Così lontano, così vicino: dalle Poor doors al Social Housing
Input londinesi
Sabato 26 settembre nel quartiere londinese di Shoreditch un corteo dichiaratamente anti-gentrification ha imbrattato e frantumato le vetrine di alcune agenzie immobiliari e di una piccola caffetteria della zona. I collegamenti tra i processi di riqualificazione urbana e le agenzie immobiliari sono sufficientemente palesi da non richiedere grosse spiegazioni. Ciò che ha destato l’interesse mediatico, non solo oltre Manica, è stata la scelta da parte dei manifestanti di colpire quello che i giornali chiamano “un piccolo business indipendente”. Cereal Killer, l’attività in questione, è un bar in cui si servono scodelle di cereali e latte al modico prezzo di 4,50 pounds, tutto ciò in una zona dove il reddito medio annuo non supera le undicimila sterline. Risulta chiaro che la sua presenza è contemporaneamente aliena alle condizioni di vita della popolazione residente e una testa di ponte della rivalorizzazione di strade e case della working class.
Sorvolando – ma non troppo – sugli intenti esplicitati dagli organizzatori della Fuck Parade, l’azione ai nostri occhi risulta interessante perché potrebbe innescare un dibattito molto più fertile della canea liberal uscita sulla carta stampata e su quella pixelata. Questo dibattito riguarda la composizione sociale e la possibile opposizione di classe nei quartieri che subiscono i nuovi investimenti del capitale.
Come avrete modo di ascoltare nell’intervista a una compagna residente nei quartieri di East London, andata in onda su Radio Blackout durante la trasmissione Macerie su Macerie, la situazione locale non si esaurisce nella descrizione cronachistica di quella giornata. Ciò che vorremmo riuscire a mettere in evidenza a partire da questa chiaccherata è come determinati processi di una città all’avanguardia come Londra possano darci informazioni utili per il futuro delle nostre strade.
[audio:https://macerie.org/wp-content/uploads/2015/10/intervista-erika-londra-2-ottobre-2015.mp3]Dall’intervista traspare la feroce valorizzazione della proprietà immobiliare in atto che si manifesta attraverso la costruzione di un immaginario culturale specifico della città, che tuttavia non riguarda solo l’ambiente urbano ma che tende a voler plasmare secondo nuovi codici economico-morali la società tutta.
L’affresco che si è provato a dare, seppur con poche pennellate rispetto alla complessità e all’ingenza dei fenomeni, è quantomai chiaro: in molte zone periferiche londinesi i proletari vengono cacciati in massa dai palazzi-blocco per lasciare posto al rinnovamento urbano. E seppur sono in molti a organizzarsi per resistere agli sfratti, faccia più evidente del cambiamento, è comunque necessario pensare a come opporsi in maniera efficace agli aspetti più indiretti dell’ostilità costruita attraverso gli spazi urbani. Chi è costretto ad andare via coercitivamente o per via dei costi in aumento, dovrebbe iniziare a fare occhio a quali siano i segni che precedono l’arrivo di una brutta aria. Il moltiplicarsi di localini cosiddetti hipster, in quest’ottica, è solo il sintomo di una trasformazione più profonda che affonda le sue radici nella costruzione di un governo complessivo della popolazione. Con questo non si vuole sminuire il ruolo che certe attività, seppur piccole come Cereal Killer, hanno nel costruire l’attrattività di un quartiere, nel fare delle più intime abitudini come la colazione con infimi cereali un esoso marketing, nel promuovere uno stile di vita che è un modo di vivere la città, di plasmarla attraverso nuove frontiere economiche. Anzi. La responsabilità materiale di luoghi come questi è più rilevante se li si osserva con una lente più ampia, in grado di inserirli all’interno della pianificazione sempre più sofisticata di come si deve vivere la città.
In questa prospettiva la centralità delle ricerche antropologiche, urbanistiche, e sociologiche sul tema dell’abitare hanno il ruolo strategico di studi preliminari all’economia, intesa come rimessa in funzione dell’insieme dei meccanismi di accumulazione che costituiscono il corpus urbano. E se cacciare in massa le persone dai quartieri in via di reinvestimento sembra ormai la prassi di tutte le città, molto più interessante per le ricerche sull’Housing è la gestione di quella parte di popolazione povera che, in piccole e selezionate dosi, serve anche nelle aree riqualificate.
Topico in questo senso è l’esempio riportatoci nella chiaccherata radiofonica delle Poor Doors. Stiamo parlando di nuovi edifici eco-sostenibili in quartieri centrali o in rivalutazione, in cui vengono realizzati due ingressi separati, uno principale che si affaccia sulla street e che dà accesso alle abitazioni di prestigio, e uno nelle retrovie, destinato a delle case a canone calmierato. Si rende così palese che il processo di gentrification non si esaurisce tout court con la cacciata in massa degli incompatibili con le nuove tendenze dell’economia urbana, ma esso funziona soprattutto come un sistema sofisticato di filtraggio che va a pescare anche nelle classi sociali più povere perché, al di là della retorica sull’immaterialità economica della città oggi, anche i quartieri ripuliti necessitano di mano d’opera più o meno spicciola che viva nelle vicinanze. Certo, solo quella strettamente necessaria e che non costituisca una fetta importante della popolazione e che soprattutto, come ci insegnano le doppie-porte, non sia visibile quanto piuttosto controllabile, prêt-à–porter.
Ecco perché risulta così facile il collegamento tra le Poor doors londinesi, in cui l’aspetto sociale dell’iniziativa privata va di pari passo con forme di segregazione e disciplinamento, e il significato profondo – sicuramente meno immediato – dei progetti di Social Housing a Torino. L’anno scorso vi abbiamo parlato di uno di questi, voluto dalla Compagnia San Paolo in Piazza della Repubblica, cercando di capire in che modo un posto come quello non fosse un semplice investimento immobiliare e ancor meno un’incondizionata opera di caritatismo. Infatti la selezione delle persone a rischio povertà beneficiarie di quel determinato progetto dà ragione alle considerazioni sulla riqualificazione come bonifica di un determinato territorio dalla popolazione indigena, nella sua quasi totalità non integrabile, e – come ci suggeriscono da Londra – come “decantazione”, in cui alcuni gruppi di persone rientrano nel processo di inclusione.
Dopo LuoghiComuni, ci troviamo ora a cercare di capire il possibile impatto territoriale di una nuova residenza “social”, in cui lo zampino della felina San Paolo fa presuporre che in palio, in termini di profitto, ci sia ben più che un pezzo di lardo.
Il caso di Vivo al Venti
A chi è solito passare a Porta Palazzo risulta evidente che da qualche tempo l’architettura della zona sembra creare delle forti contraddizioni ambientali: sulle strade attraversate dai soliti e affaticati trasportatori di bancali s’incrociano giovani studenti di scrittura creativa e di design; spesso a fatiscenti facciate di case a ballatoio si affiancano quelle nuove fatte di vetrate o con imponenti cornicioni, stucchi e chi più ne ha ne metta. È quest’ultimo il caso del palazzo barocco del Juvarra, situato nel quadrante sud est della piazza del mercato e sede giustappunto del progetto di “innovazione sociale e abitativa” VivoalVenti della San Paolo in combutta con altre fondazioni bancarie piemontesi.
L’edificio mostra da sé che il target di persone a cui è destinato è differente rispetto a quello del suo antecedente LuoghiComuni. Ebbene pare che anche Vivoalventi abbia aperto definitivamente i battenti e che ci sia stata la prima consegna di appartamenti in affitto. Ed è nei criteri di assegnazione e nella descrizione dei progetti, oltre che nell’attenzione architettonica, che è facile trovare indizi sugli intenti e le fasi della rigenerazione urbana in quel di Porta Palazzo. E se per il progetto abitativo precedente il nodo da sviscerare era proprio quello dell’inclusione di persone a rischio povertà, questa volta il punto sta nel riuscire a disvelare l’esclusione delle nuove politiche di welfare partecipativo portate avanti in questo social housing ma non solo.
Gli abitanti di via Milano 20 sono accuratamente selezionati e devono essere giovani tra i trenta e i quarant’anni con capacità di reddito, seppur non troppo elevata, e soprattutto competenze e tempo spendibili nella costruzione dell’innovazione sociale nel territorio circostante, alias in una messa a profitto più radicale e, secondo i piani della nuova governance, più condivisa. Una volta, dunque, che su Porta Palazzo è stata conclusa buona parte della politica di bonifica sociale a suon di retate, sfratti e spostamento in massa di persone che alimentavano pezzi di economia informale (il cosidetto Suq domenicale, per esempio); una volta che sono stati impiantati i primi investimenti sociali come i laboratori culturali volti a costruire un filtro che, con la “buona” faccia della retorica della mixité etnica e transclasse, sta effettuando la scrematura di cui parlavamo sopra; ora siamo alla fase in cui si selezionano coloro che possano offrire un contributo gestionale all’organizzazione di una nuova ripartizione dei servizi welfaristici. Queste persone selezionate in base alla presentazione di veri e propri curricola sono anche gli abitanti di Vivoalventi, giovani con una spiccata attenzione per il “sociale”, spendibili come lavoratori in quartieri da trasformare in sistemi di impresa diffusa.
Dalla casa all’impresa sociale diffusa
La nuova residenza social è in linea con i piani dell’edilizia sociale che hanno preso piede in tutta Europa. Infatti uno degli obiettivi primi della costruzione di posti come questo è di trasformare la concezione di casa: da tana unifamiliare separata dalle regole del dominio pubblico, funzionale alla riproduzione della forza-lavoro sul modello della città industriale FIAT, a luogo in cui avviene la produzione stessa: spazio in cui sì, si vive ma si organizza soprattutto l’offerta di servizi alla persona, alla famiglia e alla comunità. Chi abita o partecipa al progetto di VivoalVenti è chiamato a contribuire non solo alla gestione e erogazione di servizi come quello dell’asilo “ZERO-SEI” ma anche alla continua ricerca di patners pubblici e privati nel territorio, al coinvolgimento di comitati cittadini, e in generale alla costruzione dell’interesse partecipativo ai progetti che padroni e governanti hanno sulla città. Essi sono dei veri e propri facilitatori dello sviluppo economico endogeno che, attraverso l’area based che è la casa delle banche, s’impegnano a intrecciare i fili di un nuovo tessuto sociale in cui l’accesso ai servizi, come appunto l’asilo nido al piano terra dell’edificio, è legato al livello di competenze e al tempo spendibili nella costruzione del servizio stesso. Non c’è bisogno di chissà quale statistica per immaginare che non tutte le fasce sociali possano permettersi questa sorta di commonfare calato dall’alto e del resto non è per tutte che è pensato.
Infatti con la retorica in voga della cittadinanza attiva si formano collaboratori più o meno informali di progetti bancari o comunali, persone appartenenti alla fascia media e con medie competenze sociali che altro non sono che attuatori, coinvolgitori, nuovi assistenti sociali con una vena più ludica che in passato. L’organizzazione delle feste di quartiere, il laboratorio d’artigianato per bambini o il workshop sul consumo consapevole rappresentano il velo pubblicitario sopra i dispositivi di sfruttamento. In buona parte coloro che vivono in città sono le persone che tirano difficilmente a campare, che sono private dell’accessibilità ai bisogni materiali, che con la retorica progressista della metropoli culturale non si procurano il pranzo, la cena e un tetto.
Dalle “politiche per la casa” alle “politiche per l’abitare”
Un ruolo rilevante in questa ristrutturazione generale è quello degli amministratori pubblici che non perdono occasione di sostenere la grande banca torinese e altre fondazioni affinché, con investimenti di questo tipo, mettano in campo una prevenzione diffusa alle contestazioni. Non si possono permettere che troppa gente messa alle strette, privata oramai anche di quegli aiuti che hanno caratterizzato il welfare del Novecento, cerchi di risolvere i propri problemi autonomamente o andando ad alimentare i percorsi di lotta che già ci sono in città. Se poi c’è una parte nutrita di bendisposti giovani che, come detto sopra, si presta nell’edificazione culturale del consenso, ancor meglio. Che sia finito il tempo in cui lo Stato gestiva le risorse finanziarie schermando l’immagine della povertà con un misero sostegno al salario o relegandola ai confini della città in ghetti di edilizia popolare, è insomma chiaro a tutti. Tuttavia, a dispetto di quanti sostengono che Comune e amministrazioni locali oggi siano inoperativi o incapaci di realizzare soluzioni rispetto ai problemi come quello dei servizi o della casa, il sostegno a investimenti come quello della San Paolo dimostra invece un impegno pubblico strutturato e costante.
Il Comune non si discosta troppo dalle politiche sociali nazionali o, in generale, dalle coordinate europee in merito alla gestione delle risorse: le amministrazioni pubbliche devono smuovere e coordinare i capitali dei privati interessati a uno specifico territorio. L’abilità dei governanti sta nell’avere un piano di sviluppo in grado di attrarre investimenti, riuscire a convogliare una piccola parte di questi in ambito sociale con l’agevolazione degli sgravi fiscali, e imbastire una rete di servizi che non potrà più prescindere dal capitale privato.
Così come il vecchio stato sociale non si distribuiva in modo geograficamente omogeneo sul territorio nazionale ma costituiva soprattutto l’assistenza necessaria alla forza lavoro impiegata nell’apparato industriale, allo stesso modo la nuova idea di welfare che sembra prefigurarsi è rivolta al sostegno di coloro che hanno un ruolo attivo nella riorganizzazione della produzione di servizi.
Per chi non se ne fosse accorto, oggi come ieri l’accessibilità ai diritti risponde a criteri immanenti al ruolo che gli individui svolgono nella valorizzazione del capitale e all’esigenza che ne consegue di introiettamento di un sistema di norme basato sulla dicotomia inclusione/esclusione.
L’immaginario a cui facciamo riferimento sopra commentando l’intervista, anche laddove si esprime con un piccolo negozietto che vende cereali, fa parte di questo sistema di norme: creazione di nuovi stili di vita in cui la merce, i servizi, e persino l’intimità domestica, divengono feticcio nel depliant pubblicitario della città.