A 34 mani

NOTE SULLA LOTTA CONTRO GLI SFRATTI A TORINO

Quello che segue è uno scritto a 34 mani. È stato redatto da alcuni arrestati del 3 giugno e propone una lettura complessiva dell’inchiesta, delle sue implicazioni e cerca anche di raccontare, ancora una volta, due anni di resistenza e lotta nelle strade di Torino.
Proprio come i migliori romanzi d’avventura verrà pubblicato a puntate, e ognuna di queste affronterà un aspetto differente della storia che ci interessa.
Ne immaginerete certamente la difficoltà di redazione, con gli autori dispersi in celle o case di città differenti; qualcuno sottoposto a censura; con i ritardi e i disguidi propri della corrispondenza carceraria. Ne perdonerete dunque la disomogeneità di stile e pure certe contraddizioni di punti di vista e contenuti. Puntata dopo puntata avrete tra le mani un testo collettivo, sì, ma nel senso della pluralità delle voci, della coralità: non c’era a disposizione alcun direttore d’orchestra che potesse dettar la partitura e, del resto, nessuno l’avrebbe voluto avere.

Fine della contrattazione

La casa è di chi l’abita. Questo verso di un vecchio canto anarchico e l’imperativo “Basta sfratti” sono, potremmo dire, le parole d’ordine di questa resistenza contro gli sfratti.
Non c’è stata invece alcuna richiesta di moratorie tra gli slogan gridati o i discorsi elaborati nel corso della lotta. Piuttosto che contribuire a far percepire le autorità come dei possibili referenti cui chiedere o strappare qualcosa, abbiamo insistito con forza sulla possibilità, e le modalità utili, a resistere per tenersi la casa.
L’invito a chi ha uno sfratto è quello di organizzarsi da solo, con amici e parenti, e se questo non è possibile o non basta, di ricercare l’aiuto di altri con lo stesso problema o di solidali. Insomma, al posto dello slogan abbastanza diffuso: «Problemi di sfratto? Ci pensiamo noi», il nostro invito potrebbe suonare più o meno così: «Problemi di sfratto? Prova a pensarci tu o, se vuoi, pensiamoci insieme». Se non è semplice sapere quanto siano diffusi gli atti di resistenza “indipendenti”, la proposta di lottare insieme, organizzandosi attraverso un assemblea periodica, ha riscosso invece un discreto successo, consentendo di accumulare una forza tale da poter resistere a lungo agli sfratti e occupare diverse palazzine vuote. Una forza in grado insomma di strappare una moratoria di fatto, temporanea, come del resto sono tutte le moratorie, dovuta però alle difficoltà e non alle concessioni della controparte.
Una forza legata a una questione quantitativa, ma non solo e non principalmente.

La nostra tensione è stata infatti rivolta principalmente a conoscere altri uomini e donne disposti a resistere, cercando di stimolare in tutti una partecipazione sempre più attiva, così che le relazioni sviluppatesi diventassero sempre più salde e improntate alla solidarietà.
Uno dei principali scogli contro cui le lotte oggi si infrangono, è proprio il feroce isolamento in cui molti vivono e che rende molto difficile anche solo immaginare di poter resistere a una decisione imposta dalle autorità. Allo stato attuale, la solidarietà e la capacità di autorganizzarsi, piuttosto che basi da cui partire sono infatti alcuni degli obiettivi da raggiungere lottando assieme.
Il picchetto, allora, non è stato solo un efficace strumento per impedire a ufficiali giudiziari e forze dell’ordine di svolgere il loro dovere, come sottolineano le carte dell’inchiesta.
Conoscersi, mentre fianco a fianco ci si dà una mano per impedire uno sfratto, avendo di fronte il padrone di casa, l’ufficiale giudiziario e le forze dell’ordine, consente alla fiducia, alla determinazione e alla consapevolezza nelle proprie possibilità di aumentare. Picchetto dopo picchetto.
Ma i picchetti sono stati anche un formidabile strumento di propaganda. Le tante ore trascorse in strada davanti ai portoni sono state un’ottima occasione per discutere e conoscere tanti abitanti del quartiere che rischiavano di essere sfrattati o avevano amici e parenti con lo stesso problema. La scelta di non avere uno sportello cui potersi rivolgere per far fronte al proprio sfratto, non è stata quindi in alcun modo d’ostacolo all’incontrare altri compagni di lotta, anzi.
La visibilità offerta dai picchetti ha consentito una notevole crescita in poco tempo, ben al di là di quanto ci si potesse aspettare inizialmente. Una crescita che, insieme a un periodico rinnovarsi dei resistenti, – perché dopo un po’ qualcuno trova casa e si sistema, qualcuno non se la sente più e si allontana, mentre altri nel frattempo si uniscono alla lotta – ha complicato non poco il lavoro delle forze dell’ordine, abituate in genere a una conoscenza precisa e minuziosa di chi lotta.
In questo caso, invece, la mancanza di informazioni puntuali e di portavoce cui far riferimento hanno garantito una certa opacità a chi lottava, eccezion fatta naturalmente per i militanti, rendendo difficile alla controparte valutare quale internità la resistenza avesse raggiunto nei quartieri e, di conseguenza, quali reazioni avrebbe potuto provocare un loro intervento violento.
Un quadro diventato un po’ più nitido per la Questura, quando una parte dei resistenti ha smesso di lottare iniziando un’innocua protesta davanti al Comune nella speranza di farsi assegnare un alloggio, con tanto di nomi e cognomi consegnati a qualche amministratore e assistente sociale.
Fino ad allora, non c’era stata nessuna iniziativa sotto i palazzi delle autorità cittadine. Nelle assemblee preparatorie dei cortei e delle manifestazioni composte da sfrattandi, solidali e compagni, erano prevalsi infatti i dubbi di questi ultimi sulle tradizionali iniziative sotto i Palazzi, utili più a consolidare la convinzione che debbano essere le istituzioni a risolvere i nostri problemi, che a rafforzare la lotta.
Per questo le manifestazioni e i cortei si erano fino ad allora sempre svolti nei quartieri dove si sviluppa la resistenza, diventando dei momenti importanti per poter chiarire le nostre ragioni e incontrare altri compagni di lotta. Piuttosto che ricercare un dialogo con qualche sinistro amministratore, meglio discutere con altre persone che magari domani potranno essere al nostro fianco.
A insistere sull’importanza di contare solo sulle proprie forze, non si delinea certo un percorso scontato né molto battuto. Specie poi in una lotta come quella sulla casa, storicamente caratterizzata da conflitti e scontri anche molto duri che però convivono, o meglio, che sono complementari a rapporti più o meno stretti con l’amministratore illuminato di turno.
Imparare a contare solo sulle proprie forze non è quindi cosa facile.
Nello specifico di questa lotta, farlo significa anche, tra le mille altre cose, spremersi le meningi e poi adoperarsi affinché in caso di sfratti o di sgomberi nessuno rimanga in mezzo a una strada. Perché chi lotta non dev’essere lasciato solo né nelle grinfie degli assistenti sociali. E pur tra mille difficoltà, malumori ed anche aspre discussioni, finora nella nostra piccola esperienza il mutuo appoggio non è mai venuto meno. Chi è stato sbattuto fuori di casa, e nell’ultimo anno non sono stati pochi, ha sempre trovato ospitalità da qualche altro sfrattando o in qualche altra casa occupata. L’aumentare della repressione, e il rischio di non avere quindi più posti dove ospitare chi rimane senza un tetto, ha anzi costretto in alcuni casi ad accelerare i tempi e moltiplicare le energie per occupare e mettere a posto una nuova abitazione. Gli sgomberi, insomma, possono essere anche uno stimolo in più a rimboccarsi le maniche.
Lungi da noi farci sostenitori del “tanto peggio tanto meglio”, questo esempio serviva solo a sottolineare come a passi piccoli e che non sempre tra l’altro si dirigono nella direzione auspicata, si sta comunque imparando a far da soli.
L’aver escluso l’ipotesi di manifestazioni sotto i Palazzi, come si accennava prima, hanno di certo reso più semplice questo percorso. Resta però il dubbio che questa scelta, pur corretta, sia stata presa un po’ sbrigativamente, facendoci tralasciare alcune possibilità.
Finora l’unica rivendicazione dai noi formulata, se così la si vuol definire, è “Basta sfratti”, una parola d’ordine che ha il suo corrispettivo pratico nel picchetto, che serve proprio a dar concretezza a quel “Basta”. Abbiamo detto, insomma, quello che facevamo e abbiamo cercato di fare quello che gridavamo e scrivevamo sui muri.
Ma esistono altre rivendicazioni, in cui la corrispondenza tra il dire e il fare potrebbe non essere così immediata e stringente, in grado di accompagnare e rafforzare questa lotta? E come sostenerle evitando le tradizionali dinamiche della contrattazione, i tristi e inutili presidi sotto il Comune e la nascita e il consolidamento di un gruppo di portavoce, che renderebbero l’autorganizzazione della lotta una parola sempre più svuotata di ogni significato reale? Come far sì, insomma, che altre eventuali rivendicazioni possano essere un trampolino, in grado di rafforzare e radicalizzare una lotta, piuttosto che dei punti di arrivo, destinati invece a dividere chi resiste, far centellinare con attenzione la conflittualità, e in definitiva soffocare la lotta?
Diversi come su cui non abbiamo accumulato, per quanto detto finora, grandi esperienze che possano aiutarci nelle riflessioni e che in ogni caso andrebbero affrontati tenendo conto anche del quando.
L’oggi non sembra infatti proprio essere tempo di contrattazioni. Le istituzioni non sembrano disponibili a concedere alcunché, praticamente in ogni ambito. Sul fronte casa, non viene offerto molto altro oltre a sfratti, sgomberi, manganellate e misure cautelari. Una scarsa disponibilità al dialogo, sancita dal Piano casa del governo Renzi, che sta creando non poche difficoltà anche ad alcune componenti, di un movimento ampio e radicato come quello romano per la casa, abituate a miscelare attentamente “muscoli”, telefonate e incontri istituzionali.
Una fine della contrattazione che, senza minimizzare le difficoltà che la accompagnano, non toglie però alcun interesse alle riflessioni sulla questione rivendicativa, anzi. Specie se l’obiettivo di eventuali rivendicazioni non è quello di sedersi a qualche tavolo di trattativa, ma ribaltarli tutti.

Se vi siete persi una delle precedenti puntate di “A 34 mani” e ora vi è venute voglia di leggerle:

Al bando
Sul quartiere e la solidarietà
Sulla questione organizzativa