A 34 mani

NOTE SULLA LOTTA CONTRO GLI SFRATTI A TORINO

Quello che segue è uno scritto a 34 mani. È stato redatto da alcuni arrestati del 3 giugno e propone una lettura complessiva dell’inchiesta, delle sue implicazioni e cerca anche di raccontare, ancora una volta, due anni di resistenza e lotta nelle strade di Torino.
Proprio come i migliori romanzi d’avventura verrà pubblicato a puntate, e ognuna di queste affronterà un aspetto differente della storia che ci interessa.
Ne immaginerete certamente la difficoltà di redazione, con gli autori dispersi in celle o case di città differenti; qualcuno sottoposto a censura; con i ritardi e i disguidi propri della corrispondenza carceraria. Ne perdonerete dunque la disomogeneità di stile e pure certe contraddizioni di punti di vista e contenuti. Puntata dopo puntata avrete tra le mani un testo collettivo, sì, ma nel senso della pluralità delle voci, della coralità: non c’era a disposizione alcun direttore d’orchestra che potesse dettar la partitura e, del resto, nessuno l’avrebbe voluto avere.

Sulla questione organizzativa

Non credo valga la pena di affrontare le tesi di un’inchiesta simile ribattendo punto per punto ai contenuti delle carte. Il modo in cui viene tratteggiata un’esperienza di lotta sociale sviluppatasi durante tre anni e tuttora in corso risulta completamente distorto.
In un simile cumulo di falsificazioni alcuni passaggi offrono però l’occasione di mettere le cose in chiaro. Quel che più mi preme è la questione organizzativa, la prospettiva d’insieme che regge la resistenza contro gli sfratti.
È noto che il nostro percorso, sorto a Torino nei quartieri di Porta Palazzo, Barriera di Milano, Borgo Vittoria presenta dei tratti molto peculiari. Risponde infatti all’iniziativa di alcuni anarchici presenti in una determinata zona della città, dove il bisogno della casa e la pressione dello sfratto sono esasperati. Ci sono saldi legami già formati in quelle strade, in una componente di sfruttati per lo più straniera. C’è un intervento pregresso intorno ai nodi del Cie, della clandestinità e delle retate, che ha favorito i rapporti di familiarità e conoscenza personale.
La lotta per la casa ha quindi modo di avviarsi raccogliendo un nucleo di sfrattati e solidali intorno alla pratica del picchetto, per strappare volta per volta una proroga all’ufficiale giudiziario, e poi dell’occupazione di edifici sfitti o abbandonati. Le tappe percorse, gli avanzamenti e gli ostacoli sono stati molteplici. Il decorso della lotta ci ha portato ad allargare la capacità di coinvolgimento, a costruire barricate per fronteggiare la polizia, ad inceppare le esecuzioni degli sfratti per un lungo periodo. Tutto ciò si è diramato intorno al fulcro decisionale ed organizzativo di un’assemblea. Non abbiamo mai voluto costituire uno sportello, una struttura separata a cui rivolgersi in caso di sfratto, preferendo invece spenderci nell’innescare una rete di mutuo appoggio composita, formata da compagni e da altri sfruttati del quartiere. Questo è l’elemento centrale, l’asse delle questioni metodologiche su cui occorre ritornare.

Durante la lotta ci siamo trovati ad affrontare attraverso analisi scritte quelle problematiche ed ipotesi che ci parevano più urgenti, attingendo talvolta ad esperienze e riflessioni del passato. È questo il caso di un articolo comparso sul mensile anarchico “Invece” con il titolo “Un obiettivo minimo desiderabile”, che ha qualche spazio nelle pagine dell’inchiesta. Ad interessare la narrazione repressiva sono concetti e categorie che richiamano il così detto “anarchismo insurrezionalista”, o meglio il dibattito teorico pratico che ha coinvolto, in decenni passati, parte del movimento anarchico intorno alla possibilità del progetto insurrezionale. In fin dei conti cosa si vuole davvero intendere con la suddetta espressione? Semplicemente un metodo organizzativo che mira a radicalizzare le lotte sociali attraverso l’autonomia da strutture politiche e sindacali, l’azione diretta e la conflittualità permanente. Nel libro “Teoria e pratica dell’insurrezione” si dice che quando una frazione degli sfruttati irrompe in un luogo controllato dal potere e ne sconvolge le regole di funzionamento, allora c’è un fatto insurrezionale. Sotto questo profilo la lotta contro gli sfratti sotto accusa ha già attraversato momenti, almeno germinali, di carattere insurrezionale. Chiudere uno o più incroci con barricate, interdire l’accesso alla polizia, sospendere l’operato repressivo delle istituzioni in una parte di territorio, non risponde forse alla descrizione considerata?
Appare chiaro come le preoccupazioni e gli sforzi siano tesi a far sì che il nostro ruolo di componente organizzata sia soltanto uno stimolo, non soffochi mai l’iniziativa autonoma. Annullare la delega, ecco la posta in gioco. Dall’articolo di cui tratto, come da tutto ciò che abbiamo detto scritto e fatto, emerge in modo quantomai lampante per chiunque sia disposto a coglierlo: «si deve lavorare per rendere meno determinante e indispensabile la presenza diretta dei compagni per quanto riguarda le decisioni ma anche i compiti organizzativi più concreti.[….] Cominciare a fare in modo che gli interessati discutano e si accordino tra loro, allargando la presa di parola e la responsabilità attiva». No? Proprio qui sorge il discrimine che ci distanzia anni luce da qualsivoglia soggetto politico, benché radicale, impegnato negli stessi temi.
Come conciliare intenzioni tanto esplicite con il «coinvolgimento, per lo più inconsapevole delle reali finalità destabilizzanti avute di mira, delle parti più deboli e disagiate della popolazione» di cui blatera l’accusa?
Anche il confronto con proposte avanzate in passato, come quella “nuclei autonomi di base”, si inscrive nella medesima lotta. Neanche a dirlo le carte dell’inchiesta mistificano il senso di questo riferimento: «In particolare il richiamo ai c.d. “nuclei di base”, forma organizzativa che ha consentito di dare corpo alla resistenza agli sfratti, è emblematico di come gli episodi trattati nella presente ordinanza siano il fine di un articolato programma criminoso […]». Peccato che l’articolo citato menzioni i “nuclei di base” in modo tutt’altro che pedissequo, dentro un’analisi problematica e densa di punti interrogativi. Quel che si trova interessante nella proposta dei “nuclei” è un’idea di struttura organizzativa non permanente ed informale, legata agli scopi e alla durata di una singola lotta, ad un “particolare attacco subito dagli esclusi”. Questo la differenzia dalle “strutture di sintesi”, cioè da organizzazioni che, anche nella storia anarchica, vogliono riunire e rappresentare l’intero campo degli esclusi. Di conseguenza abbiamo ravvisato una semplice consonanza con la natura della nostra assemblea contro gli sfratti. Ma il problema che ci siamo posti subito dopo è: possiamo intrecciare molteplici traiettorie di conflitto senza cedere a tendenze centralizzatrici?
Quando si lotta al fianco di persone che devono reagire al problema della casa, dei documenti e di procurarsi il cibo, bisogna per forza tenere separati questi bisogni? Oppure è lecito perseguire un accumulo di forze sociali, ad esempio nel raggio di alcuni quartieri, perché si disegni una più ampia rete organizzativa?
«L’idea di creare uno spazio, una fetta di città dove la densità di organizzazione degli esclusi sia abbastanza robusta da rendere possibile un’autodifesa efficace ed a ampio raggio, dove occupare le case, fermare le retate ed espropriare i supermercati siano risposte all’ordine del giorno alla molteplicità di problemi che si presentano all’orizzonte degli sfruttati … mi sembra un obiettivo minimo desiderabile». Mi pare che ci restino in mano parecchie domande… come unire le lotte senza illudersi di “ricomporre” una condizione proletaria irrimediabilmente dispersa? Possiamo approfondire il nostro radicamento in alcuni quartieri senza ripercorrere le tracce del “contropotere”? Una lotta specifica dura e radicale può formulare delle rivendicazioni senza dar luogo a derive sindacali? Non abbiamo risposte certe, non è facile averne.
Abbiamo tensioni ed idee ben chiare, i frammenti di un progetto comune, ma nessun programma pronto da applicare. D’altronde aspiriamo sempre a diventare superflui, ad alimentare un esercizio di autogestione che non ha bisogno di noi, viaggiando su binari inconciliabili con quelli della politica.
Proprio l’opposto di quanto ci si attribuisce.

Se vi siete persi una delle precedenti puntate di “A 34 mani” e ora vi è venute voglia di leggerle:

Al bando
Sul quartiere e la solidarietà