Il partente /1

«12 febbraio 2014

[…] Per quanto lo aspettassimo il trasferimento è arrivato come un ladro di notte (solo meno gradito). Erano le 5.30 circa, io dormivo di un sonno molto leggero, perché sapevo che quel giorno avevo un’udienza a Milano, ma ancora non sapevo se mi ci avrebbero portato o meno, emigranti-400x215.jpgcosì quando ho sentito lo spioncino del blindo aprirsi, mi sono svegliato subito. Una guardia si affaccia e mi dice:
“Zanotti, preparati che tra mezz’ora devi partire.”
Convinto che si trattasse dell’attesa traduzione in tribunale sono saltato giù dal letto contento. Avrei visto tanti amici che non vedevo da un pezzo e mi sarei fatto un giro fuori dal carcere. Attento a non svegliare il mio concellino (il quale comunque non lo svegliavi neanche a cannonate) mi sono lavato, vestito e poi mi sono seduto per sgranocchiare un minimo di colazione. Ero quasi emozionato, pronto per il mio primo viaggio sul blindato che non fosse il breve tragitto Vallette-Tribunale di Torino. Poi si riabbassa lo spioncino e si affaccia un seconda guardia che mi chiede se sono pronto. Rispondo di sì e chiedo se posso portare con me dei biscotti per la trasferta.
La guardia mi osserva stranita e mi risponde:
“Forse non hai capito. Devi portare t-u-t-t-o, sei partente.”
“Partente”, al suono di questa parola mi si spalanca un mondo. Ricordi di letture e racconti, parola sentita di sfuggita e forse mai interiorizzata, eppure in quel momento così chiara, limpida, inequivocabile. “Partente”: colui che sta partendo (e non sa dove sta andando, aggiungo io). In un frammento di secondo penso a mille cose. Primo pensiero tra tutti: hanno svegliato me e non i miei compagni alla cella di fianco, quindi ci separano. Ciò che temevamo si sta verificando.
Dico alla guardia che non ho preparato le borse perché pensavo di dover andare in tribunale, non di essere trasferito. Mi risponde che chiede meglio al suo collega. La prima cosa che faccio appena rimango solo è bussare sul muro per svegliare i vicini.
Dalla finestra mi risponde la voce di Claudio.
“Mi trasferiscono”. Silenzio, poi Claudio mi risponde qualcosa ma non capisco, gli chiedo di ripetere e ancora una volta non capisco, e così un terza volta. Un po’ la sua voce flebile, impastata, strappata al sonno, un po’ la mia agitazione, chiudo la finestra.
Devo preparare tutto in pochi minuti. Riempio le borse. I vestiti sono già pronti nei sacchi. Ne preparo uno nuovo con i libri e la corrispondenza, poi arraffo alla rinfusa del cibo, fornello, spazzolino, dentifricio…
Torna la guardia:
“Zanotti, vai prima in tribunale poi ti trasferiscono”.
Bussano sul muro, sono i vicini. Vado alla finestra e i vicini mi dicono che trasferiscono anche loro. Li informo delle mie novità:
“Prima mi portano in tribunale, poi mi trasferiscono.”
“Allora non è escluso che poi ci rimettano assieme.”
Richiudo la finestra con qualche speranza in più. Sveglio il mio concellino scrollandolo con forza nel letto. Mugugno, si gira, lo riscuoto, si rigira.
“Alessio! Alessio!! Alessio!!!”
Apre gli occhi spaventato.
“Alessio. Mi trasferiscono!”
“Allora non era un sogno!”
“No Alessio, non è un sogno.”
Continuo a riempire le buste mentre Alessio si alza. Mi guarda riempire le buste, prende il suo fedele tabacco, gira due sigarette.
“Fumiamoci l’ultima sigaretta insieme” mi dice.
Non faremo in tempo. Le guardie arrivano a prendermi. Ci abbracciamo. Prende un paio di pantaloni dal suo armadio e me li offre. “Prendili tu” mi dice “ci tengo”. “Ma no, Alessio. Tienili, hai pochi vestiti”. “Insisto” mi risponde. Li prendo e non ho la prontezza di scavare tra i miei vestiti e ricambiare. Le guardie aprono il blindo, poi la cella. Ci abbracciamo ancora, ci salutiamo un’ultima volta.
Se ci ripenso una delle cose che mi fa più rabbia è non aver ricambiato a quel suo gesto. Mi sento un stupido. Certo ero sballottato, incalzato, tutto quello che vuoi, ma per due mesi abbiamo condiviso gli stessi 10mq ridendo, litigando, talvolta piangendo. E poi ti portano via così, giusto il tempo di un abbraccio con gli occhi ancora appannati dal sonno e con una guardia che ti mette fretta.
Una volta fuori dalla cella chiedo di poter abbracciare i miei compagni prima di partire. La guardia acconsente e apre la loro cella, Claudio esce e di getto mi si aggrappa al collo. Mi abbraccia come arrampica le montagne, con uno slancio scoordinato, di cuore. Poi abbraccio Nico. Trattengo la commozione, penso che potremmo anche non vederci più per un sacco di tempo. Gli dico “Forti. Mi raccomando. Qualsiasi cosa succeda, forti”. È ora di andare. Mi carico di borse come un mulo, faccio una fatica boia. Un assistente mi offre una mano ma la rifiuto. Stringo i denti, raddrizzo la schiena e vado. Mi fermo solo per stringere le mani di due detenuti della sezione che, svegliati dai movimenti in corridoio, si svegliano e mi tendono le mani dallo spioncino per salutare. Poi le trafile burocratiche al casellario e via sul blindato. Sono sveglio da poco più di mezz’ora, parto alla volta di Milano e poi chi lo sa.
I “partenti” sanno quello che lasciano ma non quello che trovano.
Questi i ricordi più vividi della partenza.
Sul viaggio nulla da registrare. Su consiglio di un amico (amante dei pudding) porto con me un rotolo di carta igienica per rendere più comodo il poggia testa.
In testa tanti pensieri, dormo un po’ per allontanarmi e ritrovare un equilibrio.
Quando mi sveglio siamo nei pressi di Milano, entriamo da Sud. Riconosco le vie, i luoghi, l’ambiente. Per una volta dopo tanto tempo Milano mi piace, mi sento a casa.
Dell’udienza cosa dire… c’eri anche tu. Per me rivedervi è stato bellissimo. Già del cortile, appena sceso dal blindato un stormo di compagni appollaiato sul davanzale di una finestra ha iniziato ad urlare e a salutare. Ho capito subito dalla valida accoglienza che sarebbe stata un bella giornata. Ho gridato “Piglio un caffè e arrivo!”. Il capo scorta (un tipo tranquillo prossimo alla pensione) mi ha detto: “Ecco, siamo appena arrivati e già piovono gli insulti”. “La prossima volta si porti l’ombrello” ho risposto. Non se l’è presa e ne ho approfittato per chiedere qual era la mia destinazione finale. “Alessandria” ha risposto, ma poi, pentito, ha detto che non era sicuro, che aspettava conferma e che poteva essere un altro carcere “magari Ferrara”, ma si capiva benissimo che non era così. Poi l’attesa nelle celle di sicurezza al piano terra, un luogo squallido, uno stanzone gigante pieno di guardie penitenziarie con, sui due lati, due file di celle minimali (panca di cemento e pareti lisce). Poi da lì mi hanno portato direttamente in aula, passando per gli scantinati del tribunale per evitare “brutti incontri”. È stato spassosissimo, sembrava un labirinto e la scorta delle Vallette era smarrita, volevano addirittura farsi dei segni sul muro per ritrovare la strada del ritorno! Mi sono scordato (non che l’avessi dimenticato!) quanto siete belle e belli e quanto vi voglio bene. L’unica paura era solo quella di trascurare qualcuno. Vorrei avere più processi in modo da vedervi più spesso!!!
Per quanto riguarda lo sgombero dell’aula e gli effetti sul processo, per stavolta chissenefrega è andata benissimo così, ma sulle prossime udienze dovremo andarci più leggeri, come saprai il giudice voleva già spostare il processo in aula bunker e io lo eviterei, primo perché voglio starvi vicino il più possibile, almeno in queste poche udienze e secondo perché non mi va di accentrare troppo l’attenzione e fare la star, alla fine non c’è solo il mio processo. Certo, ci vorrà molta pazienza da parte vostra, l’aula è piccola e il giudice alquanto permaloso. Staremo a vedere…
Eccoci arrivati all’ultima parte di questa lunga giornata, quella più dolorosa, anche per la stanchezza accumulata per le troppe emozioni. Sul blindato ho sonnecchiato (il sonno in carcere e in questi momenti è un buon alleato ma non bisogna abusarne che altrimenti ci si lascia andare troppo) e quando mi sono svegliato ero nel bel mezzo di una bufera di neve. Non fosse stato per i cartelli autostradali che confermavano l’avvicinamento ad Alessandria avrei pensato che mi stessero portando in un gulag in Siberia! Sono arrivato ad Alessandria verso le 17. Il carcere da fuori lo conoscevo bene per i diversi presidi organizzati là sotto negli anni passati, ma non avevo alcun desiderio di conoscerlo da dentro, l’ho sempre trovato molto triste anche da fuori.
Una volta dentro mi hanno tolto le manette (sul blindato si viaggia ammanettati) poi ho scaricato le borse e senza neanche passare per la matricola una guardia mi ha accompagnato in sezione.
Attraverso dunque un carcere deserto, sembra un ospedale abbandonato ma pulito. Cammino, sempre carico di borse, attraverso corridoi vuoti. Non incontro anima viva (scoprirò poi che al passaggio dei reclusi della sezione speciale tutti gli altri detenuti vengono chiuse nelle celle per evitare contatti).
Arrivo in sezione e vedo Nico affacciarsi da un blindo. Mi informa del fatto che ci è negato incontrarci e che Claudio non è lì (ma di Claudio purtroppo avevo già saputo in tribunale). Quella sarà l’ultima volta da quando sono qui che Nico mi potrà rivolgere la parola direttamente. Poi mi portano in una stanza con la funzione di magazzino di sezione. Qui mi fanno spogliare nudo con flessione finale, mi perquisiscono i vestiti e passano al setaccio tutta la roba che ho nei sacchi. Mi dicono di selezionare le cose che voglio portare in cella e di lasciare lì il resto. Preparo un sacco con le cose da lasciare lì e lo metto su uno scaffale che porta un’etichetta con il mio nome. Riconosco alcuni cognomi su altre etichette, sono i cognomi di compagni che non conosco di persona, ma che so essere qui rinchiusi. Poi esco dalla stanza e finalmente li incontro. Sono solo in due: Gianluca e Ivano (gli altri due sono in cella perché non fanno socialità). Mi aspettano dietro un cancello, alle loro spalle un corridoi asettico. L’ambiente ricorda quello di un’infermeria. Ci salutiamo, porto le mie cose in cella, poi mi chiudono lì ma con il blindo aperto. I compagni mi portano un piatto di pasta caldo, chiacchieriamo un po’. Stasera non posso fare socialità, ma va bene così, la giornata è stata molto lunga e ricca di emozioni, sono molto stanco. Mi preparo il letto e inizio ad ambientarmi in cella. L’impatto con questa nuova sezione è piuttosto duro, ma so che tra qualche giorno andrà meglio. La capacità di adattamento dell’uomo agli spazi è incredibile. D’altra parte più della metà della popolazione mondiale vive nelle metropoli, e questo la dice lunga.
Ecco, ho cercato di restituirti quella giornata con una carrellato in soggettiva veloce ma fedele nei vari passaggi. Le cose da dire sarebbero molte di più […]
Sulla questione di merito (meglio o peggio, contenti o scontenti…) cosa dire? È molto soggettivo. Qui siamo tutti in cella da soli, la cella è più spaziosa e meglio organizzata, la sezione è molto tranquilla e silenziosa, ci sono solo compagni e non ci sono ruffiani…
Ma l’ambiente è estremamente asettico e triste, il tramonto è un pallido bagliore dietro un plexiglass bianco. Tutto contribuisce alla privazione affettiva e sensoriale e spinge all’introversione (e te lo dico io che sono un amante della solitudine).
Io, Claudio, Nicco e il mio concellino Alessio passavamo la socialità a cucinare e a mangiare insieme, talvolta a cantare. Durante le ore d’aria si correva, si scherzava, ho ancora i lividi sui piedi per le volte in cui abbiamo giocato a pallone con una bomboletta del gas imbottita! Qui la socialità la si passa in corridoio a camminare avanti e indietro e si mangia da soli perché non è consentito entrare nelle celle degli altri. Così passa l’appetito e la voglia di cucinare. Certo alle Vallette eravamo in una zona di limbo, tutto era sospeso, ci tenevano il blindo chiuso… ma attorno a noi girava un piccolo mondo di storie diverse, belle, brutte, contraddittorie, compromesse, eticamente lontane da noi, ma pur sempre storie, pezzi di vita. Qui invece è tutto certo, tutto dato, il nostro “status” è riconosciuto e trattato di conseguenza, ma non saprei cosa raccontare delle mie giornate tutte uguali. Ho il doppio delle ore d’aria (sulla carta, le devo dividere a metà con Nico per il divieto d’incontro) ma me ne faccio poco. Ho il blindo aperto, ma su un corridoio vuoto e silenzioso. Sono circondato da bravi compagni ma ermeticamente isolato da tutto il resto del carcere. Rispetto a questo luogo la sezione “D” delle Vallette era un mercato rionale…
Comunque se c’è una cosa che ho capito in questa mia breve permanenza nelle patrie galere è che il discorso “meglio o peggio” sul carcere vale fino a un certo punto. Non voglio dire che un carcere vale l’altro ma che ci sarà sempre un luogo peggiore di quello in cui si è, che sia all’interno dello stesso carcere in cui ci si trova o che sia altrove, su questo si basa la premialità e la differenziazione.
L’esempio che facevo prima sul blindo rende l’idea. Noi ci lamentavamo del blindo chiuso alle Vallette, ora ce l’abbiamo aperto ma questo non ha comportato nessun miglioramento, perché fuori dal quel blindo non c’è più niente da vedere.
Oppure io l’altro giorno mi lamentavo del fatto che alle finestre delle celle sono montati dei pannelli di plexiglass che impediscono di vedere fuori e mi è stato fatto notare che a Ferrara questi pannelli non ci sono ma da vedere fuori c’è solo un muro perché le sezione di A.S. è al piano terra. Capisci cosa intendo?
Guarda la corrispondenza, qui sembra funzionare meglio in quanto a rapidità di consegna ma la censura sembra essere ancora più stretta. Guadagni da una parte, perdi dall’altra. Dare un giudizio di valore categorico “meglio” o “peggio” è ipotizzabile solo attraverso un esercizio di contabilità molto soggettivo e relativo. La realtà è che il carcere è una merda, punto e basta. Poi ci sono tante sfumature.
Comunque se vuoi un giudizio personale, queste sezioni sono un vero e proprio concentrato punitivo che ha un impatto sugli individui moltiplicato rispetto alle sezioni comuni e non è solo una questione di separazione dal resto dei detenuti ma anche una ricaduta sulla capacità stessa di relazionarsi dei singoli compagni qui reclusi.
Poi a fare la vivibilità di un luogo non è solo l’architettura e il codice di comportamento che lo disciplinano, ma anche la vitalità dei singoli che lo “abitano”, quindi sta a noi cercare di viverlo al meglio non adattandoci al corso delle cose.
Ma questa è un’altra storia.

Un abbraccio, Mattia»

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