Collassi

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Un paio di settimane fa veniva distrutto il Centro di Gradisca, il settimo CIE a chiudere in Italia. Sembrerà scontato, ma è meglio ribadirlo prima che qualche politicante più o meno sinistro pensi di attribuirsi meriti che non ha: questi Centri sono stati formalmente chiusi perché un funzionario ministeriale ne ha ordinato lo svuotamento, ma di fatto sono stati distrutti dal fuoco delle rivolte dei reclusi. Sette su tredici sono chiusi, e anche quelli che restano non se la passano molto bene. Considerando il ritmo con cui sta perdendo i pezzi, si potrebbe affermare che la macchina delle espulsioni è vicina al collasso. A voler essere sinceri, se proprio bisogna parlare di collassi, bisognerebbe anche dire qualcosa sul collasso che sembra aver colpito il variegato movimento che negli anni ha sostenuto le lotte dei reclusi. Proprio in uno dei momenti di maggiore forza e incisività delle lotte dentro le mura dei Centri, fuori non si muove quasi nulla. Sarebbe importante tentare qualche ragionamento in proposito, ma lasciamo temporaneamente da parte queste riflessioni.

La macchina delle espulsioni è chiaramente in crisi, e non c’è bisogno di essere dei fini studiosi di filosofia politica per capire che dietro ogni cosiddetta crisi si nasconde la possibilità di una ristrutturazione. Potrebbe sembrare che al Ministero dell’Interno se ne stiano con le mani in mano, ma quasi certamente qualcosa stanno pensando e facendo. Le notizie ufficiali in merito sono poche, ma ad esempio sappiamo che il prossimo anno potrebbero riaprire i CIE di Bologna e Modena. E in più c’è sempre in ballo la costruzione di due nuovi Centri a Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e Palazzo San Gervasio (Potenza). Aperti in fretta e furia due anni e mezzo fa nel pieno della cosiddetta “Emergenza Nord Africa” e rimasti in funzione soltanto pochi mesi, dovevano riaprire entro la fine di quest’anno, ma dopo che il Governo ha bandito le gare d’appalto e stanziato i fondi per la ristrutturazione non se n’è più saputo nulla.

Come ogni ristrutturazione che si rispetti, anche quella dei CIE non è solo questione di appalti per la costruzione di mura, reti e sbarre. Qualunque dispositivo repressivo ha bisogno anche di idee e teorie su cui fondarsi e rinnovarsi, e pure su questo fronte qualcosa si sta muovendo. A marzo 2013 è stata pubblicata una proposta di riforma dei CIE, scritta da Connecting People e Fondazione Xenagos. Stanchi di ricevere continui «attacchi da più fronti in qualità di temibili aguzzini» Maurino e soci hanno messo nero su bianco le loro loro idee per una «riforma copernicana» della macchina delle espulsioni. Tra le proposte più inquietanti c’è quella di impiegare i reclusi in attività lavorative, una novità trasformerebbe i CIE in veri e propri campi di lavoro, a tutto vantaggio di chi li gestisce. Da parte sua, dopo una campagna oramai decennale, addirittura la Croce Rossa è costretta ad abbandonare per un attimo i giochi di parole intorno alla propria presunta imparzialità e a scoprire finalmente la differenza tra il concetto di “accoglienza” e quello di “espulsione”. Sei mesi fa è anche stato pubblicato il documento programmatico sui CIE, un lungo lavoro di analisi sulla condizione dei Centri redatto da una commissione di funzionari del Ministero dell’Interno. Ossessionati dalla razionalizzazione della macchina delle espulsioni, giudicata costosa e inefficiente ma sopratutto messa a dura prova dagli «episodi, attuali o potenziali, di insurrezione o di grave danneggiamento», i funzionari hanno elaborato alcune proposte.  Per tenere sotto controllo la situazione, già sfuggita di mano troppe volte, al Ministero stanno studiando «la creazione di un corpo di operatori professionali, cui affidare la gestione delle attività che prevedono un contatto diretto con gli ospiti dei Centri». Squadre di para-secondini privati, per capirlo basta leggere come se lo immaginano al Ministero questo nuovo corpo di operatori professionali: «operatori specializzati, preparati attraverso corsi specifici di formazione e addestramento, organizzati anche con il contributo dell’amministrazione penitenziaria, che affiancherebbero le forze dell’ordine». Nei progetti dei funzionari l’integrazione della macchina delle espulsioni all’interno del circuito carcerario non si limiterebbe soltanto all’addestramento di guardiani, ma comprenderebbe anche «la realizzazione (all’interno delle carceri) di una struttura mista, composta da personale della polizia penitenziaria e della polizia di stato» in modo da identificare per tempo i detenuti senza documenti. Una proposta che da qualche tempo viene sostenuta anche da qualcuno che chiede la chiusura dei Centri. Una su tutti la friulana Serena Pellegrino, sinistra, ecologica e libera, che sull’onda delle rivolte di Gradisca ha chiesto modifiche legislative che consentano «le identificazioni degli ex detenuti, che sono moltissimi, durante il periodo in cui sono in carcere».

In attesa di capire cosa succederà nelle prossime settimane dentro, fuori e intorno ai CIE, vediamo come sono messi i sei rimasti in piedi.

Milano. Ristrutturato meno di tre mesi fa, dopo una serie di lavori che ne avrebbero dovuto migliorare gli standard di sicurezza e impedire rivolte, il Centro è di nuovo praticamente distrutto e sono rimasti 28 posti. Dopo l’ultima rivolta e in vista del rinnovo dell’appalto di gestione, la Croce Rossa ha deciso di piangere miseria e alzare la posta: evidentemente la gestione di un CIE è diventata un affare sempre meno conveniente in termini economici e di immagine.

Torino.  Il Centro è mezzo distrutto: un’intera area è chiusa, le altre cinque sono tutte tutte più o meno seriamente danneggiate e quindi nella struttura sono rimasti solo 98 posti. I danneggiamenti più consistenti risalgono allo scorso mese di luglio, quando anche l’area bianca, appena ristrutturata e pensata per essere l’area anti-rivolta, venne distrutta e incendiata. Come a Milano, anche a Torino la gestione è da tempo affidata alla Croce Rossa e l’appalto scadrà la prossima primavera.

Roma. Non si hanno più notizie dal CIE di Roma dall’ultima grande rivolta dello scorso febbraio, quando il fuoco distrusse gran parte del Centro e lo rese per diversi giorni praticamente inagibile. L’assenza di notizie è un segno evidente che la gestione della Cooperativa Auxilium sta dando i suoi frutti nel sedare e silenziare le proteste dei reclusi. Una gestione elogiata un po’ da tutti: tra gli estimatori della cooperativa troviamo tanto funzionari del Ministero quanto rinomati poeti di sinistra.

Bari. Le ultime proteste significative risalgono a oltre due anni fa, ma l’opera di distruzione del Centro da parte dei reclusi è sicuramente continuata senza sosta, anche senza far notizia. Il CIE è mezzo distrutto e un gruppo di avvocati ha promosso una class action per costringere il Prefetto a prendere atto del fatto che nel CIE sono rimasti 112 posti. Da sei mesi la gestione del Centro è affidata agli operatori Connecting People, i colleghi di quelli che gestivano fino a due settimane fa il Centro di Gradisca.

Caltanissetta. Dopo un’estate bollente scandita da rivolte e evasioni, a settembre è stato definitivamente chiuso uno dei tre padiglioni del Centro, dove rimangono 70 posti disponibili. Da ottobre la gestione è stata affidata alla Cooperativa Auxilium, la stessa che gestisce il Centro di Roma. Pur avendo ricevuto recentemente i complimenti dal vescovo monsignor Russotto e da un gruppo parlamentari grillini, è abbastanza evidente che i nuovi gestori non hanno la situazione sotto controllo. Nell’ultimo mese infatti ci sono stati almeno tre tentativi di evasione, accompagnati da scontri con la polizia.

Trapani Milo. Immerso nella campagna trapanese, lontano dai centri abitati, è rinomato per essere il CIE delle fughe. Anche se la polizia le ha provate tutte, arrivando addirittura a togliere i lacci delle scarpe ai reclusi, la metà dei senzadocumenti che passa di lì riesce a scappare. Nel tentativo di metterci una pezza il Ministero ha recentemente stanziato più di 600 mila euro per mettere in sicurezza il Centro e il Prefetto ha revocato la gestione alla cooperativa Oasi, bandendo una nuova gara d’appalto. Intanto dal CIE di Trapani, in massa o a gruppetti, si continua sempre a scappare.