Classe
È ancora buio quando in una via nel cuore di Porta Palazzo, davanti al portone di un condominio, inizia a formarsi un capannello di persone. Da una finestra in cima alla casa viene giù uno striscione lungo un paio di piani: «La casa è di chi l’abita».
Lo striscione e alcuni volantini (1,2,3) spiegano ai radi passanti la ragione di quelle presenze tanto insolite e mattiniere: si tratta di impedire uno sfratto. Non è mica la prima volta, di fronte a quel portone: tra cause in Tribunale e picchetti, la famiglia resiste da quasi un anno. La storia è presto detta: un proprietario, ansioso di saltare sul carro dell’infighettamento del quartiere, che vuol liberarsi ad ogni costo di inquilini troppo sfacciatamente proletari; una truffetta ben orchestrata per cacciarli di casa e riaffittar le stanze ripulite a qualche radical-chic di passaggio; un giudice troppo pignolo che fa finta di non cogliere il nocciolo del problema; una famiglia che, colto il nocciolo del problema, smette di pagare l’affitto e si organizza per non finire in mezzo ad una strada. Accesso dopo accesso, rinvio dopo rinvio.
Per questa mattina l’Ufficiale giudiziario aveva lasciato intendere che la Polizia avrebbe mostrato i muscoli, provando a sgomberare l’alloggio con la forza. È per questo che i solidali si sono radunati fin dall’alba, alcuni per resistere in strada, altri pronti a barricarsi in casa con gli occupanti. Col passar del tempo il presidio si ingrossa e compaiono altri striscioni, in italiano e in arabo. Alla fine ci sono tutti: parenti, amici, le mamme della scuola (gli sfrattati hanno una bimba che studia) e i ragazzi del dopo-scuola, altra gente sotto sfratto che proprio in questi mesi sta resistendo, altri sgomberati che non hanno fatto in tempo a farlo, passanti che si fan dare dritte e consigli perché anche loro temono di finire in mezzo ad una strada e altri ancora che in mezzo ad una strada ci stanno da una vita. Una settantina di persone, italiani e stranieri assieme, a bere tè caldo e mangiar biscotti di fronte al portone.
In un angolo a distanza, la Digos e gli agenti del commissariato di zona contano e ricontano i presidianti. Quando arriva l’Ufficiale giudiziario, accompagnato dal proprietario e dal fabbro, non trova molto da fare: vista la situazione si apparta con gli altri a confabulare, e ne esce con l’ennesimo rinvio, questa volta di due mesi. Un poliziotto in borghese sfoga il proprio disappunto apostrofando uno dei solidali che in quel momento sta in disparte: «Grassone di merda, prima o poi ti spacchiamo il culo!». Un altro si esibisce in commenti poco raffinati su di una ragazza del picchetto.
Poi il picchetto festoso si trasforma in un piccolo corteo intorno al mercato; slogan megafono e tamburi per raccontare ai passanti che resistere agli sfratti si può, che una casa ce la debbono avere tutti, che pretendere l’affitto è una porcheria e che se i poveri si danno una mano i ricchi rosicano. Il capo del commissariato, imbufalito, insegue il corteo; molti passanti ascoltano i discorsi e tanti si fermano a parlare. In mezzo i tre sfrattati mancati: la bambina sorride e corre, come è ovvio, mentre i suoi genitori camminano composti, con la faccia seria di chi ha preso il coraggio a due mani e ha vinto la scommessa ma che sa che c’è ancora tanto da fare.
La storia sarebbe finita qui, non fosse per un’ultima scena illuminante proprio alle ultime curve del corteo. Dalla Tettoia dell’Orologio escono due salumieri che sfanculano di brutto i manifestanti. Hanno le loro ragioni ad essere ancora più sguaiati e furiosi dei poliziotti: «provateci voi, stronzi, ad aver due appartamenti dati in affitto, e trovarvi con gli inquilini che non vi pagano…».
Questioni di punti di vista, in effetti, o meglio ancora di classe. In ogni senso.