Per un antimilistarismo senza effetti collaterali

Abbiamo letto l’appello lanciato «agli anarchici, ai libertari, agli antimilitaristi» da alcuni compagne e compagni di alcune città italiane, che si conclude sollecitando «il parere dei compagni» al riguardo. Raccogliamo l’invito ed entriamo nel merito.

È comprensibile cosa muova i firmatari del suddetto appello. Anni e anni di “operazioni di polizia internazionale”, di “bombardamenti chirurgici”, di “effetti collaterali”… danno infinite ragioni ad una lotta antimilitarista che purtroppo non corre il pericolo di essere superata dai tempi, laddove la capillare presenza sul territorio italiano di strutture belliche o parabelliche fornisce a questa stessa lotta infinite possibilità. Da questo punto di vista, quindi, non possiamo che essere d’accordo con l’invito a rispolverare l’antimilitarismo sovversivo.

Qualche perplessità vorremmo esprimerla invece su come si possa arrivare a questo nobile scopo. Tanto più che, una volta tanto, eventuali disaccordi non corrono il rischio di essere tacciati di alimentare solo sterili polemiche, dato che queste nascono nei «momenti di risacca» (e non certo sull’onda dell’entusiasmo sollevato dalle lotte sociali che stanno dilagando in tutta Italia!).

Se il fine che ci si prefigge non è mai separato dai mezzi che si impiegano, allora gli esempi pratici additati in un certo senso a mo’ di esempio in questo documento sollevano non pochi dubbi. L’appello fa esplicito riferimento alla lotta valsusina contro il TAV, a quella contro la base NATO di Vicenza, nonché alle varie lotte sparse per il paese contro inceneritori, rigassificatori e via industrializzando. Lotte che vengono decantate perché hanno saputo dire un «No preciso a precisi progetti del capitale e dello Stato». Purtroppo esse hanno anche detto un Sì preciso a un preciso collaborazionismo con forze politiche (e sottolineiamo politiche) che fino a pochi anni fa venivano combattute e disprezzate. Certo, lo riconosciamo, non è davvero il caso di buttare via per questo il bambino; ma non lo è nemmeno crogiolarsi nell’acqua sporca. Se si vuole che l’appello antimilitarista venga raccolto anche da quei compagni che, come noi, insistono col preferire di gran lunga l’affinità alla affettività, sarebbe bene iniziare a chiarire una volta per tutte una questione che provoca solo incomprensioni e malumori. Altrimenti temiamo che tutta la dialettica del mondo non basterà ad appianare le asperità del cammino.

Facciamo alcuni esempi. Se — come viene sostenuto nell’appello antimilitarista — le recenti lotte «sono meno aperte al recupero politico e istituzionale», non avendo «una base rivendicativa di tipo sindacale», perché allora a proposito di Vicenza si precisa che non è il caso di farsi illusioni «circa l’attuale autonomia reale di questa lotta»? Sarà anche vero che per i fini di queste lotte «non esiste, infatti, terreno per la mediazione», ma si può dire lo stesso per i mezzi visto che sono dirette da gruppi riformisti? Insomma, o queste lotte sono per loro natura quasi irrecuperabili giacché difficilmente possono essere cavalcate da politicanti (e per questo si invitano i compagni a buttarvisi a peso morto), o in caso contrario si dovrebbe avere la sincerità di invitare i compagni interessati a prendervi sì parte (giacché in fondo non può esistere una lotta “pura”, immune da ogni tara politica), ma in maniera autonoma, critica ed accorta. Senza cioè mai scordare da dove si viene e dove si vuole andare. Altrimenti, a furia di ripetere che nelle lotte i rapporti che si creano sono più importanti degli obiettivi dichiarati, si finisce con tralasciare del tutto i propri obiettivi, facilitando in tal modo quelli altrui.

In Val Susa come a Vicenza e altrove, partiti e sindacati saranno anche stati messi alla porta ma solo per far accomodare il loro erede: il cittadinismo, cioè quella galassia di brave persone sinceramente arrabbiate con questa o quella politica del governo solo perché persuase che un altro Stato è possibile. È questo il discorso oggi imperante nelle varie lotte sociali, un discorso tanto più pericoloso per le tensioni sovversive in quanto non esige tessere e comitati centrali e che non ci sembra sia granché contrastato da chi ha ben altre aspirazioni.
Allo stesso modo non possiamo nascondere la nostra insensibilità per un’altra espressione di una pretesa virtù delle recenti lotte, quella così descritta: «Altra caratteristica importante è la voglia di coordinarsi dal basso (come ben dimostrano la nascita e le caratteristiche del Patto di solidarietà e di mutuo soccorso contro le nocività)…». Ora, leggendo il Patto di solidarietà e di mutuo soccorso e consultando l’omonimo sito salta sì agli occhi la voglia di coordinarsi dal basso, ma solo per esigere ascolto e rispetto da chi si trova in alto. Lo specchietto per le allodole libertarie — «Il Patto nazionale di Solidarietà e Mutuo Soccorso… non ha governi amici a cui guardare con fiducia» — precede infatti la trappola autoritaria — «Non per questo rifugge dalla politica e dal confronto, e sa distinguere chi opera con trasparenza da chi tenta di imbrigliare le lotte». Partendo dal presupposto che non ci sono interlocutori politici privilegiati, ma tutti sono alleati papabili se si comportano in maniera trasparente, si passa alla pratica conseguente: collaborare trasversalmente con i politici ritenuti onesti, corretti, leali. Non è forse vero che gli aderenti al Patto auspicano «un nuovo modo di far politica» che sappia riscattare la tanto vilipesa «democrazia»?

Ci chiediamo: sono queste le pratiche degli anarchici, dei libertari, dei sovversivi? Sono questi i contesti che intendiamo rincorrere per riproporre la ricca tradizione dell’antimilitarismo rivoluzionario? A che serve eccitare l’animo dei compagni evocando blocchi, scioperi, sabotaggi, occupazioni insurrezionali e stigmatizzando il riflusso dell’antimilitarismo frutto fra l’altro dall’«atteggiamento codino e compromissorio nei confronti della galassia pacifista», se poi non si oppone un netto rifiuto alla possibilità di organizzare iniziative comuni con associazioni partitiche e filoistituzionali (pratica corrente in tutte le lotte sociali che tanto vengono esaltate)? Senza questo rifiuto, senza questa alterità nei confronti dei sostenitori dell’esistente, in cosa consiste la differenza che intercorre fra un atteggiamento «audace» ed uno «compromissorio»?

È vero che la cosiddetta “crisi della rappresentanza”, che sta generando diffidenza verso la politica istituzionale, non può che attirare l’attenzione dei nemici di questo mondo. Ma mentre medici e infermieri cittadinisti vogliono aiutare il malato a superare la crisi, cioè a guarire, ci sembra che i nemici di questo mondo dovrebbero voler aggravare il suo stato di salute. Il solo intervento anarchico che può suscitare il nostro interesse è perciò quello che mira a fare precipitare gli eventi, a far esplodere ovunque l’odio verso la politica in tutte le sue forme, laddove la preoccupazione di gettare le basi di una nuova politica, più umana, faccia-a-faccia, con tanto di meravigliose assemblee di liberi cittadini, ci lascia del tutto indifferenti.
L’urgenza delle cose, come quella che in questi giorni brucia la testa di chiunque, è sempre stata una cattiva consigliera. Con la sua esortazione emotiva a “fare qualcosa” spinge nelle braccia dell’attivismo, questa mobilitazione continua che non lascia tempo alla riflessione ma che sovente è tanto gratificante. Se non si vuole rischiare di girare a vuoto (per non dire di peggio), sarebbe bene domandarsi: fare qualcosa, cosa? Un blocco stradale, magari davanti alla Prefettura come richiesto dai gruppi riformisti vicentini cui si esprime solidarietà? Un convegno, magari con associazioni istituzionali come il WWF ed esperti vari e veri, con tanto di pedigree universitario? Una barricata, magari con tanto di marchio registrato per impedire che qualche partito se ne appropri? Una petizione da consegnare al sindaco o in senato? Una qualsiasi di queste cose, perché tanto una vale l’altra (in fondo, «da cosa nasce cosa»)?
Se davvero non si ha «ansia di risultati immediati», perché, anziché cercare di “fare qualcosa”, non si propone di fare quello che si ritiene giusto? Giusto in relazione alle proprie idee, ai propri desideri, ai propri sogni, ai propri intenti, senza dare ascolto alle sirene della realtà ed ai confortevoli racconti del mito del quantitativo. Ciò comporta un confronto a più voci oggi del tutto assente nel movimento, e che va ben al di là di un mero scambio di dati e informazioni.

individualità anarchiche di qua e di là