Tra il proclamato, il realistico e l’effettivo

 

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L’anno nuovo è iniziato con un gran vociare da parte del governo sui Cie e il rinnovamento complessivo della macchina delle espulsioni. Notevole la mole di notizie che nei primi giorni di gennaio ha occupato le pagine dei giornali; dalle dichiarazioni del ministro dell’interno Minniti sull’apertura di nuovi Cie con il seguito di dichiarazioni critiche e lamentele politiche, alla circolare inviata dal capo della Polizia Gabrielli ai prefetti d’Italia sulle direttive per un controllo capillare del territorio alla ricerca degli irregolari, il tema è al centro del dibattito pubblico.

Tante le cose dette e scritte, ma per capire sul serio cosa c’è dietro i proclami e gli slogan è necessaria un’azione lucida di discernimento tra ciò che è propaganda e ciò che non lo è. Un lavoro non facile da fare tanto siamo abituati a prendere tutto quel che esce dalla bocca dei politici come merda placcata princisbecco.

Partiamo dunque dalle dichiarazioni di Minniti sulla riapertura dei Cie, proposta che sembrerebbe andare in controtendenza rispetto al dibattito d’opinione sviluppatosi intorno alla questione ma che è perfettamente in linea con le azioni di governo degli ultimi anni che a più riprese dichiarava di voler aumentare la capienza dei Centri proponendo tra l’altro, oggi come allora, il mantra del raggiungimento dei millecinquecento posti. E ciò si sarebbe pure verificato da tempo se non fosse stato per i reclusi che con le loro rivolte hanno reso continuamente vane queste ambizioni.

Da un po’ di anni a questa parte molte sono state le voci che hanno criticato i Centri, per lo più perché, dal loro punto di vista, considerati evidentemente inefficaci per lo scopo per cui erano stati creati. Oggettivamente non si può dar torto a queste ributtanti posizioni efficientiste dato che fin dalla loro apertura i Cie hanno funzionato a singhiozzo anche se hanno espletato altre funzioni non meno importanti, non ultima quella della deterrenza dei comportamenti in strada dei senza-documenti. Tuttavia il motivo del fallimento generale di questo modello che gli Stati si sono dati si può trovare sicuramente nella costanza con cui i reclusi hanno danneggiato, manomesso, distrutto e infine incendiato le strutture, rendendole parzialmente o totalmente inagibili, così che ad ora i Cie in funzione sui 13 aperti a suo tempo sono solo 4, con un totale di trecentosessanta posti disponibili. A ciò si aggiungono il flusso crescente delle migrazioni, la lentezza del sistema delle identificazioni, la difficoltà di raggiungere accordi bilaterali con i Paesi di provenienza che assicurino una procedura di espulsione veloce e fluida e i costi del rimpatrio stesso.

Epperò le decisioni del Viminale sembrano proprio andare nella direzione della rimessa a nuovo di questo poco funzionante sistema di reclusione ed espulsione promettendo un Cie in ogni regione entro qualche settimana. Ora se sulle tempistiche i dubbi non possono che essere conclamati e nonostante “un Cie in ogni Regione” alla luce della situazione attuale suoni molto meglio come slogan d’effetto che come direzione programmatica, è più che probabile che, seppur con tempi non brevi, qualche lavoretto di ristrutturazione e qualche riapertura siano purtroppo possibili. E infatti i posti in più promessi da Minniti paiono essere un obiettivo raggiungibile a partire proprio da quelle strutture che esistono già, come il Cie di Torino che secondo La Stampa dovrebbe essere potenziato per portare dall’attuale capienza di novanta posti, tutti occupati a che ne sappiamo, al traguardo dei centocinquanta; o come il Centro romano che, dopo la rivolta che ha distrutto le aree maschili, all’oggi rinchiude solo le donne, cinquantotto a detta della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato nell’ultimo rapporto sui Centri di identificazione ed espulsione in Italia, a fronte dei centoventicinque posti disponibili sui duecentocinquanta teorici.

Per quanto riguarda Torino e per restare con i piedi per terra non dovremmo comunque dimenticare che il Cie di corso Brunelleschi negli anni aveva raggiunto una disponibilità teorica di duecentodieci posti, nel tempo ridimensionati dalle continue rivolte dei reclusi, e che di continuo si è intervenuto per ristrutturare le aree danneggiate tentando di vanificare i nobili atti di distruzione e provando a conquistare qualche posto in più. A riprova di ciò sappiamo che, un po’ in sordina o quasi, nel Cie torinese si lavora più o meno con continuità dal gennaio 2015 per ristrutturare le aree rese inagibili, e che nel 2016 sono stati stanziati centoventimila euro a marzo per sistemare l’area gialla e poi altri centomila a luglio per quella verde.

Questo perché il Cie di Torino proprio a causa della chiusura della maggior parte degli altri Centri è rimasto per lungo tempo l’unico del nord Italia, diventando punto di riferimento per un territorio vasto di cui decisamente non riusciva a contenere gli eccessi seppur continuando a svolgere, nonostante il regime di capienza ridotto, quella funzione di identificazione e di espulsione per la quale è stato creato.

E ora dalle pagine dei giornali ci dicono che il modulo organizzativo del Cie torinese dovrà diventare, dopo le ristrutturazioni del caso, un modello di funzionalità per i millantati nuovi Centri, azzardandosi anche a prevedere l’80% delle espulsioni in tempi brevi.

Al di là delle pretese di Minniti&Co. la necessità di provare a far funzionare, o a far funzionare meglio, il sistema nazionale di identificazione ed espulsione rientra in una tendenza che fu perseguita già dal governo Renzi che da qualche anno a questa parte ha tentato di costituire un sistema di organizzazione, selezione e gestione degli imponenti flussi migratori che stanno attraversando l’Italia. Necessità di fatto perché la penisola appare geograficamente come una lunga strada che porta direttamente verso l’Europa del Nord, e necessità politica perché questo chiede l’Unione Europea all’Italia, di fare blocco più deciso alla ormai perenne “emergenza profughi”.

Due sono state le direttrici di intervento. Da una parte si è organizzato e messo a punto quel dispositivo di filtro e selezione degli arrivi che smista gli immigrati che potrebbero avere diritto a fare richiesta di asilo attraverso prime strutture come gli Hotspot, e in un secondo momento quelle dei Cas, dei Cara, fino alle diramazioni più periferiche del sistema di seconda accoglienza, denominate Sprar; il ruolo dei Cie nell’espulsione di coloro che non hanno invece i requisiti era stato già riaffermato. Dall’altro si sono cercati nuovi partner diplomatici con cui firmare patti bilaterali per i rimpatri e per il contenimento dei flussi nei paesi extraeuropei. Il che è esattamente il lascito che sta cercando di portare avanti il ministro Minniti che di aereo in aereo sorvola l’Africa per incontrare capi di governo o sedicenti tali con cui stringere accordi. E già, perché dalle primavere arabe in poi son saltate un po’ di collaborazioni, e pure delle più proficue; si veda ad esempio la profonda, e profittevole, intesa tra l’allora governo Berlusconi e Gheddafi in Libia mandata a monte dallo sconvolgimento politico del 2011 e mai più ritrovata alla luce delle condizioni geopolitiche in cui versa la Libia oggi. Oltre ad aumentare il numero di rimpatri coatti il suggello di accordi bilaterali dovrebbe favorire maggiormente anche l’utilizzo della pratica del rimpatrio volontario sotto “incentivo”.

Non ci si può stupire dunque che priorità per il governo italiano sia stabilire accordi diplomatici con i maggiori paesi di provenienza degli immigrati per garantire identificazioni ed espulsioni veloci; se la macchina dei rimpatri ha funzionato male fino ad ora è anche per queste mancanze e riuscire a colmarle in tempi in cui centinaia di migliaia di persone arrivano ogni anno sul territorio nazionale è obiettivo più che desiderabile per chi governa. L’intento dichiarato sarebbe quello di aumentare e velocizzare le deportazioni che, negli anni passati e secondo i contraddittori dati reperibili a proposito, si aggirerebbero intorno alle cinquemila all’anno, cifra che a noi pare già inaccettabile ma che risulta essere di molto in difetto rispetto ai fermi di senza-documenti effettuati sul territorio, circa quarantamila, e alle persone passate per il Cie e poi liberate con il decreto di espulsione in mano. Se a ciò si aggiunge che le deportazioni avvengono oramai anche dagli Hotspot, il numero delle persone realmente espulse in maniera coatta dai Centri di identificazione ed espulsione scende drasticamente sotto il migliaio.

Insomma a voler decifrare le parole del governo e se si ravana bene non si scorge nulla di nuovo sotto il sole: un’impellenza pratica di governance dei flussi che riesca a conciliare i problemi nazionali con le esigenze europee farcita con un po’ di propaganda securitaria che si fa però anche necessità in tempi in cui gli Stati e i governi occidentali si trovano a gestire un oramai perenne allarme terrorismo diffuso.

Ma quest’ultimo è un punto tutt’altro che semplice da trattare e ci riserviamo la possibilità di farlo con i dovuti tempi e le dovute cautele.