In Borgo Dora dicono i muri

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Chi stamane ha sgranchito le gambe al consueto Balon, avrà potuto notare la comparsa sui muri del borgo di alcuni cartelloni fatti di parole e di immagini che raccontano una storia. Ci teniamo a riproporvela e se voleste tenerla potete scaricarla qui. Il testo che trovate sotto era poi accompagnato da alcune foto che ritraggono Borgo Dora all’inizio del Novecento, alla fine degli anni ’60 / inizio anni ’70, fino ad arrivare ai giorni nostri, prima e dopo la cacciata del mercato spontaneo della domenica da piazza della Repubblica.

L’AMORE CHE FA MALE

C’era una volta, tanto tempo fa, il Borg ëd jë strass per tutti ironicamente noto come Stras-burgo perché là le persone non solo lavoravano la pelle alla conceria ma provavano anche a vender in strada i propri stracci e ferrivecchi per tirar su la giornata.
L’umidità dei canali utilizzati per l’energia dell’industria delle pelli permeava i muri delle case e il fetore delle lavorazioni era l’atmosfera quotidiana in cui erano immersi gli abitanti del borgo. Era uno dei luoghi in cui era concesso abitare a una fascia di popolazione della città che doveva costituire la mano d’opera dei nascenti quartieri-fabbrica a nord del centro sabaudo.
La città è sempre stata per molti un posto difficile in cui vivere anche se spesso è l’unico in cui provare a farlo. Proprio coloro che non riuscivano a sopravvivere con il magro salario da operaio o non volevano sbarcare il lunario seguendo i ritmi incalzanti della catena di produzione in fabbrica, hanno imparato ad arrangiarsi. Il buttar giù i teli dando vita a quello che poi avrebbe preso il nome di Balon, provare a tenersi la casa quando non c’erano i soldi per pagare l’affitto al padrone, inventarsi modi di fare due spicci sono manifestazioni di un spirito di sopravvivenza e di un’esigenza materiale data dall’indigenza nella città dello sfruttamento industriale.

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C’era una volta, qualche decennio fa, un mercato del sabato sempre più esteso tra le vie del borgo  anche se le concerie non c’erano più e i canali erano stati interrati. Le cronache locali dicevano ai signori del centro di tenersi stretti il portafoglio quando decidevano di passeggiare il sabato tra i laboratori d’artigianato spuntati tra i teli di ammennicoli e vestiti usati. Si raccomandavano anche con gli operai della Barriera di non alimentare, come invece facevano,  il commercio nel borgo diffuso del contrabbando di sigarette e la ricettazione di pezzi d’auto FIAT. Gli abitanti di questi quartieri spesso erano proprio operai che venivano dalle campagne del sud, costretti in 40 metri quadri col bagno comune nel ballatoio, incastrati da un lavoro in fabbrica per tutta la giornata e dal ricatto delle bollette. Un altro modo di sbarcare il lunario era quello di improvvisarsi circensi in piazza come faceva il mangiatore di spade o il tuttora celebre Maciste solleva-pesi. Ma  non sono pratiche nate per costruire un’immagine da rivendere oggi nelle discussioni buone al dehor di via Borgo Dora. Tant’è che se Maciste viene ricordato solo in quanto personaggio strampalato e caratterizzante, si omettono la crudezza della vita e la volontà di lottare. In quegli anni, infatti, non capitò di rado che gli operai occupassero le case, disertassero le macchine della fabbrica e si autoriducessero tutti insieme i bollettini di luce e gas.

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C’è poi un oggi in cui le stesse fabbriche che erano luogo di lavoro per tanti sono edifici vuoti e fatiscenti o cumuli di macerie; le persone che abitano queste vie continuano a essere assillate dalla preoccupazione di avere i soldi per poter vivere, costretti tra i lavori che la città di oggi offre, per lo più nel mantenimento del settore dei servizi o barcamenandosi tra i flutti tortuosi  di un’economia più informale.
Saturata la vocazione industriale, Torino, come molte altre città europee, tenta di mettere a profitto gli spazi: sui resti delle fabbriche si fanno progetti di centri direzionali di grosse aziende, mentre i quartieri vicini al centro dove abitavano gli operai vengono riqualificati attirando nuove attività economiche, nuovi utenti e abitanti.
Alla fine degli anni ’90  il progetto The Gate, finanziato dal Comune e da fondazioni bancarie, prima tra tutte Intesa San Paolo, lancia la rigenerazione di Porta Palazzo, dichiarando di voler combattere il degrado sociale e urbanistico.
Le vie strette e acciottolate, le case minute e caratteristiche, la facile raggiungibilità dal centro città, la vivacità e i colori del mercato, le botteghe dei mobilieri, il fascino esotico di negozi alimentari di arabi e cinesi, il casino stravagante dei venditori di ammennicoli del Balòn, il carico di una storia travagliata e pittoresca fanno di Porta Palazzo il soggetto ideale da rispolverare e rappresentare in una cartolina.
Nelle case del quartiere iniziano a essere messe in atto procedure di sfratto, a volte con l’unico pretesto di ristrutturare e affittare nuovamente a prezzi più alti. I mercati spontanei del quartiere vengono pian piano legalizzati e cacciati in zone più periferiche. I controlli della polizia diventano più frequenti e sotto la loro pressione coloro che sono considerati indesiderabili vengono sospinti più in là, appena oltre il fiume, laddove lo sguardo dei nuovi avventori non arriva.

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Mentre gli appartamenti ristrutturati sono affittati a giovani studenti o liberi professionisti a prezzi più elevati, le vetrine ai piedi degli stessi palazzi vengono occupate da localini che rispondono alle esigenze e ai consumi dei nuovi abitanti.
Tanti dei commercianti che hanno appena tirato su le serrande a Porta Palazzo, con attività ristorative o bottegucce dai prezzi salati, non sono semplicemente mossi dalla necessità di far fruttare l’attività ma anche dall’idea di voler trasformare la zona con la propria presenza. Capita sempre più sovente che siano proprio loro a chiamare la polizia per risolvere ogni questione fuori dalle righe, facendo diventare l’infamità un valore. Come fosse una missione civilizzatrice, sottoscrivono le intenzioni di The Gate, spacciando la violenza della riqualificazione come amore per il quartiere.
Di pari passo al cambiamento che attraversa queste strade si affianca una narrazione, non proprio simile alla storia che è sopra raccontata, semplicemente, un modo per giustificare quest’agire; così si scrive un nuovo racconto che vuole parlare di questi muri e di queste strade rivisitando in chiave folklorica la presenza costante dello sfruttamento nella vita di chi qui ci ha vissuto. Questa narrazione diventa materia per creare un collante sociale, buona anche da vendere ai turisti di passaggio.

Se critichiamo e lottiamo contro queste trasformazioni non accettiamo però che ci rimanga il degrado da difendere. Degradato è spesso l’attributo affibbiato ai luoghi che saranno investiti da riqualificazione. Acuendo la stigmatizzazione di luogo sporco, ferale, nido di attività illegali, risultano ben giustificati la colonizzazione da parte di nuovi abitanti dai portafogli più gonfi, la cacciata forzata degli indesiderati per mano della polizia, la ristrutturazione e il rimbellettamento dei palazzi e delle strade. Il degrado è creato da una parte dall’abbandono strumentale di certe zone per poi essere messe a profitto, dall’altra dall’attraversamento di gente senza proprietà e senza radicamento che vive la città e il suo arredo urbano tra ostilità subita e ostilità covata, sempre sbracciandosi per restare a galla.
Se non vogliamo questo quartiere tirato a lucido non abbiamo neanche nostalgia del borgo degli stracci. Guardando indietro osserviamo un luogo segnato dallo sfruttamento e della miseria, posto per riposare e riprendere le energie per tornare poi in fabbrica, vie dove improvvisare una bancarella ogni tanto per strappare quei due soldi in più. Qui, come in altri quartieri popolari di Torino, la vita è sempre stata faticosa.
Se la storia non si può cambiare si può però provare a immaginare un luogo senza sfruttamento ed esclusione; un luogo plasmato dalle esigenze e dai desideri delle persone che ci vivono, persone legate tra loro da relazioni altre, non semplici colleghi di lavoro, non vicini di casa o parenti. Legami basati sulla contrapposizione a questo stato di cose, rinforzati dalla consapevolezza di avere destini comuni e nemici comuni.
Lottando insieme contro chi sfrutta, specula e caccia dopo aver ben spremuto, diamo nuova concretezza a questo spazio.