Dal becco dell’OCA

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È forse indicativo dei tempi che corrono il tanto battibeccare tra le corti politiche e istituzionali a proposito di una manciata di case popolari occupate tra giugno e luglio. Indicativo di quanto purtroppo sia un fatto così inusuale, almeno nel capoluogo piemontese, tanto da assurgere a materia di sollazzo per i sedentari e annoiati lettori estivi. Eppure lascia trasparire in sottofondo, altrettanto indice dei tempi, quanto esista tra le fila della controparte il timore che il fenomeno dilaghi in un batter d’occhio.

Così mentre i consiglieri di opposte fazioni si contendono la ragione su quante enclavi di illegalità esistono a Torino e su come dovrebbe porsi la Città nei loro confronti, zitto zitto l’OCA (Osservatorio sulla Condizione Abitativa) continua il suo lavoro e senza troppo scalpore ha pubblicato il suo tredicesimo rapporto. I media questa volta non hanno accompagnato la pubblicazione con proclami scandalistici e roboanti su “Torino capitale degli sfratti” o simili, come è avvenuto nel passato recente. Sembra che nel mantra delle programmazioni strategiche tarate al 2020 che si possono leggere a trecentosessanta gradi sui numerosi pamphlet della Città Metropolitana, l’anno 2016, almeno sul fronte casa, sia passato con noncuranza come un macigno incastonato su di un cammino stabile e sicuro che non ammette deviazioni.

Nonostante il rapporto non contenga significative novità, vale la pena addentrarsi tra una serie di informazioni e aggiornamenti che oramai sanciscono definitivamente la linea di trasformazione del welfare e la modalità di gestione dell’impoverimento della popolazione. Cosa farne dei bisogni della gente? Soprattutto, cosa farne di quelli insoddisfatti?

Per chi si voglia cimentare nella noiosa lettura del testo non occorrerà scorrere troppe pagine per vedere confermate a chiare lettere queste “linee di tendenze”, a partire proprio dall’introduzione:

a) la riduzione dell’impegno finanziario dello Stato sulle politiche per la casa, in un’ottica che tende a privilegiare lo strumento indiretto del sostegno alla persona, piuttosto che l’investimento edilizio in nuove costruzioni o recuperi

b) il demandare alle dinamiche del mercato parte delle risposte che l’edilizia sociale non è più in grado di dare

Eppure anche su questo fronte l’impegno delle istituzioni comunali e regionali è abbastanza altalenante. Da un lato l’agenzia Lo.C.A.Re. nel suo obiettivo di alleggerire la pressione sociale “veicolando verso la locazione privata famiglie con i requisiti per ottenere la casa popolare” registra un aumento del 18% del contributo erogato rispetto all’anno precedente. Dall’altro invece il Fondo Nazionale di Sostegno alla locazione attesta una consistente diminuzione dal 2012 ad oggi, dovuta anche a requisiti di accesso più stringenti e a minori risorse finanziarie.
Resta ben saldo e slanciato il FIMI (Fondo per le morosità incolpevoli) detto anche Salvasfratti, con la sua partecipazione tra Comune e fondazioni bancarie. Tuttavia nel complesso si parla sempre di un apporto quantitativo molto risicato, soprattutto se paragonato alla massa di domande di casa popolare. Il tanto decantato Fondo salvasfratti seppur elargisca somme considerevoli (fino a 8000 euro per nucleo familiare) ha prodotto a malapena 136 contratti di sostegno alla locazione, mentre più in generale l’intervento di Lo.C.A.Re. oscilla attorno ai 700 casi di sostegno. Le domande di alloggio E.R.P. considerate valide a tutto il 2016, invece, sono state 14.575. Solo il 25% di queste domande è stato istruito e solo il 15% ha raggiunto almeno gli 11 punti necessari a entrare a far parte degli aventi diritto. Dei 2.136 sopravvissuti solo 402 hanno ottenuto una casa, il numero di assegnazioni più basso degli ultimi dieci anni.

Questo significa che l’esigenza di un tetto sopra la testa è ancora altamente insoddisfatta da ciò che enti pubblici e privati hanno intenzione di offrire. Anzi ampliando ancora un poco il campo visivo potremmo dire che il problema riguarda anche chi una casa ce l’ha ma urge pagarla di meno, abbattere le spese per questo bisogno primario. Il miraggio della casa popolare, quasi un retaggio del secolo scorso che però tuttora persiste nella mente e nelle aspettative della gente, risponde anche a questa urgenza ed è confermato dalla mole esorbitante di domande presentate. Non si tratta solo di avere una casa ma di averla nei limiti della decenza, per vivere dignitosamente e dedicare i propri sforzi economici per fare altro, per nutrire e crescere i propri figli, etc.

Dato che a quanto pare, ben oltre le congetture di giornalisti e politicanti, un embrione di lotta sulle case popolari esiste, almeno nel tentativo pratico di strapparle al Comune e all’ATC, ci si potrebbe domandare: chi ricercare lungo questa via? Quali complici ci si potrebbe aspettare di incontrare?

Sicuramente i dati del rapporto OCA parlano chiaro, secondo gli indicatori dell’Agenzia territoriale per la casa il 39% delle richieste riguarda casi considerati “urgenti” mentre il 27% riguarda casi “molto gravi”. In generale possiamo dirci che a un primo step si incontreranno quelle persone che non hanno nessun altra soluzione per avere almeno un tetto sopra la testa, che sono costretti dalla pura sopravvivenza a occupare una casa e tenersela, come è d’altronde registrato anche dall’aumento di occupazioni abusive nel 2016 (83). Ma se lo stato sociale degli ultimi trent’anni si è sempre più orientato non al sostegno dei poveri più poveri ma di quel ceto medio impoverito da mantenere sul mercato, con aiuti all’affitto e con i tanti progetti di social housing temporanei, esiste forse un lato B di questa famigerata fascia grigia? Il lato di quelli che non ottengono alcun sostegno, che non sgomitano abbastanza, che restano esclusi dalla lotteria di questa manciata di aiuti disponibili? Il lato B di chi ce la fa ma a patto di stringersi e sovraffollare un bilocale, di appoggiarsi continuamente da amici e parenti, di vivere una vita borderline sui confini dell’inclusione sociale? E infine come potrebbe questa differente gradazione di sfruttati incontrarsi, creare legami di solidarietà, lottare contro il nemico comune? Come riuscire a individuare gli obiettivi comuni, le parole d’ordine su cui intendersi attraverso le etnie e le provenienze geografiche?

Queste domande restano aperte, se continueremo a porcele potrebbero sviluppare a pioggia una serie di considerazioni per capire come incontrare chi ci sta attorno. Intanto il Comune e la Regione non trattano di certo meglio chi è già assegnatario di un alloggio, ma non ce la fa a pagare interamente il canone o le spese dei servizi. Il Fondo Sociale ha coperto solo il 21% della morosità incolpevole, le persone non riescono a pagare e l’ATC di conseguenza se ne frega di qualsiasi altra spesa di manutenzione, se non addirittura inizia a stringere la corda sulle procedure di sfratto. A poco servono i tentativi di “miglioramento della vita di quartiere” nei blocchi di E.R.P. tramite i Contratti di Quartiere e l’intervento nelle co-abitazioni ATC di giovani volenterosi, se poi in un posto come via Ghedini e via Gallina (Torino nord) nella porzione di territorio interessata si attesta il 54% di disoccupazione assoluta. Insomma anche sul fronte interno di chi già vive nelle case popolari si potrebbero trovare complicità e sostegno, un mondo anche questo tutto da scoprire.