Sull’ipotesi di un Cie in città: la retorica e l’assessore
Rovigo, 02 agosto 2010 – Giovanna Pineda, assessore alle pari opportunità, alla pace e ai diritti umani al comune di Rovigo, scrive sull’ipotesi di un Cie in città:
la notizia è di qualche giorno fa, ma subito mi sembrava così assurda che non l’ho considerata. L’ho rimossa. Grande sbaglio! «Quando un uomo pensa una stronzata a Singapore, a Rovigo si avvera», cita il famoso blog satirico Monello Vianello. E così anche questa volta. Ma sull’ipotesi del Cie a Zelo c’è veramente poco da ridere. Certo che dopo la centrale a carbone, il terminal gasiero, la piattaforma off-shore, ci mancava solo un lager per migranti al nostro già martoriato territorio. Ma è questo che il Polesine deve pagare per essere in Veneto? Ora ci mancava solo il Cie, e solo perché Zaia deve togliere dall’imbarazzo l’amico Tosi [a Verona non lo vogliono e lui, a ragione, ha una paura folle di perdere consenso]. «Ma a Rovigo va ben tutto, si bevono qualsiasi cosa gli proponga, stai tranquillo», così gli avrà risposto il nostro caro presidente … ma vi rendete conto come siamo ridotti?
Ma non sono queste le considerazioni che voglio fare. Vorrei spiegare alle persone cosa è veramente un Cie, perché sicuramente molti non lo sanno, dato che, e non è un caso, è quasi impossibile entrarci ed avere informazioni a riguardo.
I Cie [ex Cpt] sono delle vere e proprie carceri-lager dove gli immigrati irregolari possono essere rinchiusi fino a 180 giorni in attesa dell’espulsione. Si tratta di luoghi dove – come denunciato da varie organizzazioni come Medici senza frontiere – le condizioni igenico-sanitarie sono pessime, il cibo insufficiente, si fa uso massiccio di psicofarmaci, si impedisce qualsiasi diritto alla difesa. Luoghi di sospensione del diritto dove numerosissimi sono gli episodi di violenza sui detenuti e i suicidi.
Per finire in un Cie non serve commettere crimini, basta essere sprovvisti del permesso di soggiorno o averlo scaduto [per esempio semplicemente perché si è perso il lavoro]. Per una semplice irregolarità amministrativa si privano esseri umani della propria libertà e dignità, spesso si è vittime invisibili di abusi e violenze, e quando si è visto un po’ troppo, cioè si diventa un testimone scomodo, è facile anche sparire nel nulla. Molti familiari hanno denunciato sparizioni di parenti e amici. Naturalmente per loro si teme il peggio. Quando va bene si rinchiudono per 180 giorni in un carcere e si provvede alla loro espulsione, magari separandoli da mogli/mariti/figli con cui da anni vivono in Italia.
Ma il fatto più sconcertante è che spesso nei Cie vengano recluse donne vittime di violenza, che finalmente hanno trovato il coraggio di denunciare il loro aguzzino, ma per tutta risposta vengono rinchiuse in questi lager, perché a loro volta ree di non avere il permesso di soggiorno in regola. Questo fatto increscioso è già successo più volte, anche a Rovigo purtroppo: una donna, stanca di essere vittima passiva, si rivolge fiduciosa alle forze dell’ordine per denunciare il proprio carnefice e chiedere aiuto, e in risposta viene invece portata in un Cie in attesa della sua espulsione. Il paradosso è che la vittima viene reclusa, in quanto colpevole di non avere il documento, mentre il vero colpevole della violenza rimane libero e impunito, libero di massacrare qualche altra donna senza documenti.
Ma vi rendete conto? Ma può un pezzo di carta avere più valore della stessa vita umana? Sembra quasi un gioco perverso, ma qui si sta giocando con la vita delle persone. L’assurdo poi si è raggiunto con la storia di Faith, ragazza nigeriana, che per un caso analogo, ha denunciato il suo aggressore che la stava violentando, ma essendo priva di documenti è stata subito trasferita nel Cie di Bologna e poi rimpatriata.
Le leggi inique che vigono in Nigeria, paese famoso per non brillare di democrazia, non permettono ad una donna nemmeno la legittima difesa, e quindi Faith rischia la pena di morte. Il suo avvocato e varie associazioni hanno fatto appelli su appelli, ma tutto fin’ora è stato inutile, anche la richiesta di asilo politico.
Benché l’Italia sia uno dei paesi promotori della moratoria contro la pena di morte, lo stato italiano non ha esitato a consegnare ai suoi assassini una donna che ha saputo con coraggio reagire alla violenza maschile, una donna da cui tutte abbiamo tanto da imparare. La deportazione di Faith è un monito contro tutte le donne che si ribellano alla violenza maschile.
Per quanto tempo ancora intendiamo tollerare la presenza dei Cie – lager in cui le donne sono spesso sottoposte a ricatti sessuali, molestie e violenze per poi essere rimpatriate col rischio di essere addirittura uccise?
Cosa servono tutti gli appelli fatti per far sì che le donne denuncino le violenze subite, se poi questi sono i risultati?
Si può chiamare civile uno stato che non tutela allo stesso modo le persone, che accetta che la legge non sia uguale per tutti e per tutte?
Nemmeno un settimana fa c’è stata una grande manifestazione contro la violenza, proprio a pochi Km da Zelo, a Badia. Questa manifestazione aveva come slogan «Io non voglio aver paura. No alla violenza». Spero che questa pubblica forte indignazione e denuncia, molto lodevole, non si leghi ad un singolo episodio, ma si ripeta con fermezza davanti ad ogni violenza, e purtroppo temo che non ne mancheranno le occasioni. Gli organizzatori non me ne vogliano però se riprendo parte del loro stesso slogan, integrandolo: Io non voglio aver paura di denunciare sempre la violenza! Ovunque essa sia: in casa, per strada e anche nei Cie.