Calma e gesso
Ultimamente abbiamo dedicato molta attenzione e spazio ai divieti di dimora che hanno colpito dodici compagni. Ultimi di una serie ormai lunga di misure che ha consentito alle autorità di levarsi dalle scatole, e di togliere dalle strade, molti individui che lottano.
Ma l’azione giudiziaria contro chi lotta non è certo l’unico volto con cui si manifesta la repressione. Il continuo abbassarsi dell’asticella, che si manifesta nel sanzionare in maniera sempre più dura pratiche di lotta poco rilevanti penalmente, va di pari passo con l’avanzare dello Stato e l’indietreggiare di chi tenta di resistere nei diversi spicchi della sfera sociale.
L’avanzare della normalità statale è il terreno ideale in cui gli uomini di tribunale possono svolgere la loro attività di contrasto alle lotte senza temere di essere granché disturbati. Non è il lavoro degli inquirenti la causa prima del momento di bassa in cui si trovano le lotte, ma ci sembra piuttosto che la macchina della Giustizia abbia cominciato a macinare misure cautelari su misure cautelari proprio quando le lotte si trovavano già in una situazione d’impasse ognuna per specifici motivi.
Una piccola dimostrazione dell’avanzare della “ragion di Stato” l’abbiamo avuta ieri mattina durante uno sfratto in una via del quartiere Aurora.
La proprietaria dell’appartamento sotto sfratto, proprietaria anche del resto della palazzina, si presenta allo sfratto molto presto, accompagnata dalla figlia che le fa anche da avvocato e dall’ufficiale giudiziario. I solidali con la donna che da alcuni mesi non paga l’affitto non sono ancora arrivati, perchè si tratta di un primo accesso esecutivo e nella stessa mattina è in programma un altro sfratto più a rischio. Nonostante sia il primo accesso la proprietaria non vuole sentire ragioni e pretende di rientrare subito in possesso dell’appartamento, la donna sotto sfratto dichiara di non volersene andare e in poco tempo fa capolino quindi una prima pattuglia di polizia. Quando arrivano i primi solidali sono ormai presenti altre due pattuglie di polizia e una macchina con degli agenti in borghese che bloccano l’ingresso del portone sulla strada, mentre i primi due agenti insieme all’ufficiale giudiziario, al fabbro e alla proprietaria sono davanti all’appartamento decisi a entrare.
I solidali fuori non riescono a entrare nello stabile e dalla strada cominciano a urlare slogan e a battere sul portone innervosendo non poco chi sta per eseguire lo sfratto, la sfrattanda dal canto suo si mostra molto determinata e non disposta ad accettare di entrare nel tunnel dell’assistenza sociale come le propongono poliziotti e ufficiale giudiziario. Così dopo scambi di discussione molto accesi la sfrattanda riesce a strappare un rinvio, molto breve, di sole due settimane. L’immediato senso di sollievo per essere riuscita a difendersi da uno sfratto che sembrava ormai certo scompare quindi in fretta visto che il problema è rimandato solo di pochi giorni.
Un rinvio così breve a un primo accesso, l’arroganza di una proprietaria che sin dalle prime battute di questo sfratto non voleva sentire ragioni e le valutazioni della Questura torinese pronta a tentar di eseguire uno sfratto con poche pattuglie sono chiari segni del momento di difficoltà in cui si trova la resistenza contro gli sfratti, un po’ ovunque in città. Specie se li si rapporta con il timore che fino a qualche tempo fa molti ufficiali giudiziari manifestavano nello svolgere il proprio lavoro in alcuni quartieri, o alle ingenti forze che la Questura metteva a disposizioni dei proprietari per provare a eseguire degli sfratti, senza riuscirvi sempre peraltro, o ancora, dall’altra parte, alla genuina arroganza acquisita invece da molti sfrattandi che rifiutavano rinvii di un mese ottenendo proroghe ben più lunghe e allontanando così la preoccupazione di restare senza un tetto sopra la testa.
Far avanzare le lotte e retrocedere la normalità amministrativa, sugli sfratti e sui tanti altri fronti della guerra sociale, è e continuerà a essere la priorità. Si tratta tra l’altro dell’unico antidoto realmente in grado di non far abbassare ulteriormente l’asticella della Giustizia. O di evitare che qualche decina di misure cautelari risulti così gravosa visto l’esiguo numero di uomini e donne che lottano.