Uno sguardo sulla “Seconda Accoglienza” in Piemonte
In Piemonte, secondo i dati dell’agosto 2015, ci sarebbero 5292 persone presenti all’interno delle strutture di Seconda Accoglienza della Regione, divise tra CAS (4461) e progetti SPRAR (821). È interessante notare come gli arrivi nelle strutture, in totale 10427, non coincidano con le presenze effettive, segno dell’altissimo indice di abbandono immediato. La maggior parte dei richiedenti protezione internazionale è ospitata all’interno di strutture di Torino e provincia, 1699 persone, il restante diviso per le altre province piemontesi. Gli edifici in questione sono molto differenti tra loro: appartamenti, hotel o piccoli fabbricati, caserme o veri e propri centri con centinaia di persone. Questi ultimi a volte sono costituiti da container, o in certi casi sono vere e proprie tendopoli come accade per il centro SPRAR di Settimo Torinese che, nei periodi di punta, contiene più di 300 persone. L’intero sistema regionale legato all’Accoglienza Secondaria comprende un insieme di differenti associazioni e cooperative, piccole o grandi, alcune delle quali sono i soliti volti noti della gestione degli immigrati in Italia. In generale, a causa dell’emergenzialità legata alle strutture CAS, è estremamente difficile riuscire ad individuare proprio tutti gli enti che nella Regione Piemonte fanno soldi con la gestione degli immigrati. Ciò che si può fare è offrire un panorama generale di chi, a fasi alterne, partecipa e si aggiudica i bandi della Prefettura o da questa viene scelto in via emergenziale.
Gli enti gestori dell’Accoglienza sono, come detto, numerosi e presentano caratteri differenti. Guardando gli ultimi dati della Prefettura sui progetti SPRAR 2015 a Torino emergono entità delle più svariate. Ad esempio la Diaconia Valdese, gestore dell’accoglienza di 139 persone tra Torino e provincia, organo della Chiesa Evangelica Valdese che si occupa in molte zone d’Italia di servizi alla persona, assistenza socio-sanitaria, alternativa al carcere e formazione. L’Associazione Recosol – Rete dei Comuni Solidali, nata a Carmagnola ma diffusasi in molti comuni italiani, impegnata nel promuovere cooperazione decentrata nei Paesi in via di sviluppo e per ultimo lanciatasi nel guadagno dei progetti SPRAR. C’è poi la Progest Cooperativa sociale Onlus, gestore del centro per immigrati di San Gillio in provincia di Torino, che si occupa anche di servizi a minori, anziani e di centri terapeutici di salute mentale come le comunità terapeutiche “Il Barocchio” e “Il Giglio”. Poi la Codeal di Aosta, branca della più grossa 3bite, specializzata nella consulenza, nella realizzazione e nella gestione di soluzioni e di servizi integrati nel campo della comunicazione e delle nuove tecnologie. La coop Atypica, anch’esso gruppo assegnatario di una parte di un lotto d’accoglienza d’immigrati, che si occupa di mediazione culturale, infanzia e che gestisce anche un piccolo hotel all’interno del parco di Collegno. Alcuni enti sono nati e costruiti intorno ai progetti educativi e di mediazione culturale, come la Coop Edu-care e Terremondo, altri in progetti integrativi dei soggetti svantaggiati, come la Coop 610, altri ancora sono associazioni di promozione sociale come Tra-Me di Carignano o più schiettamente fornitrici di servizi come la Dinamo Coop. Insomma un panorama variegato ed eterogeneo.
Nella città di Torino, tra gli enti più presenti per la gestione degli appalti sulla Seconda Accoglienza ci sono il consorzio di cooperative Kairòs e la, sempreverde, Croce Rossa Italiana. Il consorzio di cooperative Kairòs è il gruppo fondatore e branca torinese della più conosciuta e famigerata Connecting People. Quest’ultima cooperativa non ha bisogno certo di presentazioni vista la sua decennale esperienza nella gestione dei Centri d’identificazione ed espulsione italiani.
Il consorzio estende la sua rete di guadagno su tutta la filiera dell’accoglienza ma non solo perché si occupa, per fare un esempio, attraverso l’associazione Ecosol, anche della gestione del lavoro dei detenuti nel carcere delle Vallette, oltre a essere una vera e propria potenza economica in città come produttore di welfare privatistico.
Attraverso la cooperativa Esserci, gestisce strutture della Seconda Accoglienza da centinaia di posti, allo stesso tempo promuove progetti per l’inserimento lavorativo attraverso accordi con la Regione e le aziende, creando un bacino di manodopera a costo zero attraverso il sistema delle borse lavoro elargite dalla Regione, 25 ore settimanali pagate 3,50 euro all’ora.
Il consorzio Kairòs non è l’unico esempio di chi vanta una lunga esperienza nella gestione dei CIE; la Croce Rossa che per anni e anni si è aggiudicata la gestione dei CIE italiani e ancora concorre per l’aggiudicazione, è perfettamente inserita in questo affare. Essa gestisce infatti il sopracitato enorme centro SPRAR di Settimo torinese. Il “Teobaldo Fenoglio”, ex villaggio TAV per gli operai impegnati nella costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità, è stato recuperato dal Comune per trasformarlo in un centro di Protezione Civile. Molto probabilmente, la CRI si occuperà anche del futuro Hub nella caserma dell’aeronautica di Castello d’Annone in provincia di Asti, capienza 200 persone. Un filo che lega l’Accoglienza Secondaria degli immigrati al sistema di reclusione e deportazione.
Sono anche altre le cooperative nell’affare dell’accoglienza, che il più delle volte si uniscono in consorzi, raggruppamenti d’impresa che garantiscono un’organizzazione più razionale e una gestione più completa degli appalti. Il Consorzio La Valdocco ad esempio, a cui appartiene la coop Pietra Alta servizi Onlus, che gestisce un lotto d’accoglienza di richiedenti asilo a Torino, comprende 12 associazioni, ognuna delle quali specializzata in un servizio specifico per soggetti svantaggiati; si va insomma dall’animazione al servizio catering, dalle pulizie all’assistenza sanitaria, tutte mansioni garantite dall’eterogeneità del raggruppamento d’imprese. Un altro esempio di tale sistema, considerabile come un vero e proprio sistema di scatole cinesi, è rappresentato dalla rete di associazioni Non solo asilo composta da ben 18 nomi tra associazioni e coop. Questo raggruppamento è composto da svariati affiliati, anche molto diversi tra loro come la Coop Orso, la Coop Alice, Acmos, Pastorale migranti, PIAM, l’ Associazione Somaalya Onlus, il Gruppo Abele e Engim Piemonte.
Un capitolo a parte meriterebbe la famosa associazione Terra del fuoco e della sua costola Babel, fondata nel 2015 da Roberto Forte, già vicepresidente di Terra del Fuoco. Questo gruppo di coop da anni si è inserito nel business della gestione di rifugiati e dei richiedenti asilo in Piemonte, anche grazie alla benedizione garantita dal fondatore ed ex presidente Michele Curto, consigliere Sel al Comune di Torino. L’associazione ha partecipato in passato, all’interno di un Raggruppamento Temporaneo d’Imprese che comprendeva anche AIZO, Liberitutti, Stranaidea, la Coop Animazione Valdocco e la Croce Rossa Italiana, al famigerato progetto “La città possibile”, un programma di distruzione del campo Rom sul Lungo Stura Lazio e di trasferimento di alcuni dei suoi abitanti in altri edifici. Il risultato finale dell’operazione è stato quello di più di 1000 sgomberati, 600 ricollocati, 255 rimpatri volontari e 2 accompagnamenti al CIE di c.so Brunelleschi. È importante notare come molte riallocazioni gestite da Terra del fuoco siano avvenute all’interno degli appartamenti fatiscenti di Giorgio Molino, il famoso “ras delle soffitte” del capoluogo sabaudo. Il notissimo palazzinaro torinese, famoso per le proprietà e per gli sfratti di centinaia di persone, da tempo si è lanciato anch’egli nel business legato all’Accoglienza Secondaria. Infatti Molino e la presidente dell’associazione L’Isola di Ariel, oltre a siglare contratti d’affitto per appartamenti indirizzati a gruppi terapeutici, si sono accordati anche per l’accoglienza dei richiedenti, come succede per la struttura di via L’Aquila a Torino. L’Isola di Ariel è anche la prima ad aver messo in scena il lavoro gratuito dei richiedenti asilo con la pulizia dei parchi e delle strade del quartiere San Donato, facendo da apripista agli accordi successivi con le aziende.
Insomma, davanti a questa descrizione parziale della situazione piemontese, i richiedenti asilo e i rifugiati oggi sembrano, per tutti, cooperative e imprenditori locali, un affare molto più redditizio delle attività passate, su cui oggi lanciarsi a capofitto.
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