Una sorveglianza banale
Da qualche giorno sono scaduti per Toshi i dodici mesi di Sorveglianza Speciale affibbiatigli dal Tribunale di Torino, tra poco toccherà a Fabio e tra due mesi scadranno i termini anche per Paolo e Andrea.
Riportiamo le parole di riflessione che il compagno ci ha affidato allo scadere della misura.
Qui anche una versione in pdf.
Una sorveglianza banale
Domani finirà l’anno di Sorveglianza Speciale comminatami il 22 gennaio 2016.
Sono un po’ spaventato, perché ci si abitua proprio a tutto. Dopo un anno strampalato, dovrò riimmaginare e rimodulare la mia vita (cosa che in effetti tutti fanno in continuazione).
Ho deciso di scrivere qualcosa e pubblicarla, un po’ per me – come per tutti gli scriventi, lo scrivere è sempre, purtroppo, fatto personale – e un po’ per lasciare qualche idea, o perlomeno testimonianza, agli sventurati che andranno incontro a questa misura di prevenzione.
Questo testo non sarà di certo uno scritto di analisi tecnica [a riguardo può essere d’aiuto riguardare le motivazioni delle Sorveglianze emesse a Torino nel 2016, tra cui c’è la mia] o di riflessione politica [di cui non so se ci sia bisogno] circa la Sorveglianza Speciale.
Non è mio intento e non ne ho le capacità.
Certo potrebbe essere considerato materiale da cui partire per tali passaggi, certo è anche che non sarò io a farli, qui ed ora.
Carte
La mia carta di identità ha il bollo sul retro con la dicitura «NON VALIDA PER L’ESPATRIO».
In compenso, son stato fornito di un libretto rosso in tutto simile ad un passaporto.
Temo che sia stato pensato come pseudo-documento da portare sempre appresso. Giravano voci che una sentenza della Cassazione avesse abolito tale obbligo; io di certo non l’ho mai messo in tasca.
In prima pagina c’è graffettata una pagina, originariamente un A4, ridotto ad un A7 credo, in cui sono indicate le prescrizioni per il sorvegliato. Le pagine successive sono bianche, e utilizzate dall’autorità di controllo per annotare controlli a casa e spostamenti.
Prima specificità della mia Sorveglianza: ho un obbligo di rientro notturno dalle 22 alle 05.
Obbligo che osservo nei giorni in cui non lavoro, in cui ho il permesso di tornare a casa alla 01 di notte. Su questo punto c’è stata una resistenza della Procura, con tanto di ispezione sul posto di lavoro per verificare la mia effettiva presenza in veste di dipendente.
Questo rientro notturno a sbalzi ha segnato particolarmente la mia esistenza, in modo buffo e squinternato. Devo dire che non mi è mai capitato di accorgermi di soprassalto che fossero le 21:57 o cose del genere, ma una o due volte mi è capitato di lasciare un conto da saldare in una vineria poco distante da casa dato che il tempo stringeva (o forse saliva il tasso alcolico).
Così, come esempio.
Mi sento di dire che in qualche modo, questa prescrizione accenna un poco della Ragion del Controllo che soprassiede ed innerva molte disposizioni giudiziarie: la valutazione sospettosa e diffidente della notte, la neutralizzazione dei vizi, delle tentazioni, delle cospirazioni, delle marachelle che la notte trasuda e suggerisce.
Si noti che tutti i fatti contestati dalla Procura per l’emissione della nostra Sorveglianza sono avvenuti in un arco che va dalle 06 del mattino alle 20 della sera.
Altra caratteristica della mia Sorveglianza: non ho l’obbligo di soggiorno in un determinato comune o territorio. Ho potuto spostarmi, senza richieste in Tribunale.
Questo l’iter: comunicare all’autorità preposta ai controlli, nel mio caso la sezione Misure di Prevenzione del commissariato di polizia Dora Vanchiglia, data, durata, dettagli e destinazione dello spostamento; partire; arrivare alla mèta e comunicare al commissariato di zona la propria presenza e la propria dimora; rispettare le prescrizioni nel luogo di soggiorno temporaneo; al momento della partenza presentarsi in commissariato e dichiararsi partente; al momento dell’arrivo comunicare il proprio rientro.
Un po’ macchinoso ma fattibile.
Inutile sottolineare come ai vari commissariati in cui son dovuto andare per segnalarmi come Sorvegliato Speciale, il mio caso (e io stesso) sia stato rubricato dall’agente di turno come un timbro su un foglio impilato su un mazzo di fogli. Ovvero un caso di normalissima routine.
Certo, dal commissariato di pertinenza, qui a Torino, partivano, contestualmente al mio spostamento almeno cinque fax: alla Procura, alla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Torino, alla Digos di Torino, alla Digos di Vattelapesca dove andavo, al commissariato che mi prendeva in carico.
Ultima nota di colore, ho dovuto versare una cauzione di 200 euro tramite un modulo dall’Agenzia delle Entrate. Immagino che la cifra sia stata calcolata sulla base del mio stile di vita (da ricordare come nella richiesta della Procura ci fossero approfonditi esami dei conti correnti ed introiti dei proposti). Credo sia un vincolo per il sorvegliato, un modo per non farlo scappare (!!!).
Riaverli sarà complicatissimo, già lo so.
Controllo
È stato lampante da subito quanto di questa misura non importasse ad alcuno dei suoi propugnatori.
Meglio, di come non importasse la sua effettività, ma la sua applicazione in sede tribunalizia.
Quindi nessun agente alle calcagna (lo affermo con discreta sicurezza), nessun trappolone fetente, pochi controlli a casa, nessuno ad orari molesti, direi nessuno strumento particolare disseminato in punti strategici.
Un amico disse «una sorveglianza normale», io chioserei con «una sorveglianza banale».
Senza lanciarsi in spericolate ipotesi o analisi d’accatto, io proporrei (perché ci credo, al di là del buon senso che trasudano) una rapida e tratteggiata serie di concause alla radice di questa modalità di esecuzione della misura:
- la città medio/grande; Torino, seppur stia tradendo una inquietante e morbosa cura per la repressione delle lotte, rimane una città con quasi un milione di abitanti, e relativa frazione criminale e criminogena. Questo per dire che le autorità di controllo e sicurezza hanno moli di lavoro corpose e impegnative, ben al di là degli “antagonisti”. E sono probabilmente le pressioni da parte dei procuratori, delle autorità giudiziarie, da quella strana macchina che è l’opinione pubblica, solo in minima parte e in momenti ben precisi, che costringono l’apparato poliziesco a dedicarsi con cura ai vari movimenti di lotta. In questo contesto generalissimo credo si possano inserire le quattro sorveglianze speciali erogate ai compagni torinesi. Probabilmente se avessero applicato tali misure ai compagni di Cagliari, Venezia, Rovereto, Bologna, Saronno potremmo sentire parlare di altre situazioni.
- l’organo di Pubblica Sicurezza preposto al controllo; nel mio caso è un ufficio di un commissariato di polizia. Seppur famigerato per i ruvidi metodi di contenzione della microconflittualità di strada (sovente ci abbiamo avuto a che fare per le strade di Porta Palazzo, Barriera, Aurora), non si tratta di agenti della Digos. Questo per dire che chi ci ha controllato non sono gli stessi agenti di polizia che abitualmente indagano, stilano rapporti, tracciano identificazioni, arrestano i compagni di Torino. Ovvero agenti con cui, volenti o nolenti, abbiamo un rapporto da anni. Chi ci ha controllato in questo anno di Sorveglianza sono stati agenti di polizia che si occupano esclusivamente di questo, e lo fa come qualunque dipendente statale fa il suo lavoro. Con una rassegnata, stanca ed indefessa costanza. Insomma, senza il trasporto con cui abbiamo visto, negli anni, i digossini fare il loro lavoro.
- la caratura criminale dei sorvegliati; punto che parzialmente si intreccia con quello sopra. Senza aver sotto mano le statistiche, credo che il numero di compagni, negli ultimi venti o trent’anni, sia un’infinitesima parte del totale dei sorvegliati speciali. Questo per dire che, almeno per chi di fatto prende in carico l’esecuzione della misura, noi siamo stati un’eccezione nel panorama degli abituali destinatari della Sorveglianza. Da una parte quindi il nostro essere “politici”, dall’altra essere di fatto sotto misura per una pericolosità sociale relativa e diagonale (secondo le stesse carte giudiziarie), ha fatto di noi, o perlomeno del sottoscritto, un sorvegliato blandamente controllato.
Le giornate
Tra le prescrizioni, una delle più vaghe, e per questo più insidiose perché arbitraria ed interpretabile, è stata quella di non partecipare a pubbliche riunioni.
In effetti, se la gioca con l’obbligo di non frequentare pregiudicati.
Per tagliare la testa al toro, ho deciso di non partecipare ad alcuna assemblea, iniziativa e luogo fisico di ‘movimento’. Ho deciso di lasciare la trasmissione che co-conducevo su Radio Blackout, o di non frequentare lo spazio di documentazione Porfido, ad esempio. Ho evitato le manifestazioni pubbliche e le assemblee più ristrette.
Ho deciso di non avere rapporti, perfino telematici e telefonici, con i – per fortuna ancora pochi – compagni di cui sapevo per certo che avessero affrontato il terzo grado di giudizio.
Mi sembra offensivo per l’intelligenza di chi legge, ma lo faccio comunque, sottolineare come ogni incontro fortuito fosse tuttavia non solo una grande gioia, ma anche un’occasione per lunghe chiacchierate.
Come si può capire, la mia sorveglianza l’ho attuata un po’ da me, magnifico esempio di come ogni schiavo addobbi le sue catene (o per ingentilire e raffinare l’immagine, come secondo un paradigma foucaultiano, sia diventato un perfetto soggetto da Panopticon, il controllore di sé stesso).
Su questo punto tornerò poco sotto, secondo un altro punto di vista, ovvero l’infrazione volontaria e pubblica delle prescrizioni.
Devo dire che un anno senza assemblee di sorta mi ha di certo evitato molte rughe di espressione.
Ho curato molto i miei interessi, sconfinando talvolta nella frivolezza, talaltra nella solitudine.
In prima persona, non ho partecipato alle lotte, fedelissimo alla legge aurea che chi non fa non parla (lo so, forse questa formulazione è lievemente apodittica, ma son convinto che quasi sempre non avere contezza delle situazioni rende praticamente impossibile capire lo stato delle cose, le mancanze, gli spunti utili, le analisi opportune).
Ho frequentato molti compagni, certo. Ma in certo senso ‘singolarmente’, estrapolati da quel contesto che sono le occasioni di – ideazione, discussione, analisi, attuazione della – lotta.
Ogni discussione è quindi diventata giocoforza una tessera del prisma caleidoscopico attraverso cui ho percepito le lotte, la repressione, i progetti, le ipotesi di lavoro, i rapporti tra compagni.
Questa posizione mi ha fatto sentire a volte un fratino confessore, a volte il grande saggio sulla montagna, a volte il coglione perfetto.
I dubbi
Non si tema che abusi dello spazio scrittorio per sfoghi tardoadolescenziali.
Tuttavia mi sento di dover palesare qualche domanda che mi è sorta in virtù di questa misura repressiva, non certo per aspettare risposte, ma per esporre l’ordine dei problemi che eventualmente possono sorgere in tale condizione.
Da subito ho deciso di rispettare tutte le prescrizioni, senza fare pasticci.
La misura comminatami non prevede l’arresto per le sue infrazioni (come invece la Sorveglianza con obbligo di soggiorno), ma eventualmente dei processi penali indipendenti da essa.
Non c’è alcun collegamento diretto tra la violazione delle prescrizioni e riapplicazione della Sorveglianza.
Tuttavia, senza calcolare la vaghezza giurisprudenziale attorno a tali misure, gli effetti “psicologici” sul sottoscritto sono stati un po’ questi. Nel senso che ho provato a vivere in modo da evitare assolutamente la prospettiva di vivere un anno di sorveglianza, e poi un altro, e poi altri due e poi altri quattro e poi e poi e poi…
Ci tengo a sottolineare invece, orizzonte ben più fosco, che la Sorveglianza Speciale può essere riproposta ogniqualvolta che l’autorità competente ne avverta il bisogno (e si interrompe in caso di carcerazione, salvo poi ricominciare da dove era stata interrotta).
Questo significa che, al di là dell’osservanza o delle infrazioni, per ragioni che possiamo solo ipotizzare un procuratore possa inoltrare ulteriori proposte di Sorveglianza. L’efficacia della prima misura di prevenzione, ulteriori attività criminogene (che nel mio caso sarebbero le stesse che “compio” da anni a questa parte), cattive frequentazioni (che per me sono i miei compagni e amici), o chissà cos’altro.
Insomma, davvero una pena infinita.
Un altro passaggio di cui vorrei tentare una rapida analisi. Per me e per chi legge.
La stagione delle infrazioni pubbliche delle misure cautelari, proposta elaborata e messa in atto, credo per la prima volta, dai compagni torinesi in occasione di una pioggia di divieti di dimora comminati nel maggio 2016. Proposta che poi ha avuto eco anche in altri contesti di lotta, raccolta e attuata da altri compagni.
E io? Cosa avrei dovuto fare? Che contributo alla lotta sarebbe potuto essere la mia violazione? Che cosa sarebbe significato per me un simile slancio di volontà?
Ho rimuginato, ho avuto modo di parlarne con vari amici, fratelli e compagni, ma infine me ne son stato nel mio esilio dorato. Principalmente per i motivi già esposti, ovvero il timore di andare incontro a conseguenze di cui poi non avrei saputo accettare il peso. E così è stato anche in occasione delle misure cautelari più recenti, le cui violazioni han portato dei compagni in carcere.
Non ho timore di dire che non ho infranto la mia Sorveglianza per paura, per calcolo.
Calcolo, sia chiaro, che non è mai stato un asse, e vorrei sia sempre così, dei miei comportamenti.
Per lasciare un pensiero interrotto, su cui ovviamente dovrò tornare a lungo e a fondo, mi spaventa molto di più la vita diminuita della Sorveglianza Speciale che quella reclusa del carcere.
O perlomeno, le mie brevi esperienze detentive son state più stimolanti e intense dell’anno da sorvegliato che mi appresto a chiudere.
Non mi permetto di avventurarmi in valutazioni, macabre e irriguardose, su cosa sia “meglio”, e ci mancherebbe solo.
Come ho scritto, non è mio interesse una pubblica lamentazione. Più fruttuoso spero sia la condivisione di tali dubbi.
Cosa sarà la mia vita dopo la Sorveglianza Speciale?
Chiaramente non molto diversa da quella attuale per le sue grandi linee.
Ma dovrò mettere in conto che il curriculum giudiziario (affatto faticosamente) affastellato possa diventare parecchio ingombrante nelle occasioni di lotta, soprattutto quelle pubbliche.
Cosa fare? Le ultime file? La sempre comoda poltrona da pensatore? Il minareto da arringafolle?
O viceversa, per assecondare anche le radici genetiche, l’entusiasmo del kamikaze?
Non so bene, temo che non ci siano linee guida precise o peggio ancora, giuste attorno al da farsi nella condizione di ex sorvegliato speciale.
Qui ho voluto solo raccontare a grandi linee cosa mi è successo in quest’anno. E sono disposto a ragionarne con chiunque sia interessato o semplicemente curioso.
Di certo, magrissima consolazione, le assemblee le potrò tornare a frequentare. Con buona pace delle rughe.
Torino, 20/01/2017
Toshiyuki Hosokawa
o meglio, Toshi