Da nuovi a temporanei
Roma, 03 aprile 2011 – Nuovi Cie: vorrei ma non posso. I centri per l’identificazione e l’espulsione degli immigrati oggi sono 13, gli stessi esistenti quando Roberto Maroni si è insediato al ministero dell’Interno. E una delle prime dichiarazioni del neoministro, ripetuta più volte, fu: «Un Cie (prima si chiamavano Cpt, centri di permanenza temporanea, ndr) in ogni regione».
Sì, perché non ce ne sono in Liguria, Valle d’Aosta, Trentino Alto-Adige, Veneto, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Basilicata, Campania e Sardegna. Sono almeno uno in tutte le altre regioni, la Puglia ne ha due (a Bari e Brindisi), la Sicilia tre: Lampedusa, Trapani e Caltanissetta. Totale posti disponibili: 1.814. Neanche il 10% dei 22mila clandestini, nella stragrande maggioranza tunisini, giunti dall’inizio dell’anno.
Dal suo arrivo al Viminale Maroni ci ha messo tutta la buona volontà. Ma oggi, con lo stop delle regioni alle tendopoli definite dal ministro «Cie temporanei», si comprende che le intenzioni iniziali avevano una probabilità molto alta di rimanere sulla carta quando si parlava di centri tradizionali (edifici, recinzioni, attrezzature). Come si è dimostrato a posteriori. Eppure, ricevuto l’incarico di dare attuazione all’indirizzo politico, l’allora capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Mario Morcone – oggi candidato sindaco Pd a Napoli – cominciò una faticosa ricognizione sul territorio per capire dove e come costruire i tanto contestati centri. I Cie, infatti, generano problemi anche quando non c’è emergenza. Oltre alla presenza concentrata di immigrati, con possibili e spesso frequenti disordini, attraggono, per esempio, il mondo dell’antagonismo e dell’anarco-insurrezionalismo, che ne fanno uno dei motivi di lotta eversiva. Le regioni a governo di centrosinistra, poi, portano avanti un’opposizione di natura politica più o meno intensa. Nonostante tutto, Morcone con uno staff di ingegneri, architetti e uomini della carriera prefettizia cominciò a girare le zone interessate. Si calcolò che un Cie nuovo costa circa 15 milioni di euro e sono necessari un paio d’anni per costruirlo e consegnarlo «chiavi in mano». Poi cominciò l’esame di una serie di strutture messe a disposizione dalla Difesa e il lavoro diventò sconfortante. Perché non si trattava di ex caserme bisognose, al massimo, di una riverniciata, ma di ben altro. Un edificio militare in Veneto posto su una sorta di rocca-fortezza fu scartato non appena visto. Vicino Roma era disponibile un’area dove si facevano esercitazioni di lancio di bombe a mano: il costo esorbitante della bonifica rendeva improponibile quell’ipotesi.
Fu trovata, alla fine, qualche area vicino agli aeroporti – anche per non essere troppo vicini agli insediamenti urbani – ma poi fu facile capire che le Regioni avrebbero detto di no. Punto. Riunioni al ministero, tavoli di lavoro, incontri, confronti, visite sul territorio: tutto fermo, alla fine, o quasi. Il tema, nonostante tutto, Maroni lo ha rilanciato a più riprese. E ogni anno è stato rifinanziato un apposito capitolo di bilancio per circa 127 milioni: basterebbero per dieci nuovi centri, o quasi. Adesso, però, l’emergenza costringe a costruire in poche ore Cie temporanei, cioè tendopoli con recinzioni sommarie.
(ilsole24ore)