La terra da sotto i piedi

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Nel 2004 il secondo governo Berlusconi istituì il “Giorno del ricordo” per commemorare le vittime italiane delle foibe sul finire della seconda guerra mondiale nelle terre sul confine orientale. L’istituzione di questa solennità civile ha contribuito a cristalizzare uno scontro annuale tra gruppi destrorsi e gruppi antagonisti: i primi intenti a utilizzare strumentalmente la storia dell’esodo d’Istria e Dalmazia in chiave identitaria; i secondi mossi dalla semplice morale antifascista quando non anche delle maggiori crudeltà subìte dalle genti jugoslave.  Non c’è qui l’intento né la necessità di approfondire uno snodo storico che necessiterebbe di un’attenzione certosina in grado di trascendere le polarizzazioni ideologiche per addentrarsi nei meandri della sociologia bellica e della costruzione nazionalistica della storia del ‘900. In generale ci interessano le maniere in cui sono distribuiti i poteri in un dato periodo storico, rivolgendoci con una prospettiva di classe a coloro a cui in questo mondo non viene richiesto un ruolo gestionale. Balza subito agli occhi, infatti, come la realtà sociale sia sempre complessa, contradditoria e frammentata. Per questo siamo sempre diffidenti davanti al concetto unitario e fittizio di popolo, sia che a utilizzarlo sia un navigato politico sciovinista o chi in buona fede guarda il mondo attraverso una lente basata sul codice binario dei buoni e dei cattivi. Proprio per questo interesse prospettico quando arriva febbraio, mese della ricorrenza e delle inerenti iniziative neofasciste di commemorazione, ci interroghiamo sull’impegno che alcuni militanti riservano nell’organizzare contro-iniziative sotto l’egida forfettaria dell’antifascismo.

Che sia chiaro e marchiato col fuoco che i seguaci di Casapound & Co. non sono altro che dei laidi! Tuttavia il modo in cui sollevano i problemi sociali dovrebbe forse far preoccupare più di una marcetta al passo dell’oca sotto una lapide del 1945. Infatti non capita di rado, e anche in questa città, che i suddetti s’affaccino per le strade di quartieri popolari con iniziative le cui tematiche sono tutt’altro che fuori fuoco. Il degrado urbano, l’impossibilità per molti di avere una casa stabile, l’insicurezza che si respira nello sbracciare per stare a galla tra i flutti di un’economia sempre più sofisticata e flessibile, sono questioni che fanno fortemente presa di questi tempi; lo fanno ancor di più se s’aggiunge a condire il tutto la loro retorica basata sul binomio privilegio-esclusione.  Soprattutto chi ha meno s’è reso conto che è finita l’epoca in cui lo Stato cercava di velare l’immagine della povertà attraverso politiche di ridistribuzione e sussistenza. Ed è proprio a loro che Casapound si rivolge offrendo d’aggrapparsi alla boa di un rivisitato privilegio di nascita: “sì, sei povero ma puoi ancora contare sul fatto di essere italiano e in quanto italiano puoi ancora ricavarti una migliore accessibilità ai diritti sociali”. L’attività dei neofascisti, in fondo, ruota in gran parte attorno al tentativo di creare un piccolo scarto tra sfruttati, dando la speranza ad alcuni di poter raggiungere, attraverso un dato percorso politico, una posizione migliore di rivendicazione sociale. C’è poco da stupirsi, difatti, della recente nota della direzione centrale della Polizia di Prevenzione che ne tesse le lodi, identificandoli come “bravi ragazzi”. Questa definizione se la meritano tutta perché sono tra coloro che chiudono il cerchio dello sfruttamento alimentando la guerra tra poveri, in continuità con la storia che rivendicano sono avvoltoi che agiscono dove le politiche capitalistiche fanno i loro scempi. Del resto non è la stessa bravura di cui si avvalevano i padroni nel ’22 per sconfiggere la lotta di classe sulla scia del biennio rosso? Una certa coerenza nello svolgere diligentemente i compiti bisogna dunque riconoscergliela da sempre.

Il motivo per cui li odiamo ancor oggi è proprio questo: marciano in direzione contraria alla nostra, cercando nella maniera più becera di scardinare una prospettiva di classe tra gli sfruttati e di conseguenza pure i percorsi di lotta che vorremmo s’accendessero contro chi ci governa o possiede persin il suolo su cui camminiamo. Essi sono tra i tanti agenti di frammentazione di una forza che vorremmo vedersi manifestare prima o poi dirompente. E quando capita di sapere che i militanti di Casapound  portano avanti iniziative nei quartieri, pensiamo non sia utile come unica risposta un presidio di fronteggiamento. Il massimo che si potrebbe ottenere è la loro cacciata dalla piazza, certamente auspicabile ma insufficiente. Senza lotte reali contro chi spreme le nostre vite, senza lo svilupparsi di relazioni di solidarietà tra gli esclusi, non è possibile contrastare l’ipotesi della guerra tra poveri fomentata dai neofascisti. I motivi da cui partire per impostare una lotta sono molti, almeno uno per ogni meccanismo di sfruttamento, un esempio può essere ripreso dalle lotte che abbiamo visto con i nostri occhi negli ultimi anni: il fatto che un italiano e un immigrato, magari senza-documenti, si possano ritrovare assieme a un picchetto antisfratto, in un’occupazione, in un’assemblea, durante un blocco delle merci ai mercati generali, è in grado di minare alla base le condizioni materiali che permettono ai vari gruppuscoli destrorsi di proliferare.

L’antifascismo di per sé non costruisce tutto questo.

Ciò non significa che una lotta abbia come scopo la sconfitta del “Fascismo”, con la effe maiuscola. Il Fascismo –  ci venga perdonata la laconicità – non è che una particolare gestione di governo che il capitalismo s’è dato in un determinato periodo storico.

Che i discorsi della settimana antifascista di Vallette-Lucento, rispetto a tante altre iniziative sullo stesso tema che ci sono sempre in città, quest’anno abbiano cercato di vertere sui problemi delle persone nei quartieri proletari e non solo sulla contrapposizione al gruppetto di fascistelli, sembra quindi veramente degno di nota. Forse più di un corteo sotto la pioggia di 200 persone unite da un’eredità culturale.

I neofascistelli che girano per questa città oggi sono un problema, ma piuttosto corollario rispetto ai dispositivi normativi e repressivi che le varie strutture amministrative ci impongono. Di politici e politicanti pericolosi, sicuramente lontani da simpatie fasciste ma armati della retorica edulcorata del viver bene la città, ne vediamo spesso. Sono questi ultimi ora che ci preoccupano maggiormente perché sono coloro che spietrano il terreno affinché sia atto ad accogliere la ristrutturazione del mondo produttivo, di quello riproduttivo e perfino delle maniere in cui ci si deve comportare in strada e dentro casa. Eppure questi girano per la città tranquilli e c’è chi non li considera nemici ma possibili interlocutori. Sarà che non vanno in giro con le lame ma si riempiono la bocca di democrazia partecipata e innovazione sociale per far breccia su alcuni, del ricatto di una vita sempre più misera e della galera per gli altri.

Le periferie che viviamo hanno ognuna storia, architettura e posizioni diverse all’interno della costruzione e della funzionalità olistica della città-feticcio, divisa tra spazi considerati di interesse strategico per la messa a profitto, e altri in cui ancora si deve riversare la mano d’opera di quella che viene definita la post-modernità. Ciò non significa che i quartieri che non sono colpiti da grossi investimenti siano abbandonati, come spesso capita di sentire, dallo Stato. Diamine, fosse vero! La riqualificazione è oramai una strategia di governo urbano che prescinde spesso dai cambiamenti della forma urbis, ma che passa attraverso l’innesto di nuovi modi di vivere lo stesso spazio. Organizzarsi per tenere puliti i quartieri o lavorare comunitariamente per sviluppare l’economia locale e mettere in luce le bellezze di un dato territorio non sono che modalità di disciplinamento al lavoro continuo, alla buona vita con la testa china. E poco importa se c’è chi non riesce a pagare l’affitto o è costretto a rubare le scatolette di tonno al discount. Sarà sfrattato, cacciato o arrestato. E se i quartieri in città sono talvolta molto diversi, i problemi per molti sono gli stessi, quelli legati alla sopravvivenza materiale.

Ecco perché è necessario organizzarsi con chi subisce sulla propria pelle l’edificazione della città nuova, per prenderci ciò che ci serve e che continuano a toglierci: un tetto, la possibilità di muoverci liberamente, una vita non schiacciata dallo sfruttamento dei padroni. Delle lotte efficaci in questo senso ci toglierebbero non pochi problemi, compreso quello di quei bravi ragazzi.