Inverni e primavere

«Torino, 22 gennaio 2014, carcere delle Vallette


Scrivo a tutti i compagni di lotta, ai No Tav di valle e di città, a quei giovinastri scalmanati che nel febbraio 2012 invadevano l’A32 e a quelli meno giovani che già nel 2005 avanzavano a colpi di bastone oltre le reti del cantiere. Vi scrivo per abbattere la distanza che adesso ci separa, per far sì che questo momento si trasformi in un’occasione per continuare a conoscerci, per lanciare e ricevere spunti di riflessione.

images.jpgQuando abitavo ancora a Pesaro, prima di trasferirmi a Torino, sentivo i genitori dei miei compagni di scuola parlare di alta velocità e No Tav, i benpensanti dicevano che si trattava di “4 montanari” e che non sarebbero durati a lungo. Arrivato a 18 anni nel capoluogo piemontese capii che i conti non tornavano: nel 2010 mi sono avvicinato alla Val di Susa incuriosito dai racconti che giungevano dai presidi e dalle nottate insonni ad aspettare per giorni delle trivelle. Era chiaro che questi “montanari” o avevano una resistenza fisica disumana, o erano ben più di 4 e ben organizzati!

I sondaggi non sapevo nemmeno a cosa servissero esattamente, ma ero entusiasta da tutto quel subbuglio e mi ci tuffai a capofitto. Ora ho solo alcuni frammenti che mi scorrono nella mente: il freddo scavato nelle ossa e la grappa delle sei del mattino per tirare avanti fino al cambio turno all’Interporto di Susa; le cariche della polizia in mezzo al bosco e le palle di neve contro gli scudi. Poi ancora la polizia ma questa volta sulla SS24 costretta da un blocco di gente incazzata a rientrare in caserma passando per Bardonecchia. Mesi dopo, durante una manifestazione a Torino, ho sentito un celerino borbottare con un altro a proposito di quella serata: “ci abbiamo messo più di tre ore a tornare a casa“. Col senno di poi, e ripensando ai blocchi dopo la caduta di Luca, mi verrebbe da rispondergli: “vi è andata bene che non ci avete messo una giornata intera!“.

A quel tempo la gente era tanta, non tantissima ma ben ripartita, ognuno aveva la sua responsabilità diretta, la sua azione da compiere, per mettere in moto quel meccanismo che portava a concentrarsi e tentare in vari modi l’avvicinamento e il disturbo alla trivella. La quotidianità si trasformava perché le giornate erano tutte tese a quello scopo, ognuno si sentiva protagonista a suo modo e capiva quale effetto a catena avrebbe comportato tirarsi indietro.

Quell’inverno di lotta, che per me è stato solo un assaggio, aveva delle caratteristiche che avrei rivisto su scala ancora più allargata nelle stagioni successive, fino a confondersi nello straordinario miscuglio di pratiche dell’estate 2011.

Sarebbe molto utile rispolverarle ora per affrontare le sfide che ci si parano davanti nell’immediato futuro, ma la Procura non sembra essere di questo avviso. Se il movimento ha fatto passi da gigante nell’ultimo periodo accogliendo il sabotaggio come pratica legittima di chi si ribella ai progetti imposti dallo Stato, quest’ultimo ha deciso attraverso questa inchiesta di attaccare un intero bagaglio di esperienze accumulate negli anni, ridefinendone i contorni e deformandone il contenuto. Parlano di “organizzazione paramilitare” e “suddivisione dei ruoli” di “gerarchia” e “gruppi specializzati”, guarda caso gli stessi termini con cui si riferiscono al modo di condurre le loro guerre, e che naturalmente non ci appartiene affatto.

Di contro, è dal 2010 che chi lotta ha capito che per avvistare una colonna di camionette o una trivella o i pezzi della talpa, basta piazzarsi in un bar, sul balcone o agli angoli delle strade che frequenta tutti i giorni e guardare nella giusta direzione. A quel punto il tam tam di chiamate farà il suo corso, senza ordini né comandanti. È almeno dal 2010 che ci si parla per capire le esigenze dell’uno e le capacità dell’altro, chi può prendersi un giorno di ferie e chi è disposto a “tagliare” la scuola, chi ha i figli abbastanza grandi da non doversene preoccupare e chi semplicemente c’è perché non ha nient’altro da fare. Dormire all’addiaccio non è mai stato un problema se le circostanze lo richiedevano, ma non per questo si può parlare di ninja super addestrati. Queste esperienze si sono arricchite negli anni e con loro tutte le persone che hanno preso o regalato qualcosa.

C’è chi è nato in Valle e qui ha imparato a lottare, e chi è arrivato per lottare e qui ha imparato a camminare. Chiunque quella sera di maggio è sceso al cantiere non sarà di certo più speciale di tutti coloro che sono cresciuti opponendosi alla costruzione di questo treno proprio perché non potrebbero che attingere dallo stesso bagaglio.

Non paghi di questa burla, i due Pm, in un volo pindarico che sgancia sentenze come siluri sulle teste dei No Tav, sfoderano un concetto degno di un corso di formazione per sbirri (alla prima lezione però): controllo del territorio. Un controllo che sarebbe a loro dire, in un passaggio fumoso del faldone, praticato dalle frange violente del movimento.

Si sono forse dimenticati che chiunque lotti in Valsusa piuttosto che controllare, non vuole essere controllato? Così le uniche frange violente che hanno quell’obbiettivo sono i signori e le signore in divisa o col casco blu, che sfrecciano sulle loro pantere su e giù per la valle. Dal 2011 a oggi in migliaia si sono aggirati nei sentieri intorno al cantiere. Ricordo un tiro alla fune costante per strappare pezzi di bosco percorribili liberamente, senza che dei brutti ceffi in passamontagna e mimetica ti sbarrassero la strada, magari puntandoti la pistola in faccia senza alcun motivo, come alcuni No Tav potrebbero raccontare.

L’agosto del 2011 è stato sudato giorno dopo giorno: bisognava costruire il presidio in Clarea ma i check-point sotto l’autostrada, all’imbocco della mulattiera, erano asfissianti. A qualcuno venne però la brillante idea di proporre un incontro quotidiano a Chiomonte per racimolare una cinquantina di persone e fare la traversata tutti assieme, così sarebbe stato più difficile essere fermati ed identificati. Funzionò, i materiali vennero portati alla baita e chi aveva il foglio di via poteva muoversi più sollevato. Nei momenti di presa bene si imbastivano banchetti che spesso sfociavano in vere e proprie feste in cui si andava sotto l’autostrada a demolire nei modi più improbabili quei mostri di ferro e cemento chiamati jersey.

Il loro concetto di “controllo” viene smentito da una reale conoscenza diffusa del territorio detenuta da chi si oppone. Questa, insieme all’inventiva e alla determinazione necessarie, è sempre stata inafferrabile per gli sbirri e gli inquirenti.

Questi signori stanno tentando di stabilire una presenza massiccia e un occhio indiscreto nelle strade di tutta la valle, spostandosi a piacimento. Qualche mese fa un ragazzo mi raccontava del livello di militarizzazione di Susa, e nel descriverlo mi riportava alla mente i racconti di un amico tunisino sull’assedio militare di Gafsa nelle proteste del 2005. A quel tempo lui e i più giovani si erano ritirati sulle montagne, mentre altri erano rimasti a resistere in città. Non conosco bene la storia ma nei suoi ricordi alcuni ragazzi si erano pure presi dei colpi dai fucili degli uomini in mimetica. Tutti sappiamo che a quel difficile “inverno” tunisino sarebbe seguita una fiorente primavera di rivolta che avrebbe sconvolto l’intero bacino del mediterraneo.

Certo, noi non abbiamo di queste pretese e ci accontenteremo di non avere montagne bucate e inutili stazioni faraoniche a Susa. Gli strumenti per continuare a lottare ci sono e la creatività pure. Noi intanto resistiamo con la testardaggine che questo movimento ci ha sempre ispirato. Speriamo solo che non facciate troppo in fretta, e di poter essere fuori quando toccherà riempire quel buco in Clarea con le macerie del cantiere… e se ci sta anche un po’ di autostrada.

Libertà!

con affetto

Niccolò»