Dicembre a Torino
Ripubblichiamo qui sotto un contributo alla riflessione sulle giornate torinesi del 9, 10 e 11 dicembre passati. A parte qualche scarna cronaca di quei giorni, si tratta di uno dei pochissimi contributi di parte anarchica uscito sull’argomento che tenti di comprender cosa sia successo a Torino in quei giorni senza ricondurre tutto in facili schemi precostituiti. Uno scritto personale ma non individuale, come precisa l’autore, frutto anche e soprattutto delle discussioni che si sono svolte tra i compagni di qua da quell’inizio di dicembre fino ad oggi.
Torino, 9 dicembre. Note su una comunità impossibile.
Un contributo personale che traccia qualche riflessione sulle giornate torinesi del 9, 10 ed 11 dicembre. Giornate di blocchi stradali generalizzati, picchetti contro la grande distribuzione e cortei per le strade del centro. Giornate strane. Le righe seguenti sono frutto di un modesto sforzo personale, come si è detto, ma non individuale. Traspongono infatti un’ insieme di chiacchiere, confronti, scambi di impressioni che si sono svolti, tra compagni, durante e dopo i blocchi, tra una levataccia e un caffè nel bar più vicino.
Cosa è successo il 9 dicembre per le strade di Torino? Si è fatto un gran parlare, con allarmismo o interesse, del susseguirsi di blocchi, cortei e azioni di protesta che hanno attraversato la città per tre giorni, intralciando e rallentando i flussi di merci come la circolazione delle persone. Molto è stato detto in proposito sia per descrivere l’andamento delle giornate che per chiarirne la natura sociale e politica. Quali ordini del discorso parlano in una composizione sociale così varia e apparentemente anomala? Che fenomeno leggere in riferimenti così marcati all’appartenenza nazionale? Come articolare le rivendicazioni specifiche di corpo che hanno originato la mobilitazione con il disagio sociale diffuso che è arrivata a esprimere? Ma soprattutto che fare? Stare a casa, magari esprimendo critiche sprezzanti, o scendere in strada? E ancora assistere, partecipare o addirittura provare a organizzarsi? Queste sono soltanto alcune delle domande intorno a cui, nelle settimane successive, si è dipanato un dibattito vivace e ricco, perlopiù avvenuto su internet, che ha visto confrontarsi grossomodo tutte le tendenze di quelle galassia composita che viene designata come “movimento antagonista”. Noi che, sia detto di sfuggita, in questa frastagliata compagine facciamo volentieri a meno di riconoscerci, prendiamo comunque atto di come queste giornate siano uno spartiacque. Uno spartiacque tra chi, dentro il “movimento”, non ha disimparato l’esercizio della critica come intelligenza pratica e quelle componenti che invece, per motivi diversi, si confermano totalmente incapaci di cogliere la forza sociale delle classi subalterne laddove essa si manifesti, cioè fuori dalle immagini rassicuranti della narrazione ideologica. A liquidare i comportamenti di insubordinazione che si sono dispiegati sono stati in molti, seppure quasi nessuno a Torino, e con ragioni diverse: qualcuno perché avvoltolato in triti schemi ideologici terzinternazionalisti incentrati sulle foto di repertorio di una classe lavoratrice dal volto atemporale, qualcun altro perché impantanato nei controsensi di chi muove i propri passi sempre orientato secondo le coordinate di un orizzonte politico di sinistra tutto interno agli interessi delle classi dominanti. Se ci siamo risolti a scrivere queste righe nonostante il colpevole ritardo non è per completare il quadro delle posizioni che hanno offerto la propria descrizione dei fatti, per aggiungere la sfumatura antiautoritaria alle altre opzioni che hanno avuto voce. Si tratta piuttosto di trascrivere un fitto e animato confronto che si è svolto tra chiacchiere durante i blocchi, discussioni in assemblea e a tu per tu. Sarà utile dare un po’ di ordine ai pensieri ed agli spunti che ci siamo scambiati finora, con la serena consapevolezza dei limiti del proprio intervento e della propria capacità progettuale. Anche la mera descrizione dei fatti e delle esperienze soggettive può essere un utile strumento d’avvio perché, nelle occasioni future, ci si possa guardare intorno con maggiore prontezza e farsi trovare più preparati.
- Una piccola premessa di metodo
Quello che abbiamo visto in città non può essere in alcun modo qualificato come movimento. Sarebbe un ben strano movimento quello che aldilà di una pratica del blocco attuata con maggiore o minore determinazione, non conosce alcun contenuto o programma in comune. Si è trattato piuttosto di un proliferare di azioni e pratiche nelle diverse parti della città, che hanno comunicato ma non hanno avuto un centro direttivo. Quest’ultimo, se mai ne è esistito uno, è stato attivo soltanto nell’avviare e concludere la protesta.
Lo sviluppo e la fisionomia di ciò che si è aggregato in strada varia parecchio secondo il quartiere e la zona della città. Varia al punto da suggerire una polarizzazione tra centro e periferia e un’altra tra strada e piazza come rispettivi luoghi di intervento. Questa variazione di intensità e di modi muta a sua volta registro nei tre giorni, ma perfino in base all’orario della giornata. Al mattino gli studenti, soprattutto degli istituti tecnici e professionali, si assembrano in piazza Castello, dove gli organizzatori si danno appuntamento e dove il primo giorno la rabbia della piazza si scaglia contro la Regione e le forze di polizia schierate a difenderla. Invece nei blocchi di periferia (P.za Derna, P.za Rebaudengo, P.za Pitagora etc.) la gente del quartiere rimane perlopiù stanziale, rimandando mattina per mattina l’appuntamento e ricominciando a bloccare. Emblematico l’esempio di piazza Derna, dove questi appuntamenti continuano anche diversi giorni dopo che nelle altre parti della città i blocchi sono stati rimossi.
La notte però ci sono ragazzi di periferia che prolungano i blocchi al centro, ad esempio in piazza Statuto, oppure ancora a Barriera o anche alle Vallette. Si verificano episodi davvero interessanti e difficilmente controllabili dalla polizia, che non vuole calcare la mano ma fatica a trovare interlocutori in adolescenti poco avvezzi alle trattative. La notte del 9 la polizia, dopo aver tentato per un’ora di trovare accordi con un pugno di ragazzi piuttosto ubriachi, carica su Corso Regina per interrompere dei blocchi a singhiozzo che si sono prolungati fin troppo nella zona tra Piazza Statuto e il Rondò della forca.
Dare una descrizione per sintesi è quindi impossibile. Sarebbe forzato e disonesto, perché riporterebbe inevitabilmente sulle narrazioni un filtro interpretativo parziale. Meglio accogliere questa parzialità dicendo che sarebbe stato perfino fisicamente impossibile vivere completamente le giornate di blocchi, troppo caotiche, troppo piene di episodi sparpagliati. Procederemo per aneddoti o per punti, partendo dall’esperienza soggettiva per affrontare questioni tematiche più generali. La scelta e la scansione di questi punti dipende tutta dalle urgenze e dalla sensibilità di chi scrive.
- Centro e Periferia, strada e piazza
Al centro si radunano, sin dalla tarda mattinata, numerosi cortei provenienti da altrettante zone della città. Si tratta dei cortei delle scuole superiori, perlopiù istituti tecnici e professionali, ma anche di mercatari e commercianti, soprattutto il primo giorno. Inoltre ci sono molti curiosi e persone che si guardano intorno. Si crea una situazione di fermento che sfocia negli scontri del nove, conclusi per l’interposizione di un cospicuo gruppo formato dagli organizzatori che si schiera come cordone sanitario tra la polizia e la parte restante della piazza, quella che fino a un attimo prima si stava battendo con la celere. Dal giorno successivo, appena la piazza comincia ad affollarsi, la componente organizzata proporrà sempre di muoversi verso altri obiettivi per sfoltire la presenza di fronte alla regione e la polizia. Questo non impedisce che le forme della protesta, dilatandosi per le strade del centro, risultino ancora più incontrollabili. Il secondo giorno si vedono cortei spontanei, principalmente di giovanissimi, aggirarsi senza una meta precisa tra una sede istituzionale dove scandire insulti a gran voce ed un incrocio da bloccare. Quando i cortei si incontrano è un casino della malora. Dalle urla sembra sempre che stia succedendo qualcosa di eclatante, mentre è solo l’euforia collettiva. Nella zona delimitata da Piazza Statuto, Porta Susa, Corso Galileo Ferraris da una parte e Il Rondò della forca dall’altra, i blocchi si moltiplicano con una tattica davvero efficace, ben lontana dalle modalità classiche della protesta. “Qui siamo abbastanza?“, “Bene, andiamo in dieci a bloccare anche quell’incrocio, così bastiamo”. Ci si distribuisce, unisce e divide secondo il criterio dell’efficacia pratica, senza alcuna fisima di essere sempre in tanti. In certi incroci qualche autista degli autobus, solidale con la protesta, scende dal mezzo lasciandolo di traverso e così facilita considerevolmente il completo arresto del traffico.
I blocchi di periferia si presentano altrimenti, seppure si debba considerare che buona parte degli studenti attivi in centro durante la mattina, ritornano il pomeriggio a bloccare nei loro quartieri di provenienza, cioè quelli periferici. Il blocco di P.za Derna è quello che abbiamo avuto modo di osservare più da vicino, essendo nel quartiere dove la maggior parte di noi abita. Si nota subito, tra chi presidia lo snodo, un forte tessuto di rapporti pregressi di tipo territoriale e amicale, di quartiere insomma. Si tratta dell’unica forma di comunità non improvvisata che abbia fatto capolino nella protesta. Al centro ci si conosce bloccando, ci si muove in capannelli di vicini, colleghi o compagni di scuola in mezzo a sconosciuti. Qui al contrario ci si chiama per nome, c’è una fittissima rete di relazioni che vanno dal vicinato alla parentela. Non a caso la percezione del resto dei blocchi, da parte delle persone che si incontrano è sintomatica. “Bisogna stare attenti perché qua c’è la gente del posto ma al centro è tutto diverso… al centro ci sono quelli di Forza Nuova, o comunque i politici… non bisogna mischiarsi”. Questa è la frase, riportata quasi letteralmente, di una donna presente al blocco. È una frase che riflette molto precisamente una diffidenza generica, quando non un’ostilità aperta, verso la componente organizzata della protesta. A questa avversione strisciante verso “i politici” o semplicemente “quelli che sanno parlare”, si aggiunge la resistenza istintiva a tutte le ipotesi che implicano lo spostamento verso le strade del centro. Subentra in più, da quando i blocchi cominciano ad essere sguarniti e la polizia presente in forze dal primo mattino, il senso di essere stati traditi. I commercianti riaprono già il secondo giorno, la maggior parte dei mercatari non resistono alla tentazione del Venerdì, giorno in cui gli affari fruttano di più, quindi i numeri si ridimensionano fino al definitivo spegnimento. Già il Giovedì mattina alle 6 in Piazza Derna ci sono meno di venti persone, ma in compenso le camionette e i defender cominciano ad essere parecchi. Uno dei presenti, pieno di risentimento e frustrazione, bercia più o meno le seguenti parole : “Io non ho nulla in contrario che qualcuno vada a parlare per noi, magari in televisione… però devi esserci sul campo di battaglia, dal mattino alla sera! Io ho paura che qualcuno ci voglia strumentalizzare. Se dopo tutto ‘sto casino ci troviamo ad aver mandato degli altri in poltrona io mi incazzo sul serio!” Un senso di insoddisfazione che si accentua dopo il flop del comizio in centro, quando il coordinatore nazionale del “Comitato 9 dicembre” parla di fronte ad una piazza vuota e morta. Da principio l’idea di muoversi in corteo verso il centro per ascoltare il comizio è rifiutata nettamente. Dopo di che c’è un’accesa polemica sul quando muoversi, perché la maggioranza dei partecipanti vorrebbe avvicinarsi al centro in un orario diverso da quello previsto, per spiazzare la polizia e creare più disordine. Come vengono accolte le istanza degli organizzatori se il punto di partenza è un disaccordo così forte? Non bisogna esagerare infatti questa linea di demarcazione, finendo per descrivere una base combattiva turlupinata da pochi manipolatori. Piuttosto la struttura di contenimento messa in campo va descritta sui due livelli di funzionamento che hanno agito, riconoscendone il radicamento nella lotta reale. Oltre ai coordinatori cittadini, visti come distanti ed estranei al contesto del quartiere, c’era un livello intermedio di commercianti e abitanti della zona, cinghia di trasmissione delle direttive del comitato, che ha ottenuto più credito e credibilità. Una forte efficacia l’hanno ottenuta anche le velate minacce, laddove chi media con la polizia agita le possibili conseguenze di una violazione degli accordi.
In piazza Castello la monotonia di un fallimento annunciato è interrotta solo dall’iniziativa di alcuni ragazzi che si avvicinano al palco urlando “Basta! Basta!”, ma vengono allontanati dagli organizzatori. Al ritorno il morale è basso e ci si sente sconfitti: sembra che “quelli che sanno parlare” abbiano avuto ragione degli altri, riuscendo a far abbandonare i blocchi con una trovata per l’occasione. Si continua però ancora per qualche ora a stare in Piazza e ci si da appuntamento per la mattina successiva.
In questo senso, anche nella testa di molti dei partecipanti, si può parlare di un utilizzo della centralizzazione come strumento per contenere e disinnescare la lotta. Riportare la protesta nel centro città significa anche in qualche modo riassorbirla nelle sue forme tradizionali e rituali, quelle della piazza. Per giorni ci si vede nella zona spartitraffico di una strada, ci si sposta per bloccare quelle circostanti, per impedire l’accesso alla tangenziale o picchettare l’Auchan. Poi si ritorna ai canali della protesta simbolica: non è fortuito che, la mattina del 12, gli studenti delle scuole di Barriera si spostino a manifestare in centro. L’anomalia delle giornate precedenti si appiattisce sui canoni delle manifestazioni ordinarie. La strada configura lo spettro di una lotta reale, laddove il blocco delle merci potrebbe risalire ai luoghi di smistamento e distribuzione, aprire spazi a pratiche più radicali e fattive. La piazza ristabilisce la normalità. I ragazzi che provano a continuare il blocco, sempre in meno, si rammaricano perché, dicono, “Se tutti quegli studenti fossero qui chissà per quanto ancora riusciremmo a bloccare”. Invece i numeri sono sempre più scarsi e la polizia assume un atteggiamento inflessibile. Solo alcuni giorni dopo la cessazione dei blocchi nel resto di Torino anche quello di P.za Derna finisce.
- Rapporto con la polizia
Anche per quanto concerne il rapporto con la polizia si deve rilevare una sostanziale alterità nell’approccio di chi ha attraversato le giornate dal centro e chi le ha vissute in periferia. In centro attecchisce la storia giornalistica dei poliziotti che si levano il casco ed abbracciano la protesta. Quasi in pieno. In periferia, seppure tale discorso non manchi di circolare, è solo alla superficie. Mentre un anziano parla al megafono delle forze dell’ordine che stanno dalla nostra parte, un ragazzo scandisce a bassa voce, ammiccando con gli amici, lo slogano “Digos boia”. Questo a segnalare che le esperienze di stadio e piccola delinquenza radicano nel quartiere una pregressa familiarità ed inimicizia nei confronti della polizia. Chi è d’altronde, oltre ad alcuni militanti, a conoscere la Digos e ad avere a che fare regolarmente con gli sbirri? I criminali e gli ultras appunto. Questo genera però un approccio contraddittorio, perché chi normalmente deve sopravvivere nell’illegalità non conosce preclusioni di principio al parlare con la polizia. Piuttosto l’atteggiamento è parlarci con l’illusione di tenerli buoni, prestare l’orecchio a minacce e condizioni masticando insulti sottovoce. Un atteggiamento per noi strano ma tipico della malavita di basso calibro. Non per nulla a comparire nei pressi di P.za Derna, dopo il primo giorno, non è la Digos ma gli agenti di zona, che già conoscono i più giovani ed hanno facilità a trovare interlocutori. In molti casi quello stesso ragazzo che media e fa spostare gli altri dalla strada quando i poliziotti lo sollecitano, non fa poi alcun mistero di odiarli appena si allontanano. L’idea è tirare la corda finché possibile. Durante una discussione serale un ragazzo risponde alle solite chiacchiere sulla “polizia che condivide le ragioni della protesta” con un saggio di esperienza diretta. “Non è vero” dice “io sono stato alle Vallette per qualche grammo di fumo e in caserma mi hanno pure pestato”. Più di uno si unisce raccontando episodi simili. Non certo una piccola borghesia ovattata nei propri privilegi.
- Inni, tricolori e specchi deformanti
Il punto forse più scabroso nel controverso dibattito intorno alle tre giornate di blocchi è stato quello dell’ostentazione di tricolori, degli inni nazionali cantati a squarciagola in molti cortei che hanno invaso le strade del centro e quindi, con un nesso consequenziale il cui automatismo resta in buona misura da problematizzare e sottoporre a verifica, dei presunti contenuti sciovinisti che avrebbero permeato il “movimento” nella sua totalità. Crediamo che a questo proposito si debbano fare non pochi distinguo, discernendo piani diversi che si intrecciano in modo complesso. Appiattire le differenze e i livelli molteplici che hanno avuto espressione durante quei giorni significa, cedendo a riflessi condizionati ben radicati nella mentalità dei vari milieu militanti, obliterare la ricchezza sempre contraddittoria ed ambigua del concreto a favore di frusti schemi ideologici di lettura buoni per tutte le stagioni semplicemente perché sempre al riparo dal confronto con l’analisi empirica. Cominciamo quindi col mettere il naso in alcuni di questi riflessi deformanti, non tanto per anteporre una volontà polemica quanto come spunto per dirimere più facilmente ragionamenti ed impressioni che ci premono.
Un approccio decisamente politicista alla realtà delle lotte sociali è quello che si riflette nella diffusa abitudine di ridurne i contenuti agli appelli dei gruppi organizzatori, interpretandole esclusivamente attraverso parole d’ordine e rivendicazioni esplicite, anche quando si presentano confuse e generiche come in questo caso. Si legge quindi di un “movimento” omogeneo in istanze e comportamenti, connotato da una precisa provenienza sociale e da un altrettanto univoco retroterra culturale e politico, un monolite la cui identità non lascerebbe spazio a interrogativi. Piccola borghesia bottegaia, passioni tristi e bassi interessi di categoria a cui aggrapparsi sarebbero il tratto prevalente, da cui discendono in modo naturale pulsioni reazionarie e brodo di coltura per fascismi presenti e futuri. Tale ipotesi esplicativa, a dire il vero non la più presente nel contesto torinese, viene suffragata dalla lettura dei volantini e dei comunicati di indizione. Potremmo spenderci anche noi a fare delle critiche ovvie ai contenuti di questi scritti, all’infondatezza delle proposte che vorrebbero temperare gli squilibri più parossistici del capitalismo con iniezioni di sovranità nazionale e ai toni populistici, che non ci sono sfuggiti. Ma non ci sembra utile farlo in prima battuta, quantomeno perché qualsiasi compagno o compagna si annoierebbe a morte nel leggere per l’ennesima volta quelle che sono giuste ma ovvie banalità di base. Ci limitiamo a segnalare come l’equazione succitata, quella per intenderci tra il corpo vivo di una lotta sociale e le rivendicazioni formalizzate dai suoi “dirigenti”, sia in effetti un gesto ben strano proprio da parte di aggregazioni ed ambienti sovversivi la cui esperienza e pratica di fatto si basa da molti anni sul dato esattamente opposto, anche con i molti limiti che questo comporta. Probabilmente è eccessivo e forzoso, ma vale la pena azzardare un paragone: forse che molti compagni e compagne avrebbero dovuto scommettere, come lucidamente hanno fatto, su giornate come quella del 14 dicembre e del 15 ottobre se ci si fosse attenuti alle dichiarazioni degli organizzatori? Si osservi che i giovani che si sono visti nei blocchi periferici di Torino, ad esempio quello di Piazza Derna, ricordano molto da vicino quelli scesi in piazza per scontrarsi con la polizia a Roma: proletariato giovanile, ragazzi dei quartieri popolari più degradati tra cui moltissimi ultras. Qualcuno li chiama gioventù selvaggia, altri scrivevano, parlando dei loro predecessori di qualche decennio orsono, di rude razza pagana, che non è orientata politicamente a sinistra, se ne fotte del sindacato, non vuole davvero lavoro ma soldi. Questa frazione di classe, a prescindere dagli stilemi letterari che usiamo per designarla, quando esce da libri e volantini non è mai stata bella da vedere.
I parallelismi, con uno sforzo di immaginazione, potrebbero moltiplicarsi. Si potrebbe arrivare a sostenere, per esempio, che lo stesso movimento No Tav, oggi punto di riferimento per i partigiani del conflitto sociale di ogni dove, prima di allargare il proprio raggio visuale ad una critica più radicale e globale del presente, fino alla rivendicazione aperta dell’uso della forza e del sabotaggio, non si scostasse di molto dai vizi e dalla confusione di cui parliamo. Le analogie sono ravvisabili, benché in una versione meno “edulcorate e perbene”, sia per quanto riguarda i riferimenti al popolo italiano, alla Costituzione ed alla legalità democratica, che a volte per i tricolori, la visione conciliante della polizia e del suo ruolo. Anche il movimento No Tav d’altronde comprende ampie fette di classe media locale, di cui la lotta ha però non di rado modificato nettamente la visione della realtà, sciogliendo nodi e riarticolando schemi di comprensione che sono ben ardui a smuoversi con i discorsi, per quanto radicali e profondi. Qualcuno ha parlato di composizione spuria, ci sembra una definizione esatta. È importante ribadire una premessa già accennata: quello che si è mosso in piazze ed arterie di Torino per tre giorni, alterandone i ritmi ed in parte immobilizzandone i flussi di circolazione, non ha mai avuto la forma del movimento. Abbiamo piuttosto assistito ad un proliferare disordinato ma coerente di pratiche eterogenee, un contagio rapsodico tra comportamenti e tecniche di lotta che si sono differenziate per modo ed intensità secondo i momenti e le zone, integrandosi ma anche arrivando a collidere. Rispetto a questo insieme gli appelli dei “Forconi o del “Comitato 9 dic”, la loro chiamata, hanno svolto quasi soltanto il ruolo di occasione, di valvola di sfogo perché una rabbia sociale anonima si dispiegasse, non certo di centro che ha eterodiretto gli eventi. Non la programmazione di un corso di avvenimenti prevedibile ma quel che si chiama congiuntura, cioè l’incontro aleatorio tra fattori e forze in campo prima separati che ha prodotto una contingenza in atto.
Gli stessi appelli degli organizzatori in questione, diffusi nei giorni precedenti attraverso la propaganda telematica e non, i profili facebook quanto i volantinaggi nei mercati, testimoniano enunciazioni discutibili quanto vaghe, dando l’idea di un’indefinitezza di fondo che crea imbarazzo ed enormi difficoltà di lettura… il vuoto di una posizione forte ma il cui sviluppo risulta difficilmente intuibile. Ci sono le tasse ed il disagio dei mercatari, di settori di lavoro, dipendente e non, sempre più precipitati nell’impoverimento, ragioni di insofferenza sociale diverse quanto evidenti e concrete, certo. Ma una volta passati al piano delle proposte si incappa nelle richieste più improbabili e fumose, in proclami contradittori quanto irrealistici. Così possiamo leggere riferimenti al popolo italiano, al Paese che produce, indipendentemente sia dal settore che dal ruolo di padrone o subalterno, ma anche ai disoccupati e ai precari. E poche righe dopo, finanche nel primo “Avviso ai cittadini”, tardive ed irrealizzabili pretese di recedere da “la globalizzazione, l’Euro” o da “questo modello di Europa”, per recuperare una fantomatica “sovranità nazionale”.
- Anche a sinistra. Ecografia di un senso comune.
Si può affrettatamente additare, in questa critica spicciola di stampo sovranista alle storture della società, proprio la logica distintiva che struttura i movimenti di destra nella loro storia? Tutti i nemici infatti sono rappresentati quali corpo estraneo a quello della società: un ceto politico “corrotto”, la famosa Casta, che mena alla rovina un popolo rimasto alla base sano e produttivo; un’economia globalizzata che schiaccia, tramite la grande distribuzione, le piccole attività commerciali; ma anche le banche, simbolo di un’economia finanziaria improduttiva e parassitaria, come se questa distinzione fosse possibile. Insomma una visione interclassista dove la sottintesa analogia tra corpo biologico e società salta agli occhi, l’ingiustizia sociale è un’escrescenza, come una metastasi da asportare, mentre i rapporti sociali di produzione sembrano scomparire. Peccato che questa stessa visione della società e delle forze in campo accomuni, con sfumature e declinazioni culturali diverse, la quasi totalità dei movimenti politici d’opposizione, di critica al “modello di sviluppo”, che si sono mossi in questi anni anche a sinistra. Si tratta di un senso comune talmente interiorizzato da filtrare la percezione del mondo tanto della casalinga incazzata che dell’attivista di sinistra, del professionista come del precario o del disoccupato, valicando anche le rispettive provenienze politiche. Citiamo di sfuggita il Movimento cinque stelle, che è stato un potente catalizzatore di questo sentire diffuso e non a caso ha assorbito, secondo la regione, una base elettorale di segno opposto (per esempio di sinistra post-viola in Toscana mentre di destra ed ex leghista in Veneto).
Nel campo della critica sociale alcuni ricercatori appartenenti alla corrente detta Critica del valore (Wertkritik) hanno delineato una lucida microfisica di questa tendenza, principalmente nella sua versione di sinistra appunto. Si parla di “ricerca del capro espiatorio” come categoria assiologica a cui ricondurre una vulgata che, sotto la parvenza di un messa in discussione radicale dell’assetto sociale vigente, innerva l’opposto di ciò che dovrebbe essere una sua critica emancipatoria. Un bell’ articolo di Robert Kurz, intitolato non a caso “Populismo isterico”, definisce così tale tendenza :
La caccia al colpevole è di gran lunga il passatempo preferito nella nostra società. Se qualcosa non va per il verso giusto su larga scala, nella stragrande maggioranza dei casi non si mette in questione la cosa in quanto tale; piuttosto la responsabilità dovrà ricadere su qualcuno. Non sembra opportuno o comunque possibile considerare responsabili obiettivi discutibili, relazioni sociali distruttive o strutture contraddittorie, invece le colpe saranno attribuite ad individui che mancano di risoluzione o che peccano di incompetenza o che rivelano perfino intenti malvagi.
E ancora qualche riga dopo:
Questo modo di pensare è profondamente irrazionale ma rappresenta un sollievo per la coscienza perché esenta chiunque dall’interrogarsi criticamente sulle condizioni della propria esistenza. Problemi impersonali della struttura sociale e del suo sviluppo sono identificati, essenzialmente, con particolari individui, gruppi sociali ecc. o incanalati su di essi simbolicamente.(…) Leaders o organi dirigenti possono essere tacciati di incapacità dal corpo sociale oppure i primi, rigirando la frittata, possono accusare la massa di incompetenza, di scarsa dedizione ecc. Tale meccanismo di attribuzione delle colpe è alla base del funzionamento della moderna politica. Il popolo se la prende con i politici e i politici bistrattano il popolo.
La matrice di questo paradigma interpretativo però non viene individuata direttamente nel fascismo, ma proprio nella costruzione discorsiva in cui tutte le sinistre sguazzano acriticamente:
Se il liberalismo come moderna arche-ideologia centrale è relativamente pragmatico nella sua ricerca di colpevoli e orientato su alcuni caratteri mutevoli, si deve fare i conti col fatto che la sua progenie ideologica è assai compromessa con il concetto unidimensionale di nemico universale.(…) È vero che le idee del movimento operaio, che hanno raggiunto nel frattempo i loro limiti, furono in fondo personalizzate nella misura in cui ascrivevano le contraddizioni sociali ad una sorta di “volontà di sfruttamento” da parte dei “proprietari dei mezzi di produzione” piuttosto che alle leggi cieche e alle forze del moderno sistema produttore di merci. Ironicamente proprio questo approccio teoretico riduttivo può essere ricondotto all’eredità liberale nel marxismo del movimento operaio, particolarmente l’idea che ogni problema possa essere interpretato in termini di relazioni di volontà. Tuttavia la teoria di Marx fornisce un approccio assai più penetrante a una “critica del sistema” degna di questo nome che non confonda crisi strutturali con le “cattive intenzioni” di uomini o gruppi sociali.
In un altro passo l’autore evoca anche una possibile via d’uscita:
Il contrario di una ricerca irrazionale di colpevoli sarebbe una critica sociale emancipatoria che non mirasse a particolari gruppi di individui, ma cercasse di trasformare le forme dominanti di relazioni e riproduzione sociali.
Tutte queste ampie citazioni vogliono sorreggere un argomento sullo sfondo: come ci si può sorprendere se questo filtro ideologico, questo ordine del discorso che permea la visione delle proprie condizioni d’esistenza di tutta una piccola borghesia planetaria tracimando oltre i confini di classe, collocazione politica e identità culturale, non lascia immune i soggetti (una corposa parte della nostra città) che si sono mobilitati nei blocchi e nelle manifestazioni del 9 dic? Se quella parte di società che è scesa in strada vi ha riportato, come è normale, le opinioni che si sentono ogni giorno al bar o sull’autobus, si sarebbe potuta paventare, soprattutto in quanto a identificazione di colpevoli e capri espiatori, ben peggio di quanto ci sia capitato di sentire aggirandoci nei blocchi. Invece l’appartenenza al popolo, alla nazione, ci è sembrato più che altro il tentativo di affermare un’appartenenza qualsivoglia, un contenitore vuoto. Su questo ritorneremo. Sembra invece che una certa borghesia cittadina, colta e di sinistra, disprezzi la volgarità del “popolo” quando prende la parola, anche quando i contenuto riflettono nient’altro che un linguaggio comune, che parla più che essere parlato.
D’altronde i proletari che abbiamo incontrato in strada si esprimono, come tutti, attraverso codici, valori e termini che sono socialmente determinati. La stessa critica rivoluzionaria non nasce che dall’accumulo di esperienze della lotta di generazioni di proletari, o qualcuno pensa che sia il parto di menti isolate? Magari da far diventare forza materiale con infusioni di coscienza dall’esterno? Se la trasmissione di questa esperienza, il logos fuorimoda della liberazione e dell’odio di classe, non appare agli sfruttati come un’ipotesi credibile, o meglio neppure reale e riconoscibile almeno a queste latitudini, a chi attribuire la responsabilità?
- La comunità della merce
Ritorniamo quindi sul punto dei tricolori, articolandolo con gli altri angoli prospettici che sono emersi nel corso dell’analisi. Come mai questo profluvio di bandiere e questo rinnovato senso di orgoglio patriottico? Un’assenza di memoria storica delle lotte proletarie, della critica pratica all’identità nazionale che queste hanno espresso nei loro momenti più felici e nelle componenti più avanzate? Scontato. Non è d’altronde un mistero che il comando capitalistico abbia eroso, nel corso di qualche decennio, la trasmissione del ricordo dei conflitti che le classi pericolose hanno combattuto solo qualche tempo prima.
“L’essere che viene è un essere qualunque”, scriveva un noto filosofo italiano alcuni anni fa, ponendo il problema di costruire una politica che possa appartenere al soggetto di questa “forma di vita”, quindi spogliarsi di qualsivoglia residuo di identità e comunità particolare. “Comunità non mediata da alcuna condizione d’appartenenza”. Ci ricorda qualcosa. Traducendo tale intuizione nel sostrato materialistico che la concreta, cioè strappandola all’idioma metafisico in cui è espressa, si può parlare di polverizzazione del potere, scomposizione dei luoghi, delle strutture produttive e di sfruttamento. Il lascito è l’annessa scomparsa dell’identità di classe, del nesso tra spazi di lavoro e di vita, cioè di tutto il tessuto di organizzazione dell’esistenza sociale, di rapporti di lotta e delle forme di rappresentazione politica che quel mondo portava seco. Aspetti che sono stati doviziosamente descritti ed indagati nel campo della ricerca militante e non.
Le esibizioni di patriottismo che si ripresentano alla superficie di lotte diverse, dalle primavere arabe ai blocchi di casa nostra, parrebbero cozzare con la lettura troppo lineare di un compiuto processo di svuotamento delle identità. Lo spazio liscio planetario presenta qualche increspatura. Accantonando le generalizzazioni ed evitando cattive sintesi possiamo riferirci alla particolarità del nostro caso per fare qualche osservazione. Gli inni italiani che abbiamo sentito ci sono sembrati più imparentati con l’euforia del tifo per una partita della nazionale che con una parata militare, più legati alla ricerca di un senso di comunità, di condivisione intensa, che ad una qualche precisa convinzione di carattere politico. Senza voler calcare la mano nel liquidare il significato di questi aspetti… che altro senso di comunità, in un magma sociale così anomico e difforme, si presta all’uso? Non dovremmo scorgere in quei tricolori proprio il contrassegno di una mancanza di identità, della tensione frustrata, perché impossibile a soddisfarsi, ad una forma di comunità inesistente? Scomparsa la vecchia “coscienza di classe” in tutte le sue figurazioni storiche passate, come anche il credo nella propria chiesa politica di riferimento, come sentirsi parte di una qualunque dimensione comune?
“(…) Che delle singolarità facciano comunità senza rivendicare un’identità, che degli uomini co-appartengano senza una rappresentabile condizione di appartenenza, ecco ciò che lo stato non può accettare”.
Una comunità impossibile e fittizia perché incapace di inverarsi in rapporti reali. L’unica comunità che i proletari possono conoscere allo stato attuale delle cose è quella mediata dalla merce, quella del capitalismo stesso. Poi esiste l’anticipazione di rapporti sociali futuri ancora germinale, quella che si può sperimentare nella rottura aperta dalle lotte, scrollandosi temporaneamente di dosso abitudini ed obblighi sociali che normano il nostro comportamento. Ma rimane un’anticipazione. L’unico altro tipo di comunità pensabile, dove la mediazione della merce e del valore è abolita, dove la separazione delle identità si estingue per lasciare spazio a ciò che più unisce, si chiama comunismo. La “comunità non mediata da alcuna condizione d’appartenenza” appunto, ma non sembra che ci siamo vicini. Essa può scaturire infatti soltanto dallo sviluppo delle lotte sociali presenti, dai conflitti quotidiani degli sfruttati per i propri bisogni materiali. Essere parte di queste lotte, senza opportunismo né arroganza, è il minimo che possiamo fare.
- Uso della forza da parte di una minoranza. Minacce ai commercianti: fascismo e democrazia.
“La lotta di classe è un fatto, ma un fatto crudele.”
Che l’antifascismo possa essere “il peggiore prodotto del fascismo” lo avevamo appreso da tempo. La funzione storica del dispositivo chiamato “antifascismo” è infatti ricomporre lo “scisma” che da vita ad ogni istanza rivoluzionaria. In soldoni la sua funzione si risolve nell’appiattire il campo proletario sulle ideologie, le forme di lotta e gli orizzonti della classe dominante. Non ultima la democrazia. Infatti tra le esternazioni di indignazione delle anime belle di sinistra, anche antagoniste ed anarchiche, quella che più ci ha lasciato di stucco è l’univoca condanna verso le intimidazioni rivolte ai commercianti del centro per imporgli la chiusura. Siamo rimasti spiazzati a sentire, dai microfoni di Radio Blackout, vere e proprie perorazioni della libertà di commercio. Sovversivi di comprovata fede hanno profferito invettive rabbiose verso quegli autoritari e fascisti che impediscono ai negozi di tenere aperto liberamente! Siamo disorientati… qualche minuto prima il “bottegaio” non era il nemico sociale da combattere? Un centro sociale cittadino scrive di “mezzucci intimidatori che indubbiamente appartengono ad altre formazioni politiche”, salvo poi domandarsi giustamente nel comunicato successivo: “… se si aprisse la prospettiva di uno sciopero veramente di massa, i crumiri non li faremmo entrare al lavoro e il commercio lo vorremmo vedere bloccato in solidarietà, o no?”
Centrato il punto, rispetto al quale si sovrappongono degli equivoci mostruosi e patenti. L’identità tra fascismo ed uso della forza da parte di una minoranza sociale è compatibile con un discorso rivoluzionario? Imporre i propri interessi tramite la minaccia della violenza è di per sé espressione di autoritarismo o costituisce il meccanismo essenziale della lotta di classe? Ci sembra evidente che l’utilizzo della violenza e la minaccia di utilizzarla appartengano in tutto e per tutto al patrimonio del movimento proletario e rivoluzionario. Semmai, come un po’ di prospettiva storica facilmente suggerisce, è il fascismo ad essersi organizzato per contenere e contrastare una violenza proletaria sempre più dilagante (Do you remember biennio rosso?) Si può dire che anche in questo caso il fascismo non ha proprio inventato niente. La critica alle minacce verso i commercianti è stata espressa in termini che testimoniano una completa sudditanza ai valori di riferimento ed ai costrutti discorsivi democratici. In quanto a noi, che difensori del lavoro e della libertà di commercio non lo saremo mai, non vogliamo certo esaltare la violenza acriticamente. La violenza non la amiamo e l’intimidazione neppure… ma siamo sicuri che le sonore legnate e le umiliazioni inferte ai crumiri nella storia delle lotte di fabbrica fossero cosa più amena di qualche insulto e vetrina spaccata?
- Il cielo in una stanza
Non ci è sfuggito, tra i molti contributi al dibattito in rete, quello di chi ha come d’abitudine proferito la solita lezioncina “anarchica” sulla purezza sovversiva da tutti oltraggiata e tradita. Ci rattrista che il livello del confronto, in quello che è teoricamente il nostro ambito d’appartenenza, sia così modesto ed insulso. Tuttavia almeno in questo caso ci scomodiamo a liberare il campo da alcune palesi falsificazioni. Ciò che viene presupposto come noto non è conosciuto, diceva un tale. Infatti non di rado sono proprio i detentori della dottrina, i chierici sempre forniti di una ricetta pronta per l’occasione, a capire meno proprio quello che vorrebbero insegnare al mondo. Così in un articolo intitolato “Si va o si fischia?” i redattori del sito Finimondo, dopo aver salacemente stigmatizzato la stupida dialettica militante tra chi propone di scendere in strada con gli altri e chi vuole rimanere a casa, ci forniscono la suddetta ricetta. Eccola:
“Suvvia, uno sforzo di fantasia. Non lasciamo la Mesa Verde in mano alla finzione cinematografica. Davvero non ci sono altri luoghi nella geografia delle possibilità?”
Capito? Ma certo… invece che scegliere tra la torre d’avorio in cui isolarsi e il letamaio dove affondare le mani si può benissimo avere la fantasia di essere… indovinate un pochino?
Ma Altrove, tanto per cambiare. D’altro canto cosa mai vorrà dire questo “altrove”? Vuol dire apportare pratiche proprie nei luoghi dove la lotta si sta svolgendo? No. Vuol dire tentare un percorso autonomo nel corso della lotta, facendosi trovare in altri luoghi rispetto a quelli previsti. In questo percorso autonomo cercheremo di coinvolgere altre persone, magari una parte di quelle che sono in strada per conto proprio? Vogliamo dialogare almeno in parte con la lotta in corso, creare delle rotture o evitare qualsiasi contatto? Non importa, come non importa che tutte queste modalità siano state tentate con uguale impegno. L’importante è elargire istruzioni saccenti. Si è capito che, qualsiasi lotta si sviluppi dalla Valsusa a Niscemi, la panacea è altrove: disertare tutto, evitare di trovarsi vicino alla “massa pecorona” sommamente disprezzata. Ma poi questo essere altrove rispetto agli spazi in cui la lotta si concentra, perché dovrebbe essere una direttrice sempre valida? In quale esperienza o testo di teoria rivoluzionaria ed anarchica è sancito questo comandamento? Muoversi per proprio conto ed in piccoli gruppi può favorire alcune pratiche. Sicuro. Ma quando invece esiste il margine perché queste pratiche si possano svolgere, o addirittura allargare, in situazioni di conflitto a fianco di altri sfruttati? Fateci capire se dobbiamo stare da soli perché ce lo ha ordinato il medico. Spiegateci un po’ se anche in un contesto di sommossa a venire, durante il quale voi sarete di certo a casa, dovremmo muoverci sempre ed in ogni caso in piccoli gruppi. Misteri. Ci piace ricordare ipotesi progettuali come quelle dei nuclei autonomi di base, complemento organizzativo ai gruppi d’affinità, in cui includere sia compagni che altri sfruttati. Le lotte di massa, come finanche le strutture di massa, hanno sempre fatto parte degli strumenti di intervento anarchico rivoluzionario nelle lotte sociali. Insieme ad altre pratiche, certamente, non in antitesi.
D’altronde noi poveri Machiavelli votati al pragmatismo politico, intenti a rimestare nella merda, non capiremo mai le delizie dell’altrove, della città celeste delle tensioni. Quest’ultima viene contrapposta, in un’altra perla d’articolo, alla città terrena dei risultati e dei compromessi. Peccato che, come tutti sanno, è proprio la scissione tra i sogni della città celeste e il mondo a produrre da una parte la religione e dall’altra la politica. Ci scusino quindi questi Novatore da tastiera se, dal canto nostro, cerchiamo la debole forza messianica che cova nella merda e nel letame perché la città celeste (ad usare il loro linguaggio) abbiamo qualche idea di realizzarla.
Ciò che è in questione, anche a prescindere dagli strali dei nostri verbosi amici, è il modo stesso di intendere la teoria sovversiva ed il suo rapporto con la pratica di trasformazione. Innanzitutto perché questo rapporto esista crediamo che più elementi debbano combinarsi. Ci sono certamente delle invarianze, delle direttrici di principio che devono muovere l’agire di un compagno. La natura di queste ha tuttavia ben poco a che fare con la ricetta pronta per l’uso. Tali invarianti sono infatti a loro volta il frutto dell’incontro tra ragioni etico-pratiche ed insegnamenti dell’esperienza. Perché si animino e possano assumere concretezza devono essere usate nell’orientamento dell’azione, senza il cui impulso rimangono lettera morta e si infiacchiscono, divenendo bolsa fraseologia ideologica.
“Ma poi la parola si logora. Usata per capirsi, non suggerisce più l’immagine che pure continua a racchiudere in maniera criptica, è stanca, non soccorre, ha bisogno di essere soccorsa. Ancora una volta è del grande cuore di chi agisce che essa ha bisogno (…)”
La curiosità è il vero impulso che ci porta a riflettere, andare a vedere, agire ed organizzarci. Questo sentire, che porta a non mettersi al sicuro da ciò che disorienta, ma piuttosto a cercarlo e provocarlo giorno per giorno, è lo spartiacque, davvero irriducibile, che ci separa dai sentenziatori di tutte le risme.
Finché si abborda la teoria come insieme di formule per recuperare l’ignoto ai parametri del conosciuto, fingendo di credere che si tratti di leggi immutabili invece che di suggerimenti pratici, se ne cava fuori poco. A questo gusto rassicurante dell’almanaccare contrapponiamo una “teoria in situazione”, che viene in soccorso a chi voglia affrontare i casi imprevisti che si presentano nelle lotte reali, per comprendere che cosa succede e come agire. Senza questa curiosità, d’altra parte, non avremmo nulla di cui scrivere.
- Conclusioni?
Ora si tratta di tirare le somme, anche se delle particolari conclusioni in realtà non ci sono. Trovare un risvolto propositivo a questa sequela di impressioni è senza dubbio la parte più difficile. Proveremo soltanto ad accennare una casistica molto schematica di alcune possibilità di intervento, ovvero quelle che sono state prese in considerazione nel dibattito che si è svolto tra i compagni che hanno preso parte ai blocchi.
– Che scenario si sarebbe venuto a creare nel caso che, invece di partecipare ad uno o più blocchi già esistenti se ne fosse formato uno? Molti dei blocchi temporanei che si sono svolti in città hanno avuto luogo per iniziativa spontanea di piccoli gruppi, allora perché non pensare di farne uno permanente, per esempio nell’angolo di città in cui si lotta normalmente e si è più radicati? Questa scelta presupporrebbe da un lato la forza sociale necessaria, dall’altro una decisione forte di protagonismo e presenza attiva, non la sola scelta di osservazione critica. Mettiamo, ad esempio, un periodo di particolare partecipazione e impatto della lotta per la casa. Nessuno vieterebbe che nelle zone in cui questa lotta è più presente ci fossero dei blocchi stradali contro gli sfratti, altro problema sociale molto sentito soprattutto in alcuni quartieri. Oppure ancora: questi blocchi potrebbero semplicemente aggregare una parte di quartiere coinvolta in altre lotte senza sovrapporre parole d’ordine diverse da quelle già presenti nella protesta. Quindi fare dei blocchi insieme agli sfruttati con cui si sono costruiti legami in situazioni di conflitto, dando un contributo alle ragioni di insofferenza sociale diffusa fatte emergere in città. Spesso la densità dei nostri rapporti sociali è maggiore o minore secondo l’isolato o la parte del quartiere: scegliere dove collocarsi può quindi fare la differenza.
Alla base delle molte critiche rivolte al “9 dicembre”, soprattutto quelle provenienti dagli ambienti del “marxismo” più ortodosso, c’è proprio la base sociale della protesta. Non sarebbe possibile “cambiare di segno”, con un gesto puramente politico, una mobilitazione che produce istanze reazionarie perché rappresenta soggetti sociali di per sé reazionari. In strada sarebbe scesa soltanto una piccola borghesia bottegaia arroccata a difesa dei propri privilegi ed il “popolo delle partite iva”. Di proletariato e di lavoro dipendente neppure l’ombra. A nostro dire il quadro tratteggiato è del tutto falso. Ci troviamo concordi piuttosto con la lettura di chi ha visto mobilitarsi i padroncini, i commercianti e i dipendenti. Ad esempio, nei mercati di Porta Palazzo e Barriera, i lavoratori hanno aderito alla protesta a fianco dei proprietari dei banchi. Come contrastare l’egemonia delle componenti borghesi in questa composizione sociale? Si può parlare di un movimento centripeto e di uno centrifugo. Il primo è quella tendenza designata da altri con la categoria di ricomposizione. In sostanza cercare un’alleanza allargata tra gli sfruttati e tutti quei soggetti sociali sempre più vicini ai bisogni proletari. Il movimento centrifugo consiste nell’approfondire le contraddizioni tra i diversi interessi in campo, spaccando un blocco sociale compatto. Non si tratta soltanto di separare gli sfruttati dagli altri, ma di provocare la rottura tra le parti di ceto medio proletarizzato e quelle che davvero difendono privilegi esistenti. Risulta palese che si parla di due movimenti dello stesso processo, quantomeno perché ogni possibile rottura concorrerebbe ad una migliore definizione delle parti in lotta, quindi ad una nuova unione che riarticoli la composizione sociale esistente. Comunque immettere nel vivo della lotta la ricchezza di percorsi reali già avviati sarebbe un contributo in tal senso. Se si incontrassero nella medesima congiuntura sfrattati, disoccupati, lavoratori etc., potrebbe articolarsi un’agenda di lotta ben più incisiva della rivendicazione di tasse meno gravose. Gli elementi, da Equitalia alla grande distribuzione ed alle sedi istituzionali, ci sono già tutti.
– L’altra ipotesi caldeggiata privilegia l’osservazione partecipe dei contesti già formatisi. Nei blocchi sono state coinvolte parti di città (penso alla zona alta di Barriera, intorno a Piazza Derna e Piazza Rebaudengo) mai toccate dalle lotte. Se in determinate situazioni non ci si improvvisa, data la densità di rapporti di cui abbiamo parlato, momenti di questo genere possono essere l’occasione per coltivare conoscenze e intercettare persone combattive attraverso la pratica. Questo potrebbe anche voler dire mettere a disposizione il proprio bagaglio di conoscenze tecniche e logistiche per rafforzare i blocchi (ad esempio per realizzarne alcuni dove la presenza delle persone è superflua). Questa seconda modalità era l’unica alla nostra portata e con essa abbiamo cominciato a misurarci. D’altronde l’autonomia proletaria non ha quasi mai bisogno di militanti per prendere spazio. Queste giornate ce l’hanno ricordato. Il nostro stesso modo di muoverci nei blocchi è andato modificandosi tra il primo e il terzo giorno, maturando secondo le esperienze fatte. Questo fattore non va trascurato. La capacità di essere in situazioni sociali differenti da quelle abituali, misurandone esigenze e comportamenti per non ricadere nell’estraneità del militante avulso da tutto, è un’arte da affinare in ogni situazione propizia. Nessuno dei nodi e delle questioni che abbiamo provato a sviscerare ci si sarebbe presentata agli occhi se non fossimo stati in strada, dal mattino a sera, durante i famosi tre giorni.
Tutto qua? Ebbene sì. Soltanto qualche scarna traccia per iniziare a rimboccarsi le maniche e non restare col naso all’insù quando le strade, intorno a noi, torneranno a riempirsi.