Bariccopoli

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La celere carica un gruppo di studenti all’interno del Campus Einaudi, il plexiglass li spinge via per allontanarli dal banchetto dei fascisti del Fuan.

Poche ore dopo nello stesso luogo attraverso alcuni interventi dell’incontro “Cosa succede in città?”, momento in cui l’Accademia ha concesso alla realtà di esprimere qualche parola non autorevole su ciò che accade tra le vie di Aurora, emerge qualche sprazzo in più del ruolo della polizia in questi ultimi giorni e nella formazione dei rapporti sociali. Non è un caso che Fabrizio Ricca, consigliere capogruppo della Lega, porti le sue rimostranze all’Università e in varie testate locali contro quest’incontro, sostenendo:

«Forse questi docenti che vogliono capire “cosa succede in città” dovrebbero invitare ai loro appuntamenti organizzati in ateneo anche i rappresentati dei sindacati di polizia».

Ebbene, a una prima lettura quest’affermazione suscita un naturale ghigno, ma se la si riguarda con riferimento a un’istituzione in cui per anni per laurearsi in Scienze Politiche o in Sociologia bisogna imparare come fosse una formula matematica che “la polizia è il dispositivo statuale che deteniene il monopolio della violenza per il mantenimento dell’ordine interno e il rispetto della legge” si è costretti a soffermarvisi un po’ di più perché, checché ne dica la teoria democratica, il discorso di Ricca svela un’attuale quanto orrenda verità: si scopre oggi che sempre più la polizia, cioè il braccio armato dello Stato, può essere considerata come una forza politica, da inserire come le altre forze sociali all’interno di un dibatto. E si guardi bene che Ricca non parla di invitare il questore e la sua conseguente decisionalità ma proprio gli agenti della polizia, come fossero un organo dotato di una coscienza autonoma, per l’appunto politica, che va ben oltre quello che la filosofia del diritto per qualche decennio ha descritto. Fabrizio Ricca di certo esagera e pecca di idiozia a pensare che la polizia sia un attore sociale che vale uno come un individuo e possa essere inserito come il signor Mario Rossi in un fantomatico parterre pluralista, insomma stiamo pur sempre parlando dell’organo per eccellenza dello Stato!

Eppure la sua arrogante richiesta dice molto su questi tempi: la ristrutturazione dello stato capitalista ha nell’ultimo decennio messo il piede sull’acceleratore, la sua economia che per più di un secolo a queste latitudini e soprattutto in una motorcity come questa ha avuto una precisa normatività fatta di lavoro in fabbrica, casetta di proprietà, automobile e servizi sociali non c’è più. A quello sfruttamento ordinato, che formava un certo tipo di soggetto con una particolare coscienza del mondo, si è sostituito uno sfruttamento caotico dove la fabbrica è diventata una rinnovata schiavitù in paesi lontani e un rovina spettrale nelle periferie occidentali, e qui in occidente il lavoro è trasformato nella capacità imprenditoriale degli individui di mettere a valore ogni capacità personale, ogni relazione di conoscenza, ogni cosa financo l’anima. Questo è ciò che viene continuamente promosso dai discorsi dei politici, da progetti delle fondazioni, dalla psicologia motivazionale, dai finanziamenti europei, dalle onnipresenti pubblicità e ultima non ultima dall’Università. L’insieme degli uomini ora è stato fatto coincidere con il mostro del mercato che ha divorato l’intero globo, distruggendolo, e all’interno di questo gli uomini si fanno la guerra per la sopravvivenza: non c’è lavoro per tutti, non ci sono posti all’ospedale per tutti, non c’è cibo per tutti, tra poco non ci sarà più spazio per tutti.
Questa non è una guerra metaforica ma reale, le persone non si tengono più insieme da legami di solidarietà in cui ci si guarda in faccia riconoscendo l’altrui umanità, ma si odiano in una maniera terribile e inedita, non più giustamente canalizzando questo odio contro i responsabili  di questo mondo di miseria, troppo lontani fisicamente e dalla comprensione dei più, ma insultandosi per strada, augurandosi morte e stupri sui social. Tutto questo – manco a dirlo – è più percettibile nelle città dove la popolazione si affolla, nei quartieri poveri dove la guerra diventa disperazione di perdere un tetto sopra la testa o contesa per una giornata di lavoro da badante. I vecchi paradigmi di liberazione o anche semplicemente di emancipazione non sono sentiti che da pochi e invece in questa guerra l’unico garante di mantenimento dell’ordine è proprio la Polizia, metodo di normalizzazione preferito  dai governi di tutto il mondo, ma più che spudoratamente promosso dall’ultima reggenza di questo paese e dalla sindaca di questa città. L’individuo sfigurato da questo sistema di cose, che non ha più nessun altrove in cui rifugiarsi, è di per sé un pericolo. Una società di individui in guerra senza più un orizzonte comune è una società che necessità di un dispositivo poliziesco sempre maggiore che si presenta come l’unico portatore di un’idea politica sintetica ma precisa: il mantenimento dell’ordine statuale nel caos di un’umanità che alcuni definiscono depoliticizzata, altri senza più morale, insomma un’umanità che esprime così tante tendenze e soggettività da non essere più comprensibile, da creare misconoscimento tra gli individui.
Ecco perché oggi a Torino si inizia a parlare più concretamente di quello che è accaduto, perché  alla fin fine sono avvenute due cose che hanno alzato il livello della riflessione sulla contemporaneità. Il primo motivo è che hanno arrestato e rinchiuso in alta sicurezza con lo spioncino del blindo saldato sei compagni e compagne accusandoli di associazione sovversiva, sei compagni che con tutto il loro grande cuore, sfidando questa realtà sfigurata, hanno voluto credere ancora che l’uomo meriti un orizzonte di libertà e uguaglianza. Questa sfida è stata lanciata in maniera esplicita, mostrando tutta l’avversione che meritano posti come i Cpr, prigioni europee per chi non ha i documenti in regola, posti in cui chi vi è rinchiuso ha gettato un grido di rabbia così grande che non poteva che essere accolto, un grido che rappresenta uno dei punti più alti della lotta di classe in Italia, di tante e tanti migranti che hanno distrutto la gabbia in cui erano rinchiusi. Questa lotta contro quei luoghi, fortificati ancor di più dall’ultima legge sulla sicurezza di Salvini e Di Maio, questi compagni l’hanno –  e l’abbiamo –  portata avanti chiaramente e mostrando inimicizia verso chi di quei posti infernali decide con burocraticismi che la nostra umanità non può perdonare, dei burocraticismi che sono diventati anche minacce e sordide dichiarazioni con l’attuale governo di Lega e 5 Stelle che promettono un futuro in cui i centri di detenzione per migranti non potranno più essere scambiati per un’eccezione al diritto, come sostiene qualche teorico, ma che si presenteranno esplicitamente per quello che sono: laboratori biopolitici in cui si testa la capacità a sopportare la disciplina e la reclusione future in base a un criterio di geografia, di produttività e di sottomissione.
Il secondo motivo è che lo sgombero dell’Asilo è stato un segnale incontrovertibile di repressione nei confronti di qualsiasi spazio fisico o non in cui si provi a organizzarsi per qualcos’altro, qualcosa di totalmente diverso dall’uomo-impresa, da quella guerra endemica che si diceva, organizzarsi per una vita degna e solidale tra chi in questo mondo subisce le peggiori vessazioni e indirizzare la lotta comune contro chi decide in maniera sempre più spudorata, contro un potere predatorio che tenta di arrivare alla nuda vita. Questo è ciò che spaventa le autorità perché tra qualche anno, quando le condizioni materiali e climatiche peggioreranno ulteriormente e segnaranno l’esclusione  dalla possibilità stessa di vivere di una fascia ampissima di popolazione, non ci dovranno essere esempi di organizzazione sociale non solo anarchici ma nessuno che sia diverso da quelli dei potenti della terra che decideranno i sommersi e i salvati.

Dal 7 febbraio, giorno in cui è iniziata l’operazione di sgombero dell’Asilo occupato, tutto questo, declinato magari in maniere  e sensibilità differenti, è stato sentito da tanti, per cui si è trovato un coraggio generoso in grado anche di fronteggiare proprio la polizia, come è accaduto nel corteo di qualche sabato fa ma non solo, sfidando una forza immane che è fisica e politica, riconoscendo che quella non può essere né interfaccia dei quartieri dove viviamo, né di un mondo giusto.

Non è un caso che dopo l’incontro al Campus duecento persone dall’università siano uscite per tornare al “fronte”, vicino al deserto della militarizzazione intorno a via Alessandria 12, per occupare un pezzo di questa città con un presidio h24 di alcuni giorni in cui organizzare dibattiti e iniziative per resistere e iniziare a farlo da dove vorrebbero cacciare balonari indecorosi, occupanti di case e rivoltosi. Questo pezzo di città guarda caso è il piazzale davanti alla Scuola Holden, uno dei centri nevralgici della riqualificazione prezzolata del quartiere. I padroni della fabbrica di scribacchini hanno messo subito le mani avanti con un comunicato in cui alzano le mani: “non abbiamo voluto noi lo sgombero dell’Asilo!“. Del resto essere tacciati di farsela con la polizia non tira troppo nelle vendite dei romanzi postmoderni alla DeLillo, ma nelle retrovie Baricco da canonico imprenditore si intrattiene più che volentieri con gli agenti della Digos che tengono sotto controllo la situazione.

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Ma per approfondire il discorso di come questi loschi figuri da pubblicità letteraria vedano l’abusata questione de “Il diritto alla città” avremo tempo, questo tardo pomeriggio insieme in piazza è troppo piacevole per sprecarlo ulteriormente in ogni tipo di scrittura, anche la nostra.

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