Discorsi da bar

Giusto un paio di giorni fa un redattore di //Macerie e storie di Torino// si trovava a passare per piazza *** quando vi ha incrociato G., un compagno che è di casa in quel quartiere.

G. è giovane giovane, entusiasta di tutto e assetato di esperienze, non ancora intruppato in alcuna delle conventicole più o meno sovversive che punteggiano la città. A noi i giovani piacciono così: che saltellino a destra e a manca per un po’, che si affinino il naso nelle iniziative, e che scelgano con calma e a ragion veduta quali saranno i loro compagni senza stare a prestare giuramento alla prima bandiera incontrata per la via – tantomeno alla nostra, s’intende.

Contento di vederlo, il nostro redattore si è fermato a fare quattro chiacchiere con lui; e visto che quelle quattro chiacchiere han promesso subito di volgersi in qualcosa di più impegnativo, i due si sono accomodati dietro il bancone di uno dei bar della piazza. Il tema della discussione è presto detto: l’idea che sta circolando in queste settimane in alcuni degli ambienti militanti torinesi, raccontata da G., di costituire una rete che allarghi il fronte della resistenza agli sfratti in città. Una “Rete sociale” che dovrebbe arrivare a coprire ogni quartiere, con sportelli decentrati ma anche iniziative comuni. Non una cosa che nasce dal niente, per carità; di gruppi che si occupano di sfratti a Torino ce ne sono già e poi c’è a disposizione quella piccola galassia di collettivi, sezioni di partito e sindacati di base che abitualmente fanno altro ma che periodicamente si incontrano, si scontrano, si lasciano e si reincontrano: ognuno ora si vedrebbe assegnata una zona da seguire, pur sotto la supervisione “tecnica” di chi ha più esperienza in questo campo. Sarebbero già quasi pronti, da quel che si dice, manifesti e volantini; e pure si starebbe pensando a presentarsi al grande pubblico, indicendo già nelle prossime settimane un bel presidio sotto al Municipio.

Nel raccontare questa proposta, G. si confessava indeciso. Da una parte, diceva, c’era la possibilità finalmente di essere in tanti, e ben coordinati: «pensa ai martedì di Barriera, San Paolo e Porta Palazzo» – diceva – «moltiplicati ai quattro angoli della città! Cosa potrebbe fare la polizia? E gli assessori come la aggiusterebbero?». D’altra parte, invece, non capiva perché coinvolgere in questa rete sezioni di partito («Ce li vedi quelli di ** a spostare cassonetti alle sei del mattino?») ed escludere invece alcune esperienze di resistenza già navigate che esistono in città, come l’assemblea che si riunisce a Porta Palazzo, assegnando i quartieri dove queste sono attive ad altri gruppi della rete («Ma ce l’hanno con voi?»).

Quello posto da G. è senza dubbio un tema sugoso, ed interessante e piacevole è stata la discussione che il nostro redattore ha avuto con lui nel bar di piazza ***. Nei giorni successivi, quegli argomenti e quelle confutazioni ci son frullati nella testa riordinandosi un poco ed ora ci piace riassumerli ad uso di chi ci legge abitualmente – e legge dunque tanto spesso di sfratti e di resistenze agli sfratti. Al di là della stretta contingenza di una proposta o di una discussione, qualche riflessione sul funzionamento della lotta contro gli sfratti in città cui alcuni redattori di //Macerie e storie di Torino// partecipano, insieme a tanti altri, compagni e non compagni.

 

I sogni e le mani

Senza dubbio, a combattere contro gli sfratti a Torino manca gente. Se il terzo martedì di ogni mese le resistenze invece di esser concentrate nella Barriera di Milano, a Porta Palazzo e a San Paolo, fossero estese anche alla Falchera o a Vanchiglia o a Mirafiori sarebbe un gran guadagno per tutti. La Questura dovrebbe impegnare ancora più forze, dovrebbe far su e giù con le camionette per tutta la città, dovrebbe mostrare un po’ a tutti la faccia brutta che fa ogni mese dalle nostre parti quando esibisce i muscoli per (non) riuscire a sbattere in strada inquilini morosi e gente indebitata con le banche. Non sappiamo se si arriverebbe a farle cambiare strategia; ma sappiamo che la resistenza complessivamente sarebbe più forte. E poi, una Torino con barricate ad ogni angolo è un sogno che non vediamo l’ora di toccare con mano.

Non solo; chi partecipa alla resistenza nei quartieri lo sa bene: arriva sempre qualcuno che sta per perdere la casa, magari pronto a mettersi in gioco e a resistere, ma che abita troppo distante per poter entrare nella rete di solidarietà reciproca. Ogni giorno c’è uno sfratto, ogni settimana un’emergenza o un imprevisto e la macchina della resistenza funziona bene solo con persone che abitano a un tiro di schioppo l’una dall’altra, disposte a lasciare le proprie occupazioni di corsa e raggiungere il picchetto quando di fronte ad un portone si presenta un ufficiale giudiziario scassapalle o un padrone di casa troppo insistente, o una pattuglia imprevista. E pure più picchetti in contemporanea sono possibili per la stessa rete di resistenza solo se raggruppati nella stessa zona e in contatto tra loro. Per cui, quando non hanno la forza di resistere con forze proprie, questi sfrattati troppo lontani si ritrovano di fatto soli – e se non si arrendono di loro vengono vinti facilmente dalla polizia. Ci fossero nuclei di resistenza più diffusi sul territorio nessuno rimarrebbe solo e, di nuovo, ne verrebbe un gran guadagno per tutti. Diciamolo pure: se la capillarità e l’efficacia della resistenza che c’è ora nella Barriera di Milano e a San Paolo fossero estese al resto della città la famosa moratoria sugli sfratti… sarebbe bell’e che fatta, e senza andare a chiederla a nessuno.

 

Pizzicotti

Però la proposta che ci ha raccontato G., per come abbiamo visto funzionare concretamente la macchina della resistenza, nel nostro quartiere, nell’ultimo anno, non ci sembra possa andare in questo senso.

Una notazione banale: si riesce a resistere bene, e a lungo, solo dove sono nati legami fortissimi di solidarietà reciproca tra sfrattati. Il modello “gruppo militante che organizza il picchetto, sfrattato che si fa aiutare e ringrazia”, oltre ad essere più cattolico che sovversivo, non funziona quando gli sfratti vanno oltre un certo numero. Può permettersi, un qualsiasi collettivo torinese, di impegnare almeno quindici dei suoi militanti due-tre mattine alla settimana per mesi interi? E quando c’è più di un picchetto lo stesso giorno, quanti militanti bisogna avere sottomano? E quando c’è un imprevisto, o un’altra iniziativa, o un processo? Quanta gente (per di più sempre libera la mattina) ci dev’essere in ciascun collettivo, partitino e sindacato di base torinesi per non rischiare di fare più male che bene giocando di fatto con la casa della gente? Niente da fare: non può essere il “movimento”, quello dei gruppi e dei collettivi, a doversi far carico della situazione; dev’essere invece il movimento reale a muoversi, devono essere gli sfrattati stessi. La mentalità «sei sotto sfratto? ci pensiamo noi!» – slogan indigeribile per chiunque apprezzi Bakunin ma che, scusate lo sconfinamento, anche Marx non avrebbe apprezzato troppo – va invece nella direzione contraria. Direzione che sembra facile all’inizio, giacché il proletario medio torinese, autoctono o immigrato che sia, è disabituato alla lotta e non chiede altro che qualcuno ci pensi al posto suo e gli dia una qualche garanzia di riuscita evitandogli troppi sbattimenti. Ma poi serve altro, per l’appunto, e sono cazzi.

Visto il trentennio di pace sociale che abbiamo alle spalle non abbiam potuto accumulare una grossa esperienza sul come si faccia a dare i pizzicotti al movimento reale. Sta il fatto che per quanto riguarda il tema limitato degli sfratti abbiamo visto che se si va piano piano e con metodo qualcosa si muove. Finché ci conosciamo solo con Mohammed, che resiste una volta ogni due mesi, bastiamo noi. Poi, quando arriva Giovanni lo facciamo conoscere a Mohammed, e ce lo portiamo da Vasile che è arrivato subito dopo. A tutti diciamo «siete sotto sfratto? ci dovete pensare voi!». All’inizio nessuno dei tre ci dà retta: loro sono in tre, noi in venti, come potrebbero pensarci davvero loro? Però, intanto, Giovanni ha capito il meccanismo e ci prende gusto e pure Mohammed si fa vedere sempre più spesso. Uno dopo l’altro arrivano gli altri: senza neanche un briciolo di pubblicità, la possibilità aperta dalla resistenza corre di bocca in bocca, viaggiando sul filo delle conoscenze, così la crescita è continua ma senza brusche scosse. Ogni persona che arriva è un impegno in più, ma è anche uno in più che dà una mano e si trova davanti prima due, poi tre, poi cinque sfrattati come lui che san già come funziona. Fossero arrivate trenta persone tutte assieme, all’improvviso, con tutta l’abitudine alla delega e al «pensateci voi, che ne siete capaci» avrebbero trovato noi, Giovanni e forse Mohammed e avrebbero detto: «sì, ci pensano loro che ne sono capaci». Certo, nessuna linearità, gente che si è seduta sulle energie altrui aspettando la grazia dal cielo o dai compagni ce n’è stata e ce ne sarà a bizzeffe. Ma ora, bene o male, a organizzare le resistenze assieme sono una quarantina di sfrattati e chi non si fa mai vedere sotto al portone degli altri fa la figura dello stronzo giacché ora ognuno vede che è davvero possibile pensare al proprio sfratto e a quello degli altri. Se è basata su rapporti reali, la rete di resistenza – compagni e sfrattati assieme – riesce a porsi all’altezza dei compiti che si dà. Solo nelle giornate campali, quelle dei dieci sfratti tutti in una volta, non riesce a bastare a sé stessa e richiede compagni in più disposti a svegliarsi presto a presidiare i portoni. Ma far barricate coi cassonetti una volta al mese, e ad una data stabilita, è un’attività piacevole e i compagni in questo senso sono ben disposti a sbattersi, e addirittura a viaggiare. Per far tre picchetti alla settimana, con o senza barricate, invece no.

Problema risolto? Formula buona per tutte le occasioni? No di certo. Siam sicuri che altri – che pure sono sempre stati sempre in prima fila ad organizzar la resistenza – vi racconteranno percorsi diversi, eppure vivi e funzionanti. Però l’idea di partire da raggruppamenti militanti che si spartiscono il territorio al di là della loro presenza reale nei singoli quartieri, con volantinaggi di massa, e referenti e numeri di telefono, va nella direzione opposta. Così facendo si dice semplicemente più forte «ci pensiamo noi!», e più forte lo si dirà, e più gente ci crederà, più difficile sarà essere all’altezza della situazione.

 

A che punto siamo?

Il livello, poi. Più le settimane passano, più le resistenze si accumulano, più i picchetti diventano veri. Che vuol dire? I picchetti antisfratto sono, per loro natura, metà teatro e metà lotta. Funzionano sul fatto che l’Ufficiale Giudiziario non vuole grattacapi e la Questura nemmeno, e bastano quindici persone davanti alla porta che dichiarino di non volersi muovere perché tutto si risolva in una proroga concessa civilmente da un tranquillo ufficiale giudiziario – sempre che i padroni di casa non insistano troppo, e allora la sceneggiata si prolunga. Basterebbe non tirar troppo la corda e limitarsi a due-tre rinvii perché tutti – noi, gli ufficiali giudiziari e i questurini – si viva tranquilli. Ci son state varie eccezioni, ma soprattutto una volta la norma era più o meno questa qui. Ora però la situazione si sta facendo più tesa: intanto perché la corda bisogna tirarla per forza, che la gente se la vuol tenere il più possibile la casa, ed è giusto che sia così; poi perché in certe zone gli ufficiali giudiziari non riescono più a lavorare, talmente capillare è la resistenza, e questo fa andare in fibrillazione i loro capi e le associazioni di categoria dei proprietari; ancora, perché gli ufficiali giudiziari hanno perso il loro aplomb, scappano davanti ai picchetti, non consegnano le proroghe, si nascondono dietro gli angoli; ultima ragione, ma non in ordine di importanza, perché gli sfrattati ci han preso gusto a resistere, e si divertono, e quando riescono ad agguantare un ufficiale giudiziario non gli portano più, diciamo così, tutto il rispetto che si deve ad un Pubblico ufficiale. Ne consegue, dunque, che i picchetti perdano man mano il loro carattere teatrale; si sta lì non per farsi contare sicuri che il numero basti, ma per resistere davvero se serve. Ogni picchetto un po’ sguarnito o disattento potrebbe essere attaccato, anche solo con la scusa di proteggere l’ufficiale dalle ruvidezze degli sfrattati.

Questo è il livello dei picchetti ordinari, quello dei terzi martedì del mese lo conoscete già. Ora, in lotte come queste, bisogna saper mantenere la posizione (il livello dello scontro, si sarebbe detto una volta). A star bassi si dà un brutto segnale, e si rischia pure di essere quelli che alla fine se le pigliano giacché la polizia con qualcuno alla fine dovrà pure sfogarsi; oppure, peggio ancora, si rischia di voler fare la figura dei bravi ragazzi, quelli tranquilli con i quali le autorità finalmente possono dialogare – e questo significherebbe spaccare, di fatto, il “fronte” della resistenza. Ma, come ci faceva notare il nostro amico G., ce li vedreste mai quelli del partito tale o del sindacato talaltro affrontare una situazione del genere? Coi cassonetti, l’ufficiale che sclera e magari la celere che fa la mossa di caricarti? No, evidentemente no. Questi potrebbero sostenere solo il lato teatrale dei picchetti; e mica per viltà – che non è un problema di coraggio – ma per scelta, modo di pensare, opportunità politica. A pensar male si fa peccato ma non si sbaglia mai: sarebbero loro l’ala “dialogante”, che tira la resistenza verso il basso con danni e demoralizzazione per tutti – e nessuno se ne potrebbe poi lamentare. In generale, ci sembra che sia passato il tempo in cui si potevano pensare i picchetti non tanto come forma di resistenza concreta degli sfrattati ma come momento per “rendere pubblico” il problema degli sfratti in città e far dunque pressione sull’Amministrazione. Ve lo ricordate? Comunicati stampa prima e dopo, inviti ai giornalisti, video ed interviste con in mezzo tutte le vicissitudini della famiglia coinvolta, i nomi, gli appelli e le accuse alle autorità… Per fortuna si è scoperto che la resistenza può trasformare davvero le disgrazie individuali in rabbia e voglia di lottare assieme e non è certo compito nostro fare passi indietro per poi ritrovarsi ad amplificare lamentazioni.

 

La testa, i piedi, la politica

Fossero solo così le cose ci limiteremmo a dire che, per quanto ne abbiam capito, questa proposta di rete cittadina è semplicemente una roba fatta all’incontrario, che cammina sulla testa anziché sui piedi e che non tiene affatto conto delle dinamiche concrete della lotta. Meglio per tutti sarebbe tener le cose come stanno, visto che tra l’altro dove la lotta è reale le cose procedono bene e pure gruppi con esperienze e prospettive dissonanti riescono a parlarsi – si tratti di dritte pratiche, consigli legali o di darsi manforte in caso di bisogno – senza accordi preventivi formalizzati o assegnazioni di territorio che ricordano il Basso Medioevo. Niente di grave: a noi è capitato spesso di fare proposte strampalate o, come dicon spesso altri, “velleitarie”. Ma questa lo è talmente tanto che, da quanto abbiam saputo poi, alcuni dei gruppi che si sono visti assegnare zone da difendere… non ne sapevano niente!

Ma le cose non stanno semplicemente così. Questa rete cittadina, con tutto il suo corollario di sottoproposte, ha un’altra valenza che non c’entra affatto con l’allargamento della resistenza agli sfratti. Tanto che, secondo chi la propone, le prime iniziative comuni dovrebbero partire tra un paio di settimane; prima ancora, cioè, che sia materialmente possibile per i vari gruppi prendere contatti nel territorio ed organizzare i picchetti nei feudi che sono stati loro concessi. La tempistica rivela molte cose: una rete siffatta non mira affatto ad essere uno strumento di allargamento della resistenza agli sfratti, e poi di eventuale coordinamento tra realtà in lotta quando queste esistono (e realtà in lotta vuol dire sfrattati che resistono, lottano, e se sembra loro il caso si parlano, non gruppi di militanti che il lunedì manifestano contro gli sfratti, il martedì per il “diritto allo studio”, il mercoledì contro il Tav, ecc.); mira invece ad essere semplicemente un organo di rappresentanza politica.

Badate bene: non pensiamo affatto che ogni passo di ogni lotta vada affrontato sempre in termini collettivi dal pezzo di città che ne è direttamente coinvolto. Gli sfrattati che riescono a resistere da soli ai proprietari e all’ufficiale fanno parte di questa lotta esattamente come tutti quelli che si sono incontrati e si difendono a vicenda. Così come ne farebbe parte e riscuoterebbe tutta la nostra simpatia chi – magari indignato dalla drammaticità che sta assumendo il tema della casa a Torino – andasse a tirar due sberle ad un assessore o a qualche pescecane del mattone, senza parlare a nome d’altri o metterci il marchio della propria parrocchia.

 

Questioni di forza

Ma qui le iniziative non sono né di resistenza concreta ai singoli sfratti né di inceppamento del “sistema” che butta in mezzo alla strada la gente. Sono presidi sotto al Municipio: chi propone quella rete, dunque, vuole semplicemente andare a trattare col Sindaco. Magari a nome di tutti, anche di quelli che dal Sindaco o dal Prefetto non ci vogliono andare; ma se fosse anche a nome proprio, tratterebbe facendosi forte della forza espressa da tutti. Che peso possono avere per l’Amministrazione le parole lanciate da un megafono in Piazza Palazzo di Città? I dati sugli sfratti a Torino il Sindaco li conosce meglio di noi, così come sa meglio di noi come fare a metterci una pezza. La pezza non ce la mette non certo perché nessuno gliel’è mai andato ad urlare davanti al portone ma perché il suo lavoro, proprio in quanto Sindaco, è quello di difendere gli interessi di classe dei proprietari e dei banchieri e quella pezza ai proprietari e ai banchieri non andrebbe giù. Certe misure – lui, il Prefetto e tutti gli altri della banda – le potrebbero prendere in considerazione solo se messi con le spalle al muro dall’insubordinazione sociale. In soldoni: se mai ci sarà, la moratoria sugli sfratti sancirà legalmente il fatto concreto che gli sfratti non si riescono più ad eseguire grazie alla resistenza diffusa; nella stessa maniera, assegnazioni veloci ed ampie di case popolari ci saranno quando un bel po’ delle centinaia di alloggi ATC vuoti saranno occupati abusivamente, a viso aperto e ben difesi.

Possiamo anche capire che a far richieste sotto al Municipio ci vadano segmenti del movimento reale che si sta battendo davvero contro gli sfratti; a noi farebbe venire il latte alle ginocchia, però è pure vero che non esistono verità di fede infuse dal cielo e che ciascuno deve saper accumulare autonomamente esperienze, delusioni ed ancora esperienze. Ma se ad andarci sono i gruppi militanti variamente assortiti, soprattutto in un momento come questo e col metodo proposto per questa rete cittadina, siamo convinti che lo facciano perché pensano che la forza finora assunta dalla resistenza diffusa possa dare loro una qualche credibilità di fronte alle istituzioni e al grande pubblico. E sperano di essere quelli che, se mai verrà il momento buono e quella forza sarà sufficiente, passeranno all’incasso assumendosi i meriti dell’impresa. Un piano troppo diabolico per essere vero? Si chiama, semplicemente, politica. E il suo unico rapporto con il fatto concreto dell’insubordinazione sociale che si sta diffondendo intorno agli sfratti è di tipo parassitario.

 

Trucchetti

Di qui in poi si spiega tutto. Dal magheggio più becero: chi propone la Rete cittadina «sta lavorando» nell’ombra affinché la questione sfratti sia messa nell’Ordine del Giorno di una seduta del Consiglio in modo da avere una scusa buona per fare il primo presidio di fronte al Municipio. Alle alleanze con le sezioni di partito: una sponda istituzionale, pur sfigata, da vezzeggiare o scaricare alla bisogna. Dall’equilibrio con il quale si scelgono i vassalli cui infeudare i vari quartieri: per metà fedelissimi o diretta emanazione di chi propone la Rete e vuol far la parte dell’Imperatore. All’assegnazione stessa dei singoli territori, per cui chi ha lanciato la proposta si tiene la Barriera di Milano, vale a dire il quartiere dove la resistenza ha assunto le forme più vaste e vistose anche se finora… facendo allegramente a meno di lui.

Insomma, a noi sembra che questa rete cittadina sia il tentativo un po’ maldestro di rimontare in sella da parte del gruppo militante che negli ultimi tempi è rimasto più all’angolo rispetto alla questione sfratti, a scapito del resto degli altri gruppi e, cosa ben più grave, del movimento reale. Ovviamente non possiamo sapere che futuro avrà la proposta che raccontava G. al nostro redattore; se troverà riscontri negli ambienti torinesi, e quanta forza avrà nelle gambe. Se seguirà i percorsi che ci è parso di intuire e che vi abbiamo tanto lungamente illustrato. Staremo a vedere, pronti anche a sorprenderci. E se fosse semplicemente un fuoco di paglia… ne avremo guadagnato comunque una bella discussione nel bar di piazza ***, e poi una buona occasione per chiarirci un poco le idee su quel che facciamo, sulle lotte, sui traffici della politica e della militanza. E farvene partecipi.