Di questo pane non ne mangeremo più
“La penalità sarebbe allora un modo per gestire gli illegalismi; di segnare i limiti della tolleranza, di lasciar spazio ad alcuni, di esercitare pressioni su altri, di escluderne una parte, di renderne utile un’altra, di neutralizzare questi, di tirar profitto da quelli. In breve; la penalità non «reprimerebbe» puramente e semplicemente gli illegalismi; essa li «differenzierebbe», ne assicurerebbe l’«economia» generale.”
Nell’arcipelago carcere per lottare per migliorare le proprie condizioni di detenzione non basta uno schiocco di dita. Tanto più se si è in una sezione isolata, in pochi detenuti, già vessati da condizioni asfissianti. Nelle mani di Silvia e Anna non è rimasto che lo strumento del proprio corpo. Corpi che ieri, 29 maggio, hanno deciso di non saziare l’appetito per protestare contro le condizioni a cui sono vessate, per essere trasferite, pretendendo la chiusura della sezione As2 de L’Aquila.
I cantieri della struttura carceraria a L’Aquila sono stati inaugurati proprio nel 1986, mentre entrava in vigore la legge Gozzini. L’insieme normativo approfondiva il meccanismo di differenziazione dell’esecuzione della pena e nell’organizzazione della custodia. Già le riforme del 1975 erano dirette a sbilanciare i rapporti di forza con i detenuti: che arrivassero da una banda di rapinatori o da qualche acerbo gruppo rivoluzionario, erano pronti a organizzarsi e a rivoltarsi, a suon di plastico dentro le caffettiere. Dopo queste riforme venivano istituite le prime carceri speciali, introdotto e normato il lavoro in carcere, immesso l’approccio individualizzato del “trattamento”. Con il pacchetto di leggi del ’86, nel minestrone “rieducativo”, venivano introdotti i benefici, ovvero i 45 giorni di sconto ogni sei mesi passati senza segnalazioni e rapporti, nell’armamentario direttamente repressivo, veniva plasmato il circuito del 41 bis, il cosiddetto carcere duro, simile a un dispositivo di tortura.
Oggigiorno mentre nella grossa cittadina sull’Appennino i bambini, dopo un decennio dal terremoto, vanno a scuola dentro dei prefabbricati, la casa circondariale rinchiude quasi 200 detenuti, 160 in regime 41bis e tre in Alta Sicurezza: Silvia, Anna e una ragazza rinchiusa per reati inerenti all’integralismo islamico. Infine vi sono all’interno anche una ventina di detenuti comuni che si adoperano come lavoranti per tutto il carcere.
In un abbastanza accurato report sul carcere si nota come i provvedimenti di isolamento disciplinare dichiarati nel corso del 2017 a L’Aquila coincidono grosso modo col numero di detenuti rinchiusi all’epoca. Tra gli “eventi critici” sono riportati 18 scioperi della fame. Così lì come in tante altre carceri italiane prevalgono forme di irrequietezza e protesta individuali rispetto agli episodi collettivi di lotta, ed esuberano le controffensive dell’amministrazione penitenziaria. A L’Aquila basta una biro portata all’aria oppure un piede appoggiato al muro per vincere un rapporto disciplinare e ritrovarsi in un piccolo tribunale fatto di guardie. Molto spesso il carcere diventa un’impresa da attraversare soli.
Se da una parte chi finisce nella sottosezione speciale di un ‘carcere speciale’ rischia di essere tombato vivo, di dover accettare la violenza dell’isolamento più estremo perché fa fatica a trovare un modo per controbattere, dall’altra chi scorrazza nelle sezioni comuni è sempre più vincolato ai ricatti lavorativi delle aziende alla ricerca di manodopera a basso costo. Racimolare degli spicci per pagarsi la galera, per riuscire a evitare di mangiare il vitto scadente della casanza e acquistare le sigarette; aumentare le ore fuori dalla cella e dalla sezione, con un po’ di “libertà” in più, con un’attività con cui impegnare la testa e forse avere la possibilità di accelerare l’uscita dalle mura. Tutto questo non senza cedere alla competizione tra compagni di detenzione, ai bassi stipendi e all’iper sfruttamento da parte di qualche cooperativa di sinistra o qualche colosso multinazionale.
Nella disgregante organizzazione carceraria, l’angolo isolato dove Silvia e Anna si trovano attualmente ha il triste primato di essere ormai l’unica sezione di Alta Sicurezza femminile in Italia. Le loro condizioni detentive sono state rese note e lamentate sin da subito. Anna e Silvia hanno deciso di scioperare il loro appetito prendendosi in mano il compito di lottare per stare meglio, scrollandosi di dosso la pesantezza delle condizioni super restrittive del carcere aquilano, sfidando il sistema carcere. A noi, al di qua delle mura, capaci di muoverci e agire in maniere più articolate e spericolate, tocca il compito di sostenerle. Affinché quella sezione chiuda e non sia più il posto per rinchiudere altri esseri umani. Non esiste ristrutturazione per renderla decente, non esiste riforma per renderla accettabile.
Ieri Silvia ci ha annunciato dell’inizio dello sciopero della fame nell’aula del Tribunale torinese durante la prima udienza del processo per l’occupazione della casa in corso Giulio Cesare 45. Ha pronunciato parole misurate e precise per spiegare il perché e il come delle richieste avanzate, parole arrivate tramite il movimento di un’immagine pixelata e una voce trasmessa attraverso la videoconferenza. Lo schermo e la lontananza non hanno tolto a tanti la possibilità di emozionarsi nel vederla e sentirla. Ecco qui il comunicato di Silvia e Anna, da leggere e diffondere.
In parecchi sono accorsi dentro l’aula per tentare di salutare la compagna, altri hanno atteso fuori dal Palagiustizia. Al termine dell’udienza il presidio si è trasformato in un corteino che ha sfilato in mezzo al quartiere liberty fino a piazza Statuto. L’invito ora è di cogliere ogni momento buono per incontrarsi, per portare questa battaglia che le compagne stanno facendo dentro le mura nelle lotte che si conducono fuori. Una quattro giorni di iniziative contro i Cpr e le politiche migratorie è già iniziata…